Una festa dalla Cina che dimostra lo splendore pirotecnico del ferro fuso

La testa e la coda, l’alfa e l’omega, la cima e le radici. Non sempre chi pronuncia le fatidiche parole: “Buona fine e buon principio” riesce a realizzare il presupposto conflittuale contenuto in una simile prerogativa, il senso battagliero e fondamentalmente disarmonico che viene generato dall’incontro tra due fasi tanto differenti di un processo in corso di realizzazione. Come quello, per l’appunto, del procedere degli anni ovvero il capodanno, ricorrenza che prevede per l’appunto l’utilizzo di una simile tipologia di auguri. Una costante logica nel senso espresso, se non nelle parole, attraverso l’ampia pletora delle culture e dei linguaggi che si affollano attraverso gli ampi angoli geografici di questo mondo. Come non riesce ad esserlo, di contro, l’effettiva scheggia del continuum presso cui si giunge all’epoca del cambiamento, intesa come il velo cronologico tra l’una e l’altra circostanza; vedi tutto il caso dell’Estremo Oriente, in cui il concludersi di un ciclo stagionale viene individuato tradizionalmente grazie alle fasi lunari, trovandosi per questo in una data variabile tra il 21 gennaio ed il 20 febbraio al conteggio gregoriano dei mesi. Casistica in corrispondenza della quale da ormai almeno 500 anni, nel villaggio non distante da Pechino di Nuanquan, prefettura di Zhangjiakou, tende compiersi un’epica e spettacolare battaglia. Cui non possono mancare di partecipare tre diverse fazioni: un gruppo di fabbri protetti da pelli di pecora e cappelli a tesa larga, il muro di mattoni refrattari dell’antica fortezza cittadina, e un enorme crogiolo di metallo liquefatto, fumante e riscaldato al calor rosso, che potrebbe vagamente ricordare il nucleo di una stella catturata per il pubblico divertimento. Una configurazione già piuttosto stravagante, ancor prima che al palesarsi di un segnale non troppo evidente, gli uomini guidati dal riconosciuto capomastro immergano le loro armi, degli enormi cucchiai in radice di salice, all’interno di quel brodo fiammeggiante. Estraendone copiosi globuli infuocati e poi gettandoli con enfasi devastatrice all’indirizzo di quella parete, che immediatamente li respinge producendo una deflagrazione, causa il significativo differenziale di temperatura offerto dalla propria impenetrabile superficie. Ciò che ne deriva, in base alla pregressa cognizione dei locali, è la rigogliosa chioma dell’albero o fiore di fuoco, metaforicamente rappresentata da un pericoloso diramarsi di scintille luminose, tali da bruciare, ustionare, purificare il male mentre scacciano gli spiriti persistenti dai drammatici e sgradevoli episodi dell’anno trascorso. Il “Colpo ai fiori dell’albero” (打树花- Dǎ shù huā) una soluzione molto… Drastica, e per certi versi irragionevole a un problema filosofico che fin troppo ben conosciamo. Ma che proprio per questo, appare caratterizzata da quel grano d’innegabile eredità culturale, che può essere individuato come patrimonio intangibile della Cina e il resto umanità intera, con tanto di riconoscimento da parte dell’UNESCO, assieme ai tradizionali ritagli di carta originari di questa regione. Tutto bene dunque, purché non capiti un piromane, prima o poi, ad occuparsi della problematica dicotomia apparente…

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Cuoco di montagna mostra l’attrazione sui rapaci della carne d’agnello azero

