Che cosa sareste disposti a perdere per essere temporaneamente di più, vivere più intensamente, provare sentimenti maggiormente intensi di qualsiasi altro abbiate mai sperimentato prima di quel momento? Non si tratta di domande superflue, né passibili di esser poste alla leggera. I praticanti dell’antica arte drammatica Theyyam, ben oltre il concetto stesso di teatro meramente usato come forma d’intrattenimento, rinunciano prima di ogni rappresentazione alla propria stessa umanità. E non sempre gli viene permesso, al termine, di ritrovarla a pieno titolo ed usarla come un compasso per ridisegnare il cerchio della propria quotidianità esistenziale. Guardateli per questo volteggiare, tramite i filtro (o forse sarebbe calzante affermare, all’interno) dei monumentali costumi utilizzati per rendere interpretare la venuta tra la gente di alcuni degli esseri supremi dell’eterogeneo subcontinente. Poiché qui siamo, è importante specificarlo, presso il Therala sulle coste del Malabar, dove la densità di Dei e dei culti a loro dedicati supera persino quella dei villaggi, permettendo la frequente associazione di un episodio mitologico alla fondazione di una singola famiglia o dinastia ormai estinta. Come viene fatto enfaticamente ricordare, con egual dose di spettacolarità e riverenza, dai mistici dervisci dall’improbabile imponenza, mentre ricevono il supremo dono di entrare in contatto diretto con colei o colui che desidera sperimentare brevemente la vita terrestre. Un approccio alla questione che potremmo definire, senza dubbio, caratterizzante; poiché il Theyyam, un termine che significa letteralmente “divino” costituisce a tutti gli effetti non soltanto un atto di venerazione, bensì la possessione sciamanica e cessazione della rilevanza dell’ego. Mentre coloro che lo effettuano diventano, per tutto il tempo necessario, dotati della capacità d’influenzare la progressione karmika degli eventi.
È una cosa estremamente memorabile a vedersi. Ciascuna delle persone incaricate di eseguire i passaggi necessari all’esecuzione del rituale ha ereditato, tramite molteplici generazioni o un continuativo impegno dimostrato a partire dall’età massima di 6 o 7 anni, le capacità necessarie a rendere l’effetto di trovarsi al cospetto di un essere pressoché onnipotente. Il che presuppone, molto prevedibilmente, una precisa e complessa preparazione, che inizia dal momento in cui, un paio di settimane prima del giorno fissato, il danzatore rigorosamente di sesso maschile si astiene dal fumo, l’alcol, i litigi o i cattivi pensieri. Comportandosi a tutti gli effetti come un asceta, mentre cerca e trova la concentrazione necessaria a trasformarsi. Il che avviene in un momento estremamente preciso, molto spesso ma non sempre parte della parte pubblica della sua esperienza: mentre osserva immobile lo specchio, pensando al proprio ruolo transitorio nell’immensità dell’Universo conosciuto o teorizzato nello scorrere dei millenni. Quando all’improvviso avverte, come da copione, di essere tremendamente prossimo a perdere il controllo…
villaggi
L’importante insegnamento collaborativo della casa lunga irochese
Quando nel XVIII secolo, sui vasti territori del Nuovo Mondo, iniziò la serie di guerre tra potenze coloniali che avrebbe portato alla redistribuzione dei rapporti di potere e i diritti di sfruttamento di risorse e popolazioni, prima i francesi, quindi gli inglesi e infine coloro che seguirono la nuova bandiera statunitense, dovettero fare i conti con una significativa forza militare locale. Diversamente dagli “indiani” delle Grandi Pianure inclini a migrare assieme ai bisonti, o i le genti del nordovest che vivevano di pesca e caccia in un regime di survivalismo a lungo termine, l’intera zona a settentrione di New York, fino alle propaggini dei Grandi Laghi ed oltre, risultava occupata da un popolo fortemente organizzato e capace di delineare una strategia diplomatica, essendo incline ad allearsi di volta in volta con coloro che sembravano offrire maggiori garanzie di preservare i propri tratti fondamentali. Ma forse sarebbe più corretto definire queste genti come una confederazione di culture differenti, secondo la metafora autoreferenziale di una “lunga casa dai cinque focolari”, in cui le tribù dei Mohawk facevano la guardia alla porta est, quelle dei Seneca alla sua controparte ad Ovest, mentre gli Onondaga, i Cayuga e gli Oneida risedevano e gestivano l’interno del vasto edificio. Null’altro che una manifestazione ideale, concettualmente corrispondente all’effettiva configurazione di una soluzione abitativa tanto diffusa da corroborare la definizione riflessiva di Haudenosaunee o popolo, per l’appunto, della Long House. Ora utilizzare tale termine, da un punto di vista europeo, evoca