L’ascesa e inesorabile declino dell’albergo costruito sulla cima dell’Amazzonia

Come le rovine di un’antica civilizzazione, lo scheletro di torri un tempo fiere sorge sulla riva del grande fiume. Persone sulle imbarcazioni che vi passano dinnanzi scrutano curiosi all’indirizzo di quei misteriosi edifici: “Sembra un gazometro” esclama sottovoce qualcuno. Ma non c’è tempo di fermarsi a meditare. Già dozzine di caimani, recentemente ritornati nella regione dopo l’eminente riconquista da parte della natura, si affollano presso la scia dei borbottanti motori. E l’acqua increspata lascia intravedere le ombre dei piranhas, pericolosamente interessati alla presenza umana e il “cibo” che talvolta sembra accompagnarla, nel caso tutt’altro che inaudito di eventuali incidenti di navigazione. Una scimmia sulla cima del suo albero, con un’arancione bacca di Acai tra le mani, sembra stare per lanciare un grido. Poi ci ripensa, e voltando le spalle al gruppo, sparisce tra camminamenti lignei e fronde elevate.
L’hotel Ariau, all’apice costituito da sette edifici popolati di oltre 300 ospiti e quasi altrettanti membri del personale reclutati localmente, ha per oltre un ventennio costituito il fiore all’occhiello del nascente ecoturismo brasiliano, inteso come moda sul finire del millennio di avventurarsi presso luoghi remoti o un tempo irraggiungibili, senza per questo rinunciare alle comodità di un mondo interconnesso nell’era contemporanea. Situato a poco meno di 60 Km dalla città di Manau, lungo il corso vorticoso del Rio Negro, il suo aspetto ponderoso nascondeva tuttavia una fragilità inerente, quella di una struttura dai costi operativi, di manutenzione e contributi nei confronti dello stato assolutamente al di sopra di ogni altra istituzione d’accoglienza turistica convenzionale. Tanto che un’eventuale estemporanea fluttuazione o cambiamento del paradigma internazionale avrebbe potuto, nel giro di pochi mesi o anni, portare al collasso economico dell’azienda che ne garantiva l’esistenza continuativa nel tempo. Ariau non sarebbe probabilmente sopravvissuto, ad esempio, agli anni del Covid. Ed Ariau non sopravvisse, già oltre due decadi prima di tale data, all’inimmaginabile crollo delle Torri Gemelle. Così che entro il 2016, con il grosso dei pagamenti effettuato ormai non più in dollari ma nella più debole valuta locale dei reais, l’imprenditore brasiliano Francisco Ritta Bernardino, figura chiave dietro l’invenzione ed apertura di un simile punto di riferimento utile all’economia dell’intera regione, non poté far altro che chiudere i battenti. Non senza un profondo senso di rammarico, i motori delle imbarcazioni, delle moto d’acqua e degli elicotteri, fatti atterrare sull’apposita piattaforma integrata nel complesso, tacquero. Dando inizio, in un certo senso, al più interessante degli esperimenti: quanto ci avrebbe messo la giungla Amazzonica, polmone verde della Terra, a riprendere il controllo di quanto per secoli e millenni gli era appartenuto senza che a nessuno potesse venire in mente di sfidarla?

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La porta del trionfo brutalista che adorna il distretto della Nuova Belgrado

