Secondo il punto di vista degli storici, l’epoca delle Grandi Esplorazioni ebbe inizio con un evento del tutto accidentale: l’equipaggio del principe Enrico di Aviz, detto il Navigatore, che combatte strenuamente per rimanere in rotta durante un forte aumento di un improvviso vento di traverso. Soltanto per raggiungere nel 1418 con due sue navi, in rotta per le isole Canarie, la leggendaria Terra Benedetta che era stata descritta nelle Vite Parallele di Plutarco, da un marinaio dell’Atlantico al generale romano della Tarda Repubblica, Quinto Sertorio. Per poi scomparire totalmente dalle cronache, fatta eccezione per la potenziale visita dei vichinghi, che nel corso delle proprie peregrinazioni di quei luoghi non si spinsero molto lontani dalla spiaggia, attorno al nono ed undicesimo secolo e una leggenda successiva, relativa alla venuta del nobile inglese Robert Machim con la sua spasimante durante il regno di Riccardo III. Questo perché caratteristica originaria dell’intero arcipelago di Madeira e soprattutto l’omonima isola principale, il cui nome significa per l’appunto in lingua portoghese “Legno” era il suo essere completamente ricoperto da una fitta giungla sub-tropicale, lo straordinariamente biodiverso ambiente vegetativo noto con il nome di laurisilva. Almeno finché l’arrivo dei coloni su più larga e significativa scala, verificatosi a partire dal 1420, non avrebbe avuto inizio con il più antico ed utile strumento dell’umanità: un enorme incendio. Seguito da altri più piccoli, finché sostanzialmente l’intera parte meridionale della principale terra emersa di un’estensione di 740 Km quadrati non fu trasformata in uno spazio pianeggiante e privo d’ingombranti alberi e altri orpelli tipici di quel paesaggio lontano. Il che diede inizio alla lunga tradizione agricola, inizialmente dedicata alla barbabietola da zucchero e poi a una rinomata produzione vinicola, che sarebbe rimasta indissolubilmente legata alla storia di queste terre. Il che ci porta alla domanda di come, esattamente, simili coloni laboriosi fecero in modo per garantire un’irrigazione altrettanto valida, nella zona diventata secca e arida lasciata indietro dai loro distruttivi predecessori, perennemente battuta dai venti caldi provenienti dal meridione africano. E la risposta di costoro, concettualmente semplice, benché priva di termini di paragone per le specifiche metodologie e l’estensione della sua costruzione. Le loro levadas costituiscono a tal proposito la più eccezionale versione immaginabile di una fitta rete di canali simili concettualmente ad acquedotti di epoca romana, finalizzati a veicolare ingenti quantità d’acqua dalle sommità vulcaniche dell’isola fino ai suoi pianeggianti, e brulli spazi dedicati all’agricoltura. Grazie all’operato dei consorzi di cooperazione autogestiti dai coltivatori locali con il nome di heréus, che ne affidavano la costruzione a professionisti specializzati, i rocheiros, garantendone in seguito il mantenimento, dietro il pagamento di una partecipazione ragionevole e ricorrente. Il che avrebbe lasciato, ben presto, l’isola attraversata da una grande quantità di sentieri paralleli a simili canali, tali da raggiungere i 3.000 Km complessivi diventando potenzialmente la principale metodologia di spostamento tra i diversi insediamenti posti in corrispondenza dei punti d’approdo. Nonché la meta di una visita esplorativa strana ed affascinante…
montagna
Lassù in Tibet, il fiore che si ammanta di un bianco lenzuolo invernale
