Probabilmente in pochi avrebbero pensato, all’epoca della scoperta dell’America, che i nomi di alcune tribù native di queste terre avrebbero assunto, a qualche secolo di distanza, un suono in grado di far preoccupare i membri di uno schieramento militare al letterale capo opposto del pianeta. Ormai tutti conoscono, ad esempio, il possibile doppio senso del termine “Apache” attribuito al tempo stesso all’etnia di origine athabasca e al celebre elicottero da combattimento, sottile ed aggressivo al pari di una vespa, capace di sferrare il proprio attacco al centro esatto di una formazione di mezzi corazzati nemici. E lo stesso vale per il Chinook da trasporto della Boeing con l’iconico doppio rotore, il cui nome è derivato dagli indigeni del Pacific Northwest, esattamente come quello del programma cancellato al culmine della guerra del Vietnam, per l’AH-56 Cheyenne della Lockheed. Molti meno comparativamente, tuttavia, hanno mai sentito parlare dello Hughes OH-6 Cayuse, elicottero leggero da osservazione, per almeno un paio di ottime ragioni: la prima è l’ampia serie di soprannomi attribuiti ad esso, tra cui “Loach” (dal pesce d’acqua dolce Misgurnus anguillicaudatus) o in maniera ancor più prosaica, “uovo volante” data la particolare forma del suo profilo aerodinamico di volo. E secondariamente, perché un simile apparecchio sembrò, ad un certo fondamentale punto della sua storia operativa, voler fare un po’ di tutto… Tranne, se possibile, attirare l’attenzione.
Prodotto alquanto ben riuscito di un programma degli anni ’60 per l’implementazione di un nuovo elicottero multi-ruolo nel dipartimento rilevante dell’Esercito degli Stati Uniti, l’oggetto volente inizialmente noto come Modello 139 fu in effetti la proposta della Hughes di Culver City (California) posta in essere al confronto di giganti come Fairchild-Hiller e Bell, inserita nel carnet di un simile concorso ben retribuito solo in un secondo momento. Ma capace di proporre, in tali circostanze, l’offerta dal miglior rapporto tra potenza e costo unitario di produzione, capace di ridursi fino alla cifra relativamente contenuta di 19.860 dollari (circa 170.000 al calcolo dell’inflazione attuale) nonostante un comparto tecnico di tutto rispetto, un risultato raggiunto secondo alcuni soltanto rimettendoci, in effetti, su ciascun singolo esemplare prodotto. Era il 17 febbraio del 1963 quando il primo esemplare della serie prese il volo, ponendo in essere le condizioni per una letterale rivoluzione nel suo ambito d’impiego: ben 23 record infranti, tra cui quelli, assolutamente essenziali in campo militare, di portata e resistenza in volo. Dopo un ordine iniziale di 1.370 apparecchi dunque, ormai all’apice del lungo conflitto passato alla storia come guerra del Vietnam, l’Esercito fece un ulteriore ordine di 2.700, causa gli ottimi risultati ottenuti ai margini del campo di battaglia o nel cuore dello stesso, grazie alle varianti pesantemente armate affettuosamente note come “uova da guerra”. Come potrete facilmente intuire dal nostro titolo di oggi, tuttavia, questa non è la storia di simili implementi bellici bensì di un particolare approccio al conflitto elicotteristico, che potremmo definire al tempo stesso molto più sottile ed anche, dati i giusti presupposti, risolutivo: la moderna guerra delle informazioni.