La prova che l’incontro inaspettato tra tecnologia e natura possa occasionalmente condurre a conseguenze positive può essere individuata in questo materiale, prodotto e raccolto sul suo canale dall’esperto preparatore di vivande Tavakkul, abitante del villaggio Qəmərvan tra i recessi più selvaggi dei rilievi dell’Azerbaigian. Selvaggi come il titolo della serie su Internet, Wilderness Cooking, con pubblicazione presso i principali portali social dei nostri giorni e una visibilità quantificabile sugli oltre 10, e qualche volta fino a 30 milioni di visualizzazioni per singolo video. Mi chiedo, in effetti, se non l’abbiate già visto anche voi, mentre opera con esperienza più che palese, nell’allestire campi base, assemblare rifugi, punti di cottura, rudimentali tavoli di tronchi legati tra di loro. Poco prima di procedere nell’approntare il presidio, mediante messa in opera di piatti a base di carne, a partire da quei princìpi generativi così distanti dall’esperienza odierna del cuoco di provenienza urbana. Che poi sarebbero la vera e propria carcassa d’animale, con zampe e tutto il resto, selezionato di volta in volta al fine di stupire l’occhio appassionato dei sui innumerevoli spettatori. E non solo. C’è davvero da sorprendersi, alla fin della faccenda, se una creatura alata di queste terre si è dovuta interessare ai conturbanti aromi sollevatisi nell’aere che gli appartiene? All’inizio di febbraio, il creativo culinario e videografico si è ritrovato il più incredibile degli ospiti durante la preparazione del suo pranzo. Un uccello dall’apertura alare di 3 metri, e circa 14 kg di peso…
La sommaria descrizione del video, formalmente dedicato alla preparazione sulla fiamma viva di un intero delizioso agnello, sezionato, arrotolato e racchiuso in un pratico strato protettivo di carta argentata, attribuisce all’imponente pennuto la qualifica alquanto generica di “aquila caucasica”, il che in effetti fa ben poco al fine di aiutarci a definirne la specie. Poiché un tale appellativo, dal punto di vista filologico e formale, appartiene soltanto al leggendario uccello gigante, figlio di Tifone ed Echidna, incaricato da Zeus di mangiare ogni giorno il fegato di Prometeo incatenato (per l’appunto) sopra il monte Caucaso. Il che parrebbe configurare come alternativa maggiormente prossima la tipica aquila delle steppe (A. nipalensis) se non fosse per un rapido confronto tra le scene registrate ed un catalogo dei principali rapaci della regione, tale da trovare in breve tempo una chiara corrispondenza nell’aspetto all’avvoltoio cinereo (Aegypius monachus) con la sua testa ricoperta di piume solamente nella parte superiore, le ali di colorazione uniforme e il grosso becco uncinato dalla punta nera. Non che l’autore, assai probabilmente, avesse alcun tipo di dubbio in merito, benché sia ragionevole pensare che abbia scelto di massimizzare la visibilità mediante l’utilizzo di una definizione maggiormente apprezzata dai motori di ricerca online. Così come sia del tutto lecito avanzare qualche dubbio sull’effettiva natura accidentale dell’incontro, vista l’evidente sicurezza con cui il volatile si appresta al rumoroso e potenzialmente pericoloso essere umano, accettando da lui i piccoli bocconi prelevati dalla carne e la verdura che sta preparando, senza mostrare il tipo di timore istintivamente posseduto dalla maggior parte degli animali selvatici. Benché, vada anche detto, l’attenzione mostrata dai costui nei suoi confronti, attento a non toccarne le piume direttamente per non lasciargli addosso strani odori, appaia quanto mai realistica nel dipanarsi di una simile circostanza…

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L’impressionante anello di luce che circonda il rotore degli elicotteri nel deserto

