L’incongrua tradizione della botte immensa e il suo guardiano di-vino

Quando vide l’espressione del suo Principe all’uscita della stanza, il cuoco di palazzo seppe subito cos’era successo. I segnali d’altra parte erano chiari ed il lutto, già nell’aria da diverse ore. Persino la chiave gigante della cantina, era stata riassegnata ad un armigero nei pressi del cortile interno. Proprio mentre lui, l’amico di tutti, l’uomo che sapeva farti ridere anche nei giorni più cupi, l’unica persona cui ognuno, nell’intero borgo di Heidelberg, avrebbe desiderato stringere la mano, aveva lasciato questa valle di lacrime, stava passando all’altro mondo. Probabilmente di cirrosi epatica. Oh, perché! Perché era successo? Perché, no? Perkeo? Se soltanto quel dannato medico, pensò l’osservatore in uniforme candida e l’alto cappello simbolo del suo mestiere… Se soltanto ci avesse ascoltato. Il nostro amico, la fantastica mascotte, il personaggio delle fiabe costruite da casuali circostanze, un nano, un titano. Che mai aveva bevuto nulla che non fosse alcolico. Sul letto della malattia, per tanti anni ricacciata indietro coi suoi metodi, era stato dissetato con un singolo bicchiere d’acqua. Per la collettività, una sostanza portatrice di sollievo. Ma per lui, anatema. E così meno di 24 ore dopo, i brividi, le convulsioni e il decesso. Chi potrà, adesso, fare le capriole beffeggiando i granatieri, con gli stivali troppo lunghi ed alti per percorrere in avanti le scale conducenti verso il suo reame? Chi porterà all’esimio Carlo III Filippo del Palatinato il suo cicchetto mattutino, nella bottiglia dal lungo collo tipico del Baden-Württemberg e il resto dell’Alto Reno? E soprattutto, chi farà la guardia al Großes Fass, il quasi leggendario scrigno del tesoro alcolico creato con la stessa quantità di legno di una piccola corvetta di linea. Per 221.726 litri, pompati all’interno tramite ingegnosi meccanismi e dal nel gran salone dei ricevimenti. Benché fosse raramente del tutto piena, con il piccolo Perkeo a fargli la guardia…
Nessuno sapeva esattamente da dove e in quale circostanze fosse stato reclutato il beneamato giullare di corte del castello di Heidelberg, ivi comparso nel 1718, all’età di soli 17 anni tra la quieta gioia e il reiterato giubilo dei cortigiani. Benché il Principe Elettore del Sacro Romano Impero, che l’aveva conosciuto a quanto pare presso un opificio per la fabbricazione dei bottoni, amasse ripetere che proveniva da Tirolo italiano, ipotesi avvalorata dalla celebre abitudine del basso individuo a rispondere “Perke no?” Ogni qual volta gli veniva offerto un bicchiere di vino. Per cui parve assolutamente naturale, e per molti versi inevitabile, assegnargli la custodia della cantina. Un compito di responsabilità maggiore rispetto a quanto si potesse pensare, in un luogo come questo dove le antiche tradizioni venivano tutt’ora praticate. Inclusa quella di disporre di una grossa, grossa botte per il vino del suo signore. Una questione di prestigio, se vogliamo, così come esemplificato dai tradizionali duelli risalenti alla fine del XVII secolo, quando i sovrani dei diversi feudi dell’area germanica erano soliti combattersi a colpi di status symbol. E non ce n’era alcuno più magnifico, imponente e accattivante di questo…

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L’aspetto attuale del castello che appartenne al re assassino della montagna