Già, l’avreste mai pensato? Che il singolo approccio al volo umano maggiormente udibile ed oserei aggiungere, cacofonico, potesse trovar l’ottimo impiego nella prototipica missione di spionaggio: quella concepita ormai da lungo tempo già verso la metà degli anni ’60, con l’obiettivo di porre sotto sorveglianza le linee telefoniche usate dalle forze militari e politiche del Vietnam settentrionale, proprio lungo il fondamentale sistema di strade collinari tatticamente noto agli americani come sentiero di Ho Chi Min. Il che non poteva fare a meno di presupporre, alquanto prevedibilmente, una serie d’importanti modifiche al progetto convenzionale del Loach…
guerra
La capitale in pietra lavica costruita sopra una barriera corallina
Secondo le narrazioni orali trasmesse attraverso la storia pregressa della Micronesia, il guerriero Isokelekel era tra i più nobili e stimati vissuti fino a quel momento, quando verso il primo terzo del XVII secolo, sbarcando assieme ai suoi 333 seguaci, giunse presso l’atollo di Ant nei pressi di Kitti, decidendo che esso avrebbe in seguito costituito la sua casa. Se non che di lì a seguire un misterioso uccello, o in altre versioni della storia la profezia concessagli da un’anziana amante, gli avrebbero rivelato l’obiettivo ultimo del suo destino: trasformarsi nel liberatore di un intero popolo, soggetto fin da troppo tempo al giogo di una dinastia straniera, quella dei Saudeleur dell’attuale capitale della Micronesia, la popolosa, lussureggiante isola di Pohnpei. Il cui principale elemento di distinzione, allo stato dei fatti, figurava ormai da molte generazioni come il centro religioso e politico di tale dittatura, un luogo le cui alte mura, soprattutto in quel contesto storico, parevano sfidare l’immaginazione: Nan Madol, una città imprendibile, costruita col basalto tra una serie di canali e sopra isole poggiate sopra una struttura pre-esistente: quella costruita, attraverso secoli o millenni, dai microscopici polipi del corallo. Osservata quindi la fortezza da ogni lato, e ricacciato indietro il primo istinto di ritirarsi, il fiero Isokelekel scelse d’impiegare l’ingegno: mandato un suo luogotenente presso la spiaggia dell’isola, fece in modo che esso provocasse una reazione militare ad opera di un generale nemico. Una volta che le truppe di quest’ultimo furono al di fuori dei cancelli, quindi, ne approfittò per trarne vantaggio, bloccandone la ritirata e combattendo con ferocia tale, da riuscire a sterminarle fino all’ultimo uomo. Secondo alcuni, fu proprio in quel momento che il liberatore, proveniente dall’isola orientale di Kosrae, avrebbe rivelato la sua discendenza divina, in quanto figlio del Dio del Tuono Nan Sapwe, antico protettore delle genti di Pohnpei, facendo in modo che armi magiche sorgessero dalle acque stesse dell’Oceano, finendo dritte nelle mani dei propri alleati. Indipendentemente da tale dettaglio, ad ogni modo, i Saudeleur vennero sconfitti, ponendo fine a un lungo predominio portatore di molte notevoli ingiustizie. Ma anche notevoli progressi tecnologici e sociali…
Silenzioso ricordo di un’epoca lontana sui confini percorribili dell’isola Pohnpeiana, la città in rovina Nan Madol costituisce oggi uno dei maggiori misteri archeologici del mondo, in quanto tale spesso argomentata nei trattati sugli alieni, antiche civiltà perdute e il continente destinato a inabissarsi di Mu, versione ipertrofica del nostro mito atlantideo. Per le sue particolari caratteristiche architettoniche ed urbanistiche, essa è stata inoltre definita la Venezia del Pacifico, benché il tipo di materiali impiegati ed il sistema usato per trarne opere murarie ricordi, piuttosto, quello di particolari civiltà del continente americano, per l’assenza di cemento o un qualsiasi approccio similare, sostituiti dai precisi incastri tra i singoli elementi di ciascuna struttura. Pietre di basalto dal peso unitario impressionante, antica prova dell’origine vulcanica di queste terre, trasportate e messe in posizione grazie a metodi che ancora adesso non riusciamo a determinare: poiché questi popoli non possedevano alcun tipo di carrucola, lunghe o resistenti corde, o la padronanza del sistema della leva di Archimede il greco; bensì soltanto l’intenzione, il nesso ed il bisogno. Di costruire qualche cosa che potesse oltrepassare intatta le generazioni…
Il problema indissolubile del fucile da guerra francese MAS-36
Il soldato di ventura Bob Denard, mercenario e oppositore dei governi rivoluzionari che si erano formati nell’intero corso degli anni ’70 nelle colonie disseminate attraverso gli ampi spazi della franco-sfera d’influenza, incluso l’arcipelago delle Comore, guardò il suo ufficiale di controllo sul campo, responsabile delle operazioni di riconquista di quest’isola “imprendibile” di Anjouan, mentre l’odore di cordite cessava lentamente di permeare l’aria. “Lo stratagemma di far saltare in aria la vecchia quercia non ha funzionato, signore. I fratelli sono ancora operativi e pronti a far fuoco.” Già, due giovani cecchini in grado di guadagnare fama attraverso i numerosi colpi di stato che si erano succeduti a partire dalla dichiarazione d’indipendenza operata dal governo socialista nel 1976 e che ora, collocati in una posizione strategica in cima a quel fatale promontorio e sparando a turno con un singolo fucile, rischiavano di rallentare sufficientemente la conquista delle