Dopo il trascorrere di un tempo apparentemente eterno, la salvezza giunse dall’alto con le ali angeliche di un miraggio di speranza. Il gruppo di uomini intrappolato dietro il muro perimetrale di un complesso parzialmente in rovina, l’MRAP corazzato in panne per l’esplosione di un ordigno improvvisato posto ai margini della strada. Il fuoco di soppressione mantenuto dai membri illesi del gruppo, contro le finestre dall’altro lato della strada, appena sufficiente ad impedire ai ribelli di varcare le poche decine di metri che li separavano dal gruppo dei ranger incaricati di mantenere l’ordine in una città che bruciava all’interno, bruciava ininterrottamente ormai da quasi una decade in un conflitto che non avrebbe mai potuto conoscere la fine. Il soldato ferito, una gamba fasciata efficientemente dal sergente medico della squadra, con la migliore preparazione al pronto soccorso offerta dall’Esercito Americano, guardò tra la polvere quello che stava succedendo: un cerchio magico che diventava più grande, ancora più grande, quasi come la fine del mondo fosse giunta a reclamare il suo fin lungo periodo trascorso tra i viventi. Eppure nessuno fuggiva, nessuno si agitava, le armi rigorosamente puntate all’indirizzo del pericolo più tangibile e precedentemente noto. Imprecazioni in lingue arabe sembravano risuonare sulla distanza, sebbene fosse difficile tentare di comprenderne il contenuto con un simile rumore di fondo. Mentre la polvere continuava ad aumentare quindi, offrendo uno scudo impenetrabile agli sguardi, il frastuono diventò apocalittico, e una forma scura iniziò a delinearsi sotto l’immagine costituita da quel consorzio di scintille inumane. Era il corpo di un elicottero, l’UH-60 Black Hawk, istintivamente associato da ogni membro delle forze armate in Iraq come un sinonimo di provvidenza inviata per così dire dall’Alto, ovvero il Signore Supremo, generale di stato maggiore dell’unico teatro di battaglia che non può essere definito con il suo vero nome. Eppure in assenza di giornalisti, senza la partecipazione delle telecamere di Al Jazeera, finalmente il miracolo si era compiuto: l’apparecchio volante più celebre della Sikorsky aveva completato la sua trasfigurazione. Avvolto in un manto di fuoco, furia e intollerabile Libertà, guadagnandosi finalmente l’aureola capace d’identificarlo per quello che, in molti l’avevano sospettato, aveva da sempre potuto rappresentare per le truppe di terra e i loro colleghi marine.
Soltanto un uomo, a parecchie centinaia di metri distanza, poté assistere a quella solenne scena. Egli non vide il ferito caricato a bordo, né i suoi compagni che ricevevano il gruppo dei rinforzi, attrezzati con postazioni d’arma sufficienti a mantenere lontano i ribelli fino all’arrivo di un rimorchiatore abbastanza pesante da spostare lo MRAP. Ma poté realizzare mediante la propria fotocamera, fornita del miglior obiettivo a disposizione, una diretta documentazione della scena; abbastanza incredibile da meritare una lunga ed elaborata didascalia d’accompagnamento. Oppure un nome simbolico capace d’immortalarlo per il maggior beneficio della prosperità. L’uomo dietro la percezione di una simile allegoria era il fotografo Michael Yon, e l’appellativo da lui scelto quello di “Effetto Kopp-Etchells” ricercando un probabile analogia con fenomeni fisici storicamente capaci d’ereditare i nomi dei loro scopritori. Laddove nel caso specifico, egli scelse piuttosto d’usare quelli di due giovani soldati, Benjamin Kopp, un Ranger americano e Joseph Etchells, soldato inglese, periti nell’esercizio delle loro funzioni soltanto qualche mese prima di quel drammatico 2009. Soluzione appropriata, quando si considera il notevole numero di volte in cui costoro, assieme a innumerevoli altri membri delle forze impegnate in quella lunga e complicata missione, avranno avuto modo di osserrvare direttamente il verificarsi dello strano fenomeno visuale. Giudicato empiricamente da molti, e per lungo tempo, come un’anomalia ottica del tipo simile a un parelio solare nella stratosfera, piuttosto che la diretta risultanza dello sfregamento delle particelle di sabbia con una superficie costituita da materiale diverso, ovvero le pale del più instabile dispositivo volante costruito dall’uomo. Mentre altri, ancor più ambiziosi, si erano detti pronti a giurare che la luce dovesse derivare necessariamente dalla “combustione meteorica” dei suddetti granuli, proiettati a “velocità superiori a quelle del rientro di una meteora nell’atmosfera terrestre.” Il che potrà anche risultare formalmente vero da un certo punto di vista, ma non oggi sappiamo non giunge a costituire l’intera motivazione di tutto questo. Ed aggiungerei purtroppo, considerate le problematiche implicazioni dell’alternativa…

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Viaggio tra le torri che prevengono il diffondersi dei grandi fuochi americani