Un tempo c’era una palude da questo lato del fiume Sava, totalmente scevra di elementi artificiali o alcuna traccia delle industriose mani umane. Finché nel XVIII secolo, durante la dominazione nazionale austriaca, non si diede inizio ad un massiccio processo di bonifica e urbanizzazione, che avrebbe permesso il manifestarsi di uno dei principali esempi di città pianificata nell’Est Europa. Oggi denominato con il nome emblematico di “Nuova” capitale della Serbia (Ex Jugoslavia) l’agglomerato di edifici pubblici, commerciali e residenziali fu edificato sulla terra prelevata per svariate generazioni dall’isola di Malo Ratno Ostrvo sul Danubio. Finché di quest’ultima non sarebbe più rimasto altro che una sottile striscia di terra. E adesso, guardate il risultato: lo si scorge come primo panorama cittadino, mentre si procede verso il centro partendo dal moderno aeroporto che porta il nome dell’inventore e scienziato Nikola Tesla. Si tratta, assai probabilmente, del più grande cartellone pubblicitario del suo paese. Alto più di cento metri e largo quasi una trentina, con variopinti richiami a compagnie telefoniche, marchi d’abbigliamento, l’automobile o profumo di turno… Talmente imponente da coprire quasi totalmente il grattacielo che lo fa stagliare contro il cielo distante. Se non fosse per la presenza, in parallelo, di una seconda torre lievemente più grande, dalla stessa forma stabilmente quadrangolare dalle proporzioni imponente. Collegata inaspettatamente all’altra grazie a un ponte su due piani, visibilmente contrapposto a ciò che potrebbe sembrare per un paio di respiri un perfetto disco volante. Finché l’autista del taxi, oppure il semplice buonsenso, non pronunciano all’indirizzo delle nostre orecchie due salienti parole: “Ristorante… Rotante”. E chi non vorrebbe avere l’occasione, almeno una volta prima di lasciare questi lidi, per vedere la grande Belgrado da un simile punto di vista privilegiato, all’altezza significativa di ben 36 piani. Siamo pur sempre in Europa, dopo tutto, e di palazzi così grandi non ce ne sono parecchi. Mentre di esteriormente simili a quella posta in essere col nome di Porta Occidentale, a dire il vero, assolutamente nessuno. Il che rientra a pieno titolo nelle probabili intenzioni dell’architetto serbo Mihajlo Mitrović, vincitore di un appalto negli anni ’60 per la costruzione di una palazzina ad utilizzo misto di 12 piani nella Via degli Eroi Nazionali. Ma che in forza della sua notevole fama pregressa e i molti successi di una lunga carriera, sarebbe riuscito ben presto a convincere l’amministrazione cittadina di poter utilizzare lo stesso spazio per costruire qualcosa di molto più imponente, ed a suo modo straordinariamente significativo. Pura storia, egregiamente stolida ed inadulterata, dell’architettura….

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Meraviglie dell’architettura saheliana: la torre della banca BCEAO a Bamako

Grandi centri sottoposti alle attenzioni spesso problematiche del colonialismo europeo, le capitali dei diversi stati dell’Africa centrale hanno visto avvicendarsi nel corso del secolo passato diversi luoghi di concentrazione del potere costituito: l’ufficio del governatore, la piazza del mercato, il municipio, l’edificio assembleare del concilio cittadino. Strutture a loro modo valide nel soddisfare le necessità amministrative delle generazioni, ma nessuna rilevante in senso internazionale quanto l’unica capace di trascendere l’importante barriera dei confini nazionali: sto parlando, se non fosse già evidente, della sede locale della banca BCEAO (Banque Centrale des États de l’Afrique de l’Ouest) istituzione finanziaria posta in essere per custodire, promuovere e gestire l’essenziale istituzione del franco CFA, utilizzato come valuta comune in ben 14 paesi. E regolato, come ultima deriva del pugno di ferro di un tempo, dalle inflessibili ed indiscutibili decisioni della Banca Centrale di Francia. Forse proprio questa la ragione, o il punto di partenza di una sorta di ribellione esteriore, per cui molti degli svettanti uffici di suddetta organizzazione hanno visto e continuano a impiegare il coinvolgimento di validi architetti africani, ciascuno dedito a suo modo a celebrare la ricca eredità vernacolare degli edifici facenti parte della sua antica discendenza. Nessuno dei quali forse celebre, e con ottime ragioni aggiungerei, al pari del membro fondatore dell’ONAT (Ordine degli Architetti Togani) Kwami Raymond Thomas Farah, notevole mente creativa dietro il più alto ed isolato edificio di tutta Bamako, capitale nonché principale metropoli situata entro i confini del Mali. Sotto ogni punto di vista rilevante una fortezza fin dalla sua costruzione nel 1994, ma di un tipo non del tutto privo di una grazia latente, nella sua lieve rastrematura che dovrebbe ricordare, idealmente, la sagoma bucolica di un termitaio. Incorporando allo stesso tempo le linee verticali della facciata e in numerosi “punti” delle sue finestre, disposti in modo tale da ricordare le due celebri moschee di Timbuktu e Djenné, i più grandi edifici costruiti con la tecnica del banco, un tipo di mattone in fango e involucri del grano fermentati, capace di resistere alle limitate precipitazioni di questa particolare area geografica. Dal colore rossiccio tendente all’arancione, volutamente utilizzato per le mura iconiche di un edificio alto ben 20 piani, il cui contenuto ed immediati dintorni restano in modo molto intenzionale totalmente misteriosi per gli abitanti dei quartieri antistanti. Un punto fermo del mistero utilizzato, all’interno di qualsiasi cultura, per rafforzare ed incutere l’appropriato grado di soggezione. E massimizzare, per quanto possibile, l’effetto straniante di questa specifica classe di edifici…