postazioni d’artiglieria sul fronte nord dell’isola. Le quali a loro volta, continuando a far rumore, avrebbero impedito lo sbarco delle truppe nella capitale, inficiando una sconfitta tempestiva delle truppe lealiste del governo dell’ex Ministro della Difesa, recentemente auto-dichiaratosi Presidente, Ali Soilih. “Capisco. Quanti anni hai detto che avevano? Diciannove?” Quindici secondi di meditazione “Cessa il fuoco di sbarramento per un tempo di due ore. Credo di aver avuto un’idea.” Chiamando quindi il suo soldato più imponente e muscoloso, gli chiese di operare uno strano gesto: prendere un fucile d’ordinanza in dotazione all’esercito di liberazione, il vecchio e onnipresente attrezzo con otturatore girevole-scorrevole risalente alla seconda guerra mondiale MAS-36, e lanciarlo all’indirizzo dei ragazzi in posizione fortificata. Con un foglio d’istruzioni in dotazione sul “corretto impiego” della spaventosa baionetta cruciforme in abbinamento all’arma. Quindi fece mettere da parte i suoi soldati, per l’intero pomeriggio a seguire. Verso l’ora del tramonto, organizzando una sortita, confermò le sue più rosee speranze: nessun nemico sembrava più sparare verso il sentiero. Facendo il proprio ingresso nella postazione dei cecchini, dopo essersi sollevato dalla posizione del leopardo, Denard scrutò quindi entro la fossa, confermando i suoi sospetti: due ottimi fucili frutto di tecnologia francese con le canne unite tra di loro, perfettamente uniti in una sorta d’inservibile doppia clava. Nessuna traccia dei fratelli, costretti necessariamente a ritirarsi. “Avanti, mon vaillant dell’orgogliosa Legione. La GLORIA attende gli audaci!”
Il Fusil à répétition 7 mm 5 M. 36, spesso abbreviato alla sua sola cifra d’identificazione finale, è uno di quegli oggetti la cui semplice esistenza, per alcuni versi, sfida la logica e la convenzione. Prodotto per ben 15 anni a partire dal 1937, ben prima di trasformarsi in modo tardivo nell’arma d’ordinanza delle forze armate delle isole Comore, aveva infatti la caratteristica di funzionare grazie al tradizionale metodo di sparo, dipendente dall’inserimento manuale nella canna di ciascun singolo proiettile, mediante l’utilizzo ben preciso del succitato otturatore. Perché mai produrre, dunque, alle soglie ormai della seconda guerra mondiale con le sue armi semi-automatiche e a ripetizione, un dispositivo tanto anacronistico nel suo funzionamento? E sopratutto, perché farlo in quelli che sarebbero diventati a un certo punto oltre un milione d’esemplari, facendone il principale fucile usato contro le forze d’invasione tedesche ma non solo, fino alle guerre successive d’Indocina, Algeria e la crisi del canale di Suez? La risposta, come spesso avviene, è che nulla di tutto questo era stato in effetti pianificato. Quando gli ufficiali responsabili decretarono di rinnovare l’ormai antica dotazione dei fucili Berthier e Lebel in dotazione alle forze armate, residuati della grande guerra, mentre i paesi del resto d’Europa erano già in avanzata fase di preparazione per quanto di tragico stava per accadere, alla soglia del quarto decennio del ‘900. Mediante lo schieramento, rigorosamente temporaneo, di un vettore di transizione, destinato successivamente a andare in dotazione ai riservisti, che fosse economico, rapido da produrre mentre venivano perfezionati i progetti di armi migliori e soprattutto adatto a chi non avesse ricevuto un lungo addestramento preparatorio. E fu così, che nacque una tale arma. Se non che come sappiamo anche troppo bene, nel 1940 i generali al servizio di Hitler avevano già terminato di aggirare agilmente la solidissima ed inutile linea dei forti d Maginot. E fu allora, che il MAS-36 si ritrovò letteralmente in prima linea, in mano a dei soldati che la guerra l’avevano immaginata solamente in potenza…
EA-18G: il ruggito elettronico di un disturbatore dei cieli
Il rombo del motore, appena udibile alla postazione di comando, veniva totalmente soverchiato dal sibilo insistente del dispositivo RWR sopra lo scenario montagnoso del territorio nemico, avvisatore di segnali radar ben direzionati verso quella scheggia di metallo quasi del tutto invisibile nel vasto cielo. “Al tuo segnale, sono pronto a scatenare l’inferno” fece l’uomo seduto dietro, attraverso la sua maschera per l’ossigeno, scrutando attentamente i propri tre monitor multifunzione, il più grande dei quali era configurato in modalità SA, per analizzare la situazione mediante i dati ricevuti dal suo collegamento a banda larga con l’aerosorvegliante AWACS per il trasferimento dei dati. Tre, quattro, cinque rampe di lancio per missili terra-aria nemici, tanto che appariva totalmente inconcepibile che il loro vulnerabile uccello da guerra potesse, in tempo utile, scagliare altrettante munizioni simili, ma con capacità di cercare autonomamente le fonti di un segnale radio (alias HARM). “3…2…1…Fai fuoco ora!” Disse il pilota/comandante, mentre il secondo membro dell’equipaggio premeva il grosso bottone rosso posizionato al centro della propria plancia di comando. Con un rombo inudibile, quindi, l’arma principale e vera ragione d’esistenza della loro stessa missione iniziò ad emettere un segnale. Poi molti. In un attimo, l’RWR tacque: da ogni punto di vista rilevante, i radar nemici avevano smesso di funzionare, all’unisono. E non sarebbero tornati operativi… Prima che fosse, ormai, troppo tardi.