Questo è, tante volte, il funzionamento di Internet: clicchi mentre stai navigando sul titolo che riporta la dicitura “Una terra [biologicamente] diversificata: come i pika della pianura sopravvivono al duro inverno tibetano” per trovarti a guardare un servizio pubblicato dalla Tv di stato cinese. Ora, il pika dovrebbe essere, come potreste già sapere, un piccolo mammifero lagomorfo simile ad un coniglio, ma privo delle sue caratteristiche lunghe orecchie, più simili a quelle di un topo. Se d’altra parte non ne aveste mai visto uno prima d’ora, il video in questione non potrà certo accorrere in vostro aiuto. Poiché parla in verità di un argomento molto diverso, relativo alla natura ecologica di una particolare specie vegetale… Per anni ed anni, salvo un’improbabile (ma pur sempre possibile) rettifica dei titolari del canale, ogni strumento di ricerca bibliografica relativo ai pika tibetani condurrà erroneamente alla trattazione di questa pianta, un problema esponenzialmente più grave tanto più risulta essere popolare l’autore della trattazione. Il che, in questo caso specifico, potrà generare al massimo qualche mezza dozzina di scrollate di spalle: chi mai potrebbe confondere, d’altra parte, un appartenente al mondo animale con qualcosa che cresce e si moltiplica sfruttando principalmente l’energia del sole? Benché il caso voglia, relativamente a questa stessa presenza del cosiddetto tetto del mondo, che il suo nome tradizionale sia situato all’origine di una vasta serie di fraintendimenti. Rispondendo fin da tempo immemore all’espressione di Brahma Kamal (letteralmente: Loto di Brahma) ed essendo per questo associato ad un’ampia serie di rituali religiosi induisti, come offerta o per le acclarate capacità taumaturgiche dei composti presenti all’interno dei suoi petali e foglie, tra cui metaboline e sesquiterpeni dalle reali capacità antinfiammatorie. Entrambe caratteristiche attribuite nei fatti ad un’ampia serie di piante, molte delle quali non sono effettivamente un loto. Ma in modo particolare ad almeno un’altra specie non nativa, completamente diversa dal punto di vista della classificazione tassonomica e l’aspetto esteriore delle sue infiorescenze. Un vero peccato, per la maniera in cui finisce per diffondere ulteriormente l’attribuzione di nozioni errate per quanto concerne entrambe le varietà coinvolte.
Non molte piante, d’altra parte, assomigliano alla Saussurea obvallata, un membro della famiglia di erbe di montagna famose per le proprie teste floreali composite e molto dense chiamate in gergo scientifico capitula, da cui deriva frequentemente un tipo di frutto secco chiamato achene, consistente di un duro e piccolissimo involucro, appena sufficiente a racchiudere e proteggere il seme contenuto all’interno. Il che si applica effettivamente anche alla “vera” Brahmakamal, benché le somiglianze con la tipica interpretazione di tale stirpe botanica sembrino fermarsi in tal punto, vista la natura estremamente atipica dell’ambiente in cui essa è abituata a crescere: tra i 3.700 e 4.600 metri, lungo pendici montane del tetto del mondo battute da venti significativi e con un grado d’umidità piuttosto basso, dove le temperature spesso al di sotto dello zero hanno da tempo sterminato la discendenza di piante non altrettanto resistenti. Il che non sembra tangergli più di tanto alle comunque infrequenti macchie dal gambo verticale, in cima al quale figura nel corso dell’intera stagione monsonica quello che potrebbe a tutti gli effetti ricordare una sorta di bulbo di color verde rossastro, situato in posizione impossibilmente apicale. Ma le apparenze spesso ingannano e quello che stiamo vedendo, avvicinandoci soltanto un po’ di più, può rivelare la sua effettiva ed insolita natura, di una vera e propria capsula di sopravvivenza costruita da questa figlia non-particolarmente-pelosa, niente-affatto-quadrupede degli altipiani…
A proposito degli eccezionali asini maratoneti del Colorado