È cosa nota che la realtà superi spesso la fantasia ma vi sono casi particolari in cui questi due aspetti, per quanto ci è possibile desumere, si mescolarono a tal punto da diventare indistinguibili, giungendo a generare improbabili mitologie con validi riscontri, agli occhi degli storici, nella progressione storica degli eventi. Perché ad esempio il più potente sultano e protettore della Sunna dell’XI secolo, Saladino il grande, avendo posto sotto assedio la roccaforte siriana del suo più acerrimo nemico nel 1176 di ritorno dalla campagna yemenita, scelse improvvisamente di ritirare l’esercito per sedersi quietamente sul trono egiziano? Si può affermare a tal proposito che vi siano varie possibili interpretazioni di tale scelta. Ma le narrative più frequentemente ripetute coinvolgono tutte, in un modo o nell’altro, l’intervento diretto della mano del Vecchio della Montagna. Sotto forma del suo stesso gesto d’infiltrarsi, sotto mentite spoglie, nella tenda dell’odiato condottiero. Per lasciarvi, a seconda delle versioni, un cornetto nella forma del sigillo a lui associato, oppure il corpo esanime di un fidato luogotenente. “Doni” accompagnati, ad ogni modo, da un coltello avvelenato ed un cortese invito scritto a lasciar perdere l’idea di partenza, rinfoderando la scimitarra grondante del sangue dei Nizariti. Quella stessa corrente parte dell’Islam Sciita, nata nell’attuale Iran presso la fortezza di Alamut e diventata influente circa un secolo prima, sotto l’egida del suo sovrano Hasan-i Sabbah, che anche per questo aneddoto sarebbe stata associata nelle cronache con il termine di dubbia precisione storica di Assassini. Molti dimenticano, tuttavia, come il castello di cui abbiamo fin qui parlato ed il relativo shaykh al-jabal (letteralmente “capo tribale della montagna”) menzionati anche da Marco Polo, non potessero semplicemente essere gli stessi, per una mancata corrispondenza cronologica e della collocazione geografica degli eventi. Essi potrebbero nel resto essere identificati nella figura del condottiero Rashid ad-Din Sinan e la rocca situata sopra la città di Masyaf, tra le colline da cui ha inizio la catena montuosa di Jabal Ansariyah. Un luogo molto noto ai videogiocatori o appassionati di cultura digitale contemporanea, per la sua ricostruzione fantastica all’inizio della serie interattiva Assassin’s Creed, in cui i celebri consumatori di hashish (traduzione, anch’essa, messa fortemente in dubbio dai filologi dei nostri giorni) hanno assunto le caratteristiche di antichi protettori dell’umanità dai rischi derivanti da misteriosi e potentissimi manufatti alieni. Eppure tralasciando questa parte, che potremmo eufemisticamente definire come alquanto speculativa, resta indubbia in tale opera una certa ricerca di precisione estetica nella formale rappresentazione di quei tempi e luoghi.

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L’elicottero in casa, ingombrante scarabeo che ricompare a fine maggio in mezza Europa

È l’esperienza spesso ripetuta del suono improvviso, proveniente dai soffitti delle nostre abitazioni. Come il ronzio di un dittero, parecchie volte amplificato, la cui forma d’onda tende a trasformarsi nella progressione rapida di qualche istante. Ben presto seguìto, nelle ore della prima serata, dall’impatto di qualcosa d’imponente, impressionante, contro il vetro variopinto del televisore. Non che al rapido protagonista volatore interessasse, in alcun modo, il contenuto delle immagini prodotte nella scatola in questione! Piuttosto che la luce in quanto tale, fonte prototipica di vita e il segno di una valida opportunità di migliorare l’andamento dei minuti a venire. L’esistenza d’altra parte non è complicata, per un membro adulto del triplice genere Melolontha, coleottero comunemente noto con il termine di cockchafer o “maggiolino”: tutto ciò che occorre fare, successivamente all’emersione, è andare incontro a un esemplare del sesso opposto. Facendosi trovare grazie all’emissione feromonica, nel caso delle femmine, o brandendo come un’arma il paio di attraenti antenne a forma di ventaglio possedute dal suo partner elettivo, un forte maschio per il resto indistinguibile dalla signora. Non che l’assenza di quest’ultimo elemento, così utile ad effettuare un riconoscimento, possa risultare sufficiente a far passare inosservati questi artropodi coperti di chitina delle dimensioni massime 25 mm. Abbastanza, in altri termini, da coprire quasi totalmente l’unghia al termine di un dito umano. Dove si ritrovano, talvolta, nel corso di questa frenetica esistenza, in ogni luogo dove sembrano tornare ad intervalli regolari, circondando ed inseguendo tutto ciò che non riescono istantaneamente a capire. Particolarmente celebre è d’altronde, e tanto spesso raccontata, l’esperienza di trovarsi sulla rotta di uno di loro. Finendo per subire l’impatto di un simile proiettile in pieno volto o le sensibili pareti del cranio umano. Fastidioso? Senz’altro. Così come narrano, nel corso degli ultimi giorni, gli annuali e ricorrenti articoli di vari testate inglesi, per l’annuale ricorrenza non particolarmente nota agli abitanti delle grandi città. Questo perché il cockfacher, rispetto all’epoca del Medioevo, ha visto i propri numeri diminuire in modo esponenziale, principalmente a causa dell’impiego sistematico di pesticidi. Fino a una tangibile inversione di tendenza, nel corso dell’ultimo ventennio, per l’introduzione di regolamenti più stringenti nella conservazione del sempre più prezioso ed insostituibile ambiente naturale. Un grande cambiamento dei presupposti, rispetto all’anno del 1312, quando presso la città papale di Avignone venne istituito un formale processo a carico dell’invadente hanneton, intimando ai membri della specie di tornare quanto prima dall’infernale regno da cui erano provenuti. Se non che alla prevedibile palese indifferenza degli scarabei, non restò altro da fare che eseguirne una spietata condanna a morte. Molto meno efficace di quanto si potrebbe tendere a pensare, in un’epoca in cui l’unico approccio disponibile era quello di dare la caccia, e schiacciare, la forma adulta di queste creature. Letterale punta di un’iceberg, sotterraneo ed invisibile, prevedibilmente pronto a ritornare ogni qual volta il clima fosse favorevole alla propria principale prerogativa: mangiare, riprodursi, morire. In una folle cavalcata in grado di durare al massimo un mese e mezzo…