In molti modi, sia diretti che indiretti, dovremmo giungere a comprendere la pregressa e imprescindibile importanza di costoro: uomini e donne che, per una significativa varietà di ragioni, in un momento imprevisto della loro vita hanno deciso di trasformarsi in eremiti. Figure solitarie intente a meditare, sul significato della Vita, dell’Esistenza ed il futuro stesso dell’Universo, favorendo nel contempo un graduale avanzamento per la base filosofica di nuove costruzioni sulle fondamenta della sapienza. Non tanto grazie a un lascito di testi e studi registrati in modo duraturo nel tempo, giacché la loro stessa opera si realizzava nell’assenza d’interazioni presente o future con altri membri pensanti della cosiddetta razza umana; quanto per la semplice e serena cognizione che, in multiple possibili maniere, una simile esistenza fosse possibile. Persino utile, a se stessi e l’inconoscibile consorzio della moltitudine in adorazione dei princìpi religiosi del mondo. Che sia esistita, e continui a esistere tutt’ora su una scala più ridotta, la particolare schiatta di costoro che percorrono una tale strada per l’immediato intento di risolvere un problema, per così dire, pubblico, può essere perciò la sola risultanza di un progresso tecnologico inerente. Quello che attraverso il cambiamento dei mezzi di comunicazione, avrebbe permesso a chi si trova in cima a una montagna di parlare ai suoi distanti simili delle valli antistanti. Gridando: “Al fuoco! Al fuoco!” Ogni qualvolta se ne presentava la necessità ed urgenza.
Che è abbastanza spesso, caso vuole, da giustificare per oltre un secolo il prezzo della costruzione, il mantenimento e la gestione operativa di una quantità di fino a 5.000 di queste strutture, che avrebbero potuto rappresentare un simbolo statunitense al pari del monte Rushmore, la diga di Hoover o il ponte di Brooklyn… Se soltanto non si fossero trovate così straordinariamente lontane, ed in punti rigorosamente irraggiungibili, rispetto al flusso cognitivo della brulicante civiltà urbana. Il che potrebbe anche rappresentare, a conti fatti, il fondamento stesso dell’idea: poiché se il fumo si alza da una zona popolosa, sono in molti ad allarmarsi e farne giungere notizia a chi può intervenire per cambiare il corso degli eventi. Ma è quando un albero cade nella foresta, per così dire, che occorre tendere l’orecchio e confermare, a tutti gli effetti, di averlo udito. Soprattutto se succede con scintille al seguito, evidente segno che un qualcosa di terribile potrebbe stare per palesarsi. L’invenzione formale di un sistema per l’avvistamento e localizzazione degli incendi viene dunque fatta risalire negli Stati Uniti al 1902, quando una donna di nome Mable Gray, con mansione di cuoca in un campo base di taglialegna in Idaho, venne posta di vedetta per diverse ore sulla cima di un abete ogni giorno, affinché potesse scorgere eventuali pennacchi di fumo, saltare su un cavallo e correre a darne notizia ai suoi colleghi sparpagliati nel bosco. Un’idea che apparve interessanti fin da subito e fu presa in prestito dal Servizio Forestale Americano, fondato nel 1905 con un atto del Congresso finalizzato a preservare la diversità e produttività di un tale ambiente naturale del tutto primario per il benessere della nazione. Con una gradualità e cadenza misurata che, in effetti, non gli avrebbe fatto buon gioco, se è vero che nel 1910 avrebbe avuto luogo uno dei disastri naturali più importanti e significativi della storia statunitense: la grande deflagrazione o grande incendio, destinato a nascere per il congiungersi di vari focolai al termine della stagione secca, durante un forte uragano interstatale che avrebbe avuto inizio il 20 agosto. Tre milioni di acri, dunque, sarebbero andati in fumo, con un’estensione nell’intero Northwest capace di coinvolgere gli stati di Idaho, Montana ed una buona parte della Columbia Inglese meridionale (Canada). Almeno 78 pompieri avrebbero perso la vita nel tentativo di migliorare le cose, finché le fiamme finalmente ebbero fine per l’inizio della stagione delle piogge. Apparve perciò chiaro, dal tramonto all’alba, che qualcosa andava fatto su una scala precedentemente inimmaginabile, mediante i metodi che in linea di principio erano già stati pianificati in sede progettuale, e soltanto ADESSO avrebbero finalmente ricevuto i fondi necessari ad essere implementati sulla scala di cui c’era un palese bisogno.

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