Dopo 18 giorni e 17 notti trascorse a risalire il fiume South Platte, quindi arrampicarsi lungo il canyon di Clear Creek e su per le pendici delle Montagne Rocciose, Edmund Styles cominciò a credere che qualcuno giù al campo si fosse preso totalmente gioco di lui. Due settimane e mezzo trascorse a fermarsi, scaricare il setaccio dal suo fido compagno e filtrare, filtrare l’acqua alla ricerca della piccola scintilla dorata, la cui presenza gli era stata garantita dall’acquisto di una serie di mappe non propriamente a buon mercato. “Corsa all’oro dei miei pantaloni, non è vero, Burrito?” il piccolo asino di famiglia, dal muso bianco e il manto marrone scuro, face un movimento espressivo con le orecchie, producendo un raglio leggero. Certo, a lui una passeggiata, per quanto lunga, faceva soltanto piacere. A patto di non sentire rumori o vedere movimenti improvvisi. Con un sospiro, Edmund si spostò davanti perché l’animale capisse che era giunto il momento di rallentare. Chiamatela, se volete, una premonizione. E fu in questo preciso modo che, chino sopra l’acqua ed impugnando l’attrezzo simbolo del suo mestiere, vide finalmente comparire in mezzo alle proprie mani l’auspicato biglietto della sua rivalsa finanziaria e sociale, subito seguìto da qualcosa che nessuno, mai, avrebbe voluto scorgere in quei momenti: una sagoma scura all’orizzonte, che risaliva lentamente il sentiero. Il setaccio a forma di padella in una mano, nell’altra una corda non dissimile da quella che lui usava per condurre Burrito. E allora, capì: non importa quanto avrebbe potuto fingere indifferenza. Non importa quello che avesse detto oppure tentato di fare. Quell’intruso, quell’infingardo Cercatore materializzatosi dal nulla, avrebbe trovato lo stesso segno tra le invitanti acque fresche del torrente. E come lui, si sarebbe volto per tornare di gran carriera a Georgetown. Tanto valeva, dunque, tentare di bruciarlo sul tempo: “Sei pronto, amico mio? Al segnale…3, 2…” I picconi e le pale d’ordinanza produssero un rumore sferragliante, mentre l’asino voltava il proprio senso di marcia con la fretta di un vero drago sputafuoco. “E adesso, Via!” Mentre acceleravano in discesa, l’altra coppia era più vicina. L’asino rivale, un candido esemplare con la coda portata di lato, lanciò un fragoroso IH, OH; IH, OH, segno che anche lui era stato fatto girare per tentare un rapido ritorno al punto di partenza. Edmund evitò di proposito di guardare in faccia il suo rivale. Si sentivano strane storie sui sentieri di questa contea, e non tutte di un tipo rassicurante. In ogni caso, che differenza poteva fare, una pistola era soltanto l’ultima risorsa, di fronte al diritto che proviene dalla rapidità… Entro la sera di quello stesso giorno, lui e Burrito avrebbero varcato la porta dell’Ufficio Commissioni. 45 Km in poco meno di 12 ore, difficile forse, ma non impossibile. Avendo la ricchezza, come carota!
Nella nomenclatura statunitense dell’inizio del XIX secolo, il burro non era un condimento bensì per analogia spagnola, il più importante tra i quadrupedi, poiché a differenza d’imponenti e nobili equini, poteva essere impiegato al fine di navigare contorti tragitti, verso le radici di quell’albero minerario che aveva saputo definire, e connotare, plurimi recessi avventurosi del vecchio West. Nient’altro che i filoni abbastanza accessibili, ancora privi di etichette o attribuzioni, della forma maggiormente pura e spendibile del minerale più duttile, splendente e prezioso in base alle arbitrarie cognizioni umane, fratello maggiore del “comune” argento. Oro all’origine della fortuna, e qualche volta la condanna d’innumerevoli vite, benché presto soprattutto nei confini dell’attuale territorio facente parte degli stati di Colorado, Kansas e Nebraska venne stabilito una sorta di codice d’onore tra i minatori. Nessuno dei quali, se aderiva al codice, avrebbe fatto ricorso alla violenza in caso di ritrovamenti conflittuali, lasciando piuttosto che fosse l’ordine di ritorno presso le autorità civili a definire chi dovesse ricevere l’esclusivo accesso all’agiatezza futura. Quindi, con l’esaurirsi degli affioramenti superficiali e il conseguente declino della figura del cercatore d’oro entro gli anni ’60 e ’70, svanita la ragione per spronare innanzi i propri burros, coloro che li avevano addestrati continuarono lo stesso farlo. Dal che nacque, imprescindibilmente, un’idea…
4×4 importanti lezioni offerte dal maestro del recupero stradale statunitense