Ritornando con la mente all’apice degli anni ’80, due cose sopra tutte le altre sapevano incarnare il mito delle avveniristiche tecnologie, nuova metrica di ciò che fosse percepito degno d’influenzare le future generazioni, in quanto canone dell’innegabile ed irraggiungibile rule of cool: la prima, Tom Cruise a soli 24 anni, reclutato per finzione dalla US Navy e circondato dalla cabina di comando di un possente F-14 Tomcat nel film Top Gun, film il cui messaggio patriottico sarebbe stato messo in secondo piano dall’appassionante dipanarsi di quel dramma certamente atipico e soltanto lievemente melò. L’altra invece erano gli hacker della neonata corrente letteraria e culturale del cyberpunk, virtuosi operatori di un oggetto del mistero, il nuovo ospite di molte case con la sua tastiera, il monitor ed altri orpelli, non meno misteriosi per l’uomo di marciapiede di una procedura di atterraggio/decollo dalla portaerei o il raggio operativo dei diversi missili montati sotto le ali di quel cinematico falco d’acciaio. Ma mentre quest’ultimo, col suo costo di svariati milioni di dollari nonostante si trattasse del prodotto di un concetto di superiorità aerea risalente ad oltre 15 anni prima, appariva ormai avviato verso il viale del tramonto, tutti sospettavano che la guerra del futuro avrebbe avuto i metodi e le ragioni per svolgersi all’interno dello spazio non tangibile e del mondo digitale, in maniera ben diversa, da quella che potesse ritrovarsi celebrata su pellicola in siffatta maniera. Perché dico, ve lo immaginate? L’attore più pagato ed ammirato di Hollywood messo ad interpretare il pilota di un ponderoso Grumman EA-6B Prowler, l’aereo da 25 tonnellate di peso a pieno carico e quattro membri dell’equipaggio, che sin dall’epoca immediatamente successiva alla guerra del Vietnam, aveva ereditato dall’EF-111A Raven la mansione di trasportare sulla prima linea il modulo di disturbo ad onde elettromagnetiche AN/ALQ-99, unico capace di accecare letteralmente qualsiasi antenna radar schierata sul territorio nemico. Certo, tutto può essere reso affascinante con la giusta sceneggiatura e abilità registica in cabina di montaggio. Ma certe cose, appaiono meno probabili d’altre…
Dunque resta chiaro che tra le tante mancanze di cui possano essere accusate le Forze Armate americane, non figuri certamente l’incapacità comunicativa o pubblicitaria. Ragion per cui, quando nel 1991 un lungo processo tecnico condotto a più livelli stava per sfociare nella sostituzione su larga scala a bordo delle super-portaerei americane del beneamato Tomcat (“micetto”) con un letterale calabrone, lo sfinato ed innegabilmente alquanto mingherlino F/A-18E/F “Hornet” della McDonnell Douglas, più di una voce si sarebbe sollevata nel Congresso ed altrove per dubitare in primo luogo delle prestazioni di un così nuovo aeromobile, ma anche e sopratutto della sua palese carenza in materia di autonomia strategica, fattore necessario a combattere battaglie in alto mare distanti dal gruppo navale. Che tutti sapevano, si doveva risultare direttamente traducibile nel così fondamentale, imprescindibile carisma del cavaliere solitario.