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Lo spavento presidenziale di fronte alla temibile creatura lagomorfa della palude

Campione dell’America democratica con un messaggio d’inclusione e rivalsa, dopo i lunghi anni della guerra del Vietnam e lo scandalo del Watergate, che definì entrambi degli errori nel suo discorso al giuramento sulla Costituzione, Jimmy Carter giunse alle porte della Casa Bianca con il fermo intento di proteggere un paese finalmente unito, economicamente solido e forse anche, per quanto possibile, ridurre il numero dei suoi nemici senza posa. Nei precisi quattro anni in cui rimase al potere tuttavia, prima di essere travolto dall’ondata di sostegni al carismatico Ronald Reagan, non mancarono accese critiche alle sue idee e scelte politiche, talvolta basate su di un filo logico, qualche altra, su improbabili e altrettanto insoliti catalizzatori. Nessuno dei quali, nella misura in cui fu registrato dalla storia, più della vicenda metaforica ed alquanto surreale del terribile “coniglio mannaro”, così chiamato per analogia col recente successo cinematografico dei Monthy Python e il Santo Graal, quando il 20 aprile del 1979 avvenne l’imponderabile e l’imbarcazione presidenziale, impiegata per una battuta di pesca presso la località di Plains in Georgia venne momentaneamente presa d’assedio da una creatura al tempo stesso familiare e spaventosa, di aspetto gradevole ma caratterizzata da un latente quanto innegabile senso di minaccia. Era un Sylvilagus aquaticus o coniglio dalla coda a batuffolo di palude, come avrebbe potuto facilmente identificarlo qualcuno di abituato a vivere all’aperto, sebbene la rapidità delle vigenti circostanze, unita all’esigenza di fare immediatamente qualcosa, avrebbe potuto infrangere la sicurezza di chicchessia. Ma non quella, si narra, del presidente Carter che, sollevando sopra la sua testa la pagaia della piccola barca a remi, la calò con forza nell’acqua, producendo un suono ed uno spostamento liquido fortunatamente sufficienti a scoraggiare la rabbiosa creatura. Il che sarebbe stato sia l’inizio che la fine della vicenda, se non fosse per la maniera in cui l’addetto stampa dello Studio Ovale, Jody Powell, narrò ingenuamente l’episodio ad alcuni giornalisti durante una serata a base di alcol generando un caso che sarebbe stato destinato a coinvolgere la nazione. “Come ha potuto il nostro presidente, rischiare di nuocere a una creatura protetta?” Seguito dall’ipotesi religiosa: “I valori cristiani dello schieramento democratico passano di nuovo in secondo piano, mentre un leader tanto di rilievo non si preoccupa di pagaiare un povero coniglio.” E chiaramente all’estremo opposto dello spettro, non mancò l’inclemente postulato: “Non ordinando alle sue guardie del corpo di sparare al coniglio, Jimmy Carter si è mostrato debole. Ciò ha causato ondate di instabilità mondiale ed indirettamente, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la crisi degli ostaggi in Iran.” Eventualità apparentemente poco probabile, ma che sarebbe stata almeno in apparenza corroborata da alcuni documenti in russo visionati dal celebre giornalista dell’epoca della guerra in Corea, Robert Novak. Spuntò fuori anche una fotografia del temibile aggressore, destinata ad ispirare una pletora di parodie che avrebbero smesso di essere prodotte soltanto a settimane di distanza, mentre riferimenti all’episodio continuano ancora ad essere una parte inscindibile della cultura popolare statunitense. Tanto che oggi si è ancora soliti affermare: “Chi si prende gioco di un coniglio, non è mai stato aggredito da un coniglio.”
E del resto, avevate mai sentito parlare di un leporide tanto a suo agio dentro l’acqua, da poter pensare di aggredire a nuoto un’imbarcazione? Se così non fosse, ve ne svelo subito la ragione: in qualità di silvilago del Nuovo Mondo, genìa in effetti ben più simile alle nostre lepri, l’essere protagonista di questa vicenda è caratterizzato da un’appartenenza esclusiva all’area nordamericana, dove costituisce una vista piuttosto comune in determinati stati ed il secondo lagomorfo più cacciato nello scenario contemporaneo. Con buona pace dei suoi molti, opportunisti cavalieri bianchi all’acquisizione transitoria di rilevanza politica, attraverso le alterne vicende di una Nazione…

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