Angeli di una terra promessa, visioni di un’ambita salvezza. Guardandoti attorno smarrito, cerchi un volto tra gli alberi che possa servire a riportarti all’interno della cerchia del mondo civilizzato e tutto ciò che appartiene ad esso. In quale improbabile maniera, ancora una volta ti chiedi, siamo arrivati ad un simile punto di non ritorno? Forse nel momento in cui, per risparmiare qualche dozzina di minuti, hai deciso d’imboccare la salita a gradoni della rinomata Cadillac Hill, un susseguirsi di rocce intervallate da radici esposte sulle pendici collinari a ridosso del lago Tahoe, quando la spia dell’olio era ormai accesa da diversi fatidici minuti. Ma era davvero possibile, a quel punto, mostrarsi pavidi di fronte agli amici che componevano il resto della carovana? Del tutto inimmaginabile. Ecco perché di certo l’inizio della fine è stato il punto in cui hai affrontato gloriosamente, senza guardare indietro neppure una volta, la roccia di Silby avendo cura di non avvicinarti dalla direzione del ruscello, ricordando il consiglio degli esperti: “Ruota bagnata, macchina bloccata”. Il successo che porta all’eccessiva sicurezza. Non che a quel punto sarebbe stato realmente possibile ritornare al piccolo resort delle Rubicon Springs, tra campeggiatori ed avventurieri di una più “bassa” o comunque “prudente” caratura. “Ah, ci sono!” Esclami tra te e te, mentre guardi il fumo che fuoriesce dal cofano rimasto semiaperto, dopo il surriscaldamento oltre ogni margine previsto dal manuale di ogni singola parte mobile all’interno della tua Jeep Wrangler color cocomero d’inverno: “Se c’era stato un buon momento per voltarsi a 180 gradi, è stato quello in cui hai intrapreso dal basso la Little Sluice” Quella pendenza dalle multiple pietre sovrapposte, uno dei pochi tratti del sentiero dove le autorità locali si sono sentite obbligate ad intervenire, rimuovendo gli ostacoli più grossi che agivano come spalti naturali di una sorta di stadio per i curiosi accorsi dai quattro angoli della California, uno dei pochi stati dove le strade riescono ad essere, talvolta, opzionali. Ancora una volta tenti di girare la chiave d’accensione, con uno sguardo sconsolato rivolto alla tua ragazza, al cugino di lei ed il caro insistente amico di tante scorribande in età scolare. Che continua insistentemente a mostrarti un video dal cellulare, il video di un canale YouTube che a quanto dice, contiene la chiave della sua e vostra salvezza: “Guarda, guarda, fidati, arriverà. Io l’ho chiamato appena siamo rimasti bloccati stamattina e tra qualche minuto, ne sono certo, arriverà da noi!” Intercessione divina? Tutti i santi del calendario? Mentre tenti di ricordarti la data per iniziar l’appello in maniera cronologicamente tematica, una forma gialla e squadrata inizia a far capolino tra gli antichi alberi del Rubicon Trail. L’amico sembra essere rimasto per una volta del tutto senza parole, ed in effetti a ben guardarlo, parrebbe addirittura mancargli il fiato. Sobbalzando vistosamente, il veicolo comincia a prendere forma. Se non lo vedessi coi tuoi stessi occhi, non ci crederesti, mentre sale agevolmente macigni della dimensione di un cranio di gorilla preistorico neanche fossero noccioline sul pavimento dello zoo. Stai per conoscere una vera celebrità del Web, al pari di un professionista di Fortnite o la padrona del gatto grumpy, apprezzato attore animale di celebrate pellicole e innumerevoli partecipazioni televisive. “Scusate per l’attesa!” Grida dal finestrino abbassato. “Siete fortunati che stessi provando la macchina nuova entro qualche centinaia di miglia da qui!”
Uno dei punti cardini di Internet è che senza la gabbia imposta dall’industria dell’intrattenimento si può fare spettacolo da qualsiasi cosa, particolarmente quando la cosa suddetta è già piuttosto insolita e notevole a vedersi. Come gli exploit salvifici condotti da Matthew Wetzel, più comunemente noto col suo nom de plume (oppure de guerre?) Matt’s Off Road Recovery, che rappresenta in effetti il programma stesso di quello che ha scelto di fare, con encomiabile competenza, della sua lunga e appariscente vita professionale…