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Il tempio scenografico della democrazia sul palcoscenico fluviale del Sarawak

Più volte paragonato a una tenda da circo alta 114 metri, uno spremiagrumi o una giostra da Luna Park, il Nuovo Edificio dell’Assemblea Legislativa di Kuching (Bangunan Dewan Undangan Negeri Sarawak Baru) vanta in realtà un’ispirazione soltanto in apparenza prosaica: quella della sommità di un ombrello, l’iconico payung negara usato dal capo costituzionale del suo paese. Una sorta di egida metaforica, o protezione del popolo dalle gravose avversità, al punto da aver generato l’espressione idiomatica di trovarsi sotto la sua copertura sovrana. Alimentando un proficuo senso di autocompiacimento patriottico e fiducia nei confronti dello stato. Ma il suo significato metaforico, esemplificato dai numerosi archi che sostengono la forma di una stella a nove punte, allude nel contempo all’inclinazione di una società multiculturale, capace di unire le proprie forze al fine di sostenere qualcosa di grande. Come per l’appunto, la stanza dove si riunisce il governo monocamerale di questa particolare regione a statuto autonomo della Malesia, all’ottavo piano dell’abnorme edificio.
C’è d’altra parte una storia di fraternità tra i popoli nella vicenda collegata alla modernizzazione della principale città malese sull’isola del Borneo, con i suoi 723.000 abitanti dislocati in prossimità della foce del Sarawak. Nome di un fiume e di uno stato, fin da quando il Raja Muda Hashimit abdicò nel 1841 a favore dell’avventuriero britannico James Brooke, dopo che l’esercito privato di quest’ultimo lo aveva assistito nel sedare la cruenta ribellione dei popoli Land Dayak. Se non che nel giro di anni, se non mesi, la gente dell’entroterra isolano avrebbe imparato ad ammirare questo nuovo ed a quanto si dice saggio governante, costruttore di scuole, ospedali, strade ed un sistema fognario. Rendendogli l’onore, del tutto privo di precedenti fino a quel particolare momento storico, d’inviare i propri capi a presenziare le assemblee pubbliche all’interno del suo surau di legno, l’edificio amministrativo fatto costruire in base all’usanza tradizionale dei Minangkabau, costrutto architettonico comparabile alla zawiya araba, ovvero quella parte della moschea dedicata alla gestione degli affari comunitari. Fu tuttavia nell’anno stesso della sua morte, il 1868, che l’assemblea cresciuta eccessivamente nel numero dei propri membri cominciò quindi a diventare raminga, riunendosi dapprima nel forte militare lungo il fiume, quindi nella vicina villa del governatore, poi nell’edificio del tribunale ed infine nella Sala per lo sviluppo Tun Abdul Razak. Era ormai il 1976 quando lo Yang di-Pertuan Agong, il sovrano eletto costituzionalmente del paese, inaugurò finalmente un luogo dedicato a quello che si era dimostrato capace di diventare nel frattempo un vero e proprio parlamento. Il cuboide palazzo del Wisma Bapa Malaysia (Edificio Padre della Malesia) deliberatamente ispirato alla struttura dalle funzioni simili presente presso la capitale nazionale, Kuala Lumpur. Una soluzione destinata a durare questa volta ben 33 anni, almeno finché il numero dei parlamentari, ormai cresciuto esponenzialmente, non richiese l’ennesimo miglioramento delle sale a loro dedicate. E fu così che una titanica struttura sorse, nuovamente, lungo le sponde del sacro fiume…

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