l’immagine tipicamente interconnessa alla cultura vichinga, dell’imponente punto di riferimento o centro nei villaggi di quel particolare contesto medievale, dove viveva il capo assieme ai suoi uomini più fidati. E grandi banchetti o feste collettive venivano approntati, al ritorno dei guerrieri dall’ultima delle loro scorribande. Il che offre quanto meno uno spunto d’analisi comparativa, per il modo in cui l’abitazione più imponente e statica dei nativi americani costituisse un punto di riferimento comunitario, il centro di una vita in cui ciascuno aveva un ruolo, e la sua importanza per la collettività veniva espressa dall’attribuzione di un rifugio valido a difendersi dagli elementi o altri rischi tipici di una società pre-moderna. Ma le somiglianze, sia tecnologiche che funzionali, tra entità così geograficamente distanti si riducono essenzialmente a questo. Laddove la proprietà della casa lunga nordamericana veniva formalmente attribuita alle donne della tribù, così come l’appartenenza a tale gruppo sociale ascendeva in senso matrilineare fino alle origini delle generazioni trascorse. Essa costituiva, inoltre, principalmente un luogo dove trascorrere l’inverno e le profonde ore della notte, risultando totalmente priva di finestre o altre aperture che un singolo camino centrale, permettendo un accumulo di fumo considerato utile dal punto di vista termico e per la conservazione dei cibi. Tali ambienti erano inoltre particolarmente vasti, con una forma oblunga capace d’estendersi per svariate decine di metri, pur essendo raramente più larghe di 4 o 7. Gli agglomerati di simili residenze, infine, venivano generalmente circondati da alte palizzate, facendone delle fortezze sostanzialmente inespugnabili dal punto di vista dei nemici tradizionali della confederazione come gli Algonquini, che dopo essere stati scacciati dalle loro terre cominciarono a chiamarli “Popolo degli assassini” o nella traslitterazione più conosciuta ai nostri giorni, Irochesi.
Storie messicane dal villaggio che scoprì di essere appartenuto agli Stati Uniti
Nella progressione storica dei gironi e dei giorni, esistono soltanto due possibilità: soffrono le persone, oppure soffrono le nazioni. Entità che sorgono dai vortici dell’ambizione collettiva, per poi espandersi e guardare verso l’indomani con l’intento di trovare un punto d’equilibrio, la condizione statica oltre cui nessuno possa dire: “Fin dove si spinge lo sguardo, tutto quello che vedi è mio!” Un percorso lungo secoli e adesso guarda il risultato: dozzine di famiglie, certe volte ancora intere (che fortuna!) che ansimando immergono le loro stanche membra dentro le acque di quel fiume. Nel disperato tentativo di guadarlo. Nella speranza di potersi ricavare uno spazio là, dove lo spazio è stato de-finito da tempo. Eppur esistono dei luoghi, ove la civilizzazione “propriamente” detta è un mero miraggio distante. Distese brulle o polverose e innumerevoli simili aggettivi deplorevoli, ove il confine tra i paesi non è netto né propriamente definito. Posti dove l’unica maniera disponibile per l’uomo, al fine di tracciare quella linea in modo chiaro e incontrovertibile, è tentare di riuscirci tramite l’impiego dei fiumi. Assurdo, se ci pensi. Poiché cosa muta e scorre, varia il suo tragitto, più dell’acqua nel percorrere la strada che la porta fino ai limiti del mare? Così come faceva, ed senz’altro solito ancor fare il Rio Grande (alias Río Bravo del Norte) con i suoi 3.051 Km sufficienti a renderlo il quarto corso d’acqua più lungo dell’America settentrionale. Nonché suddivisione ragionevolmente in comune, selezionata nel 1840 al termine della Intervención estadounidense en México, un conflitto durato quasi due anni come conseguenza dell’annessione di territori allo stato del Texas da quello confinante di Tamaulipas, dopo la ratifica forzata da parte del presidente del Messico di una serie di trattati ineguali. Realtà di fronte cui i sapienti cartografi statunitensi, ben intuendo la problematica sopra descritta, decretarono che la demarcazione tra i due paesi fosse calcolata in base al punto mediano del suddetto percorso idrologico, fermo restando che qualsiasi deviazione antropogenica in tal senso sarebbe stata ignorata e severamente redarguita dalle autorità competenti. Così negli anni a venire, all’interno delle “dita” formate dai meandri del fiume, nacquero comunità di frontiera, nessuna delle quali più notevole attraverso le sue alterne peripezie ed aneddoti di quella denominata per l’appunto come esso stesso: Rio Grande. Che dal 1845 occupò il tratto di Horcón, uno spazio di 1,67 chilometri quadrati situato dalla parte degli Stati Uniti, ad apparente ed ulteriore sempiterna memoria. Finché qualcuno, alla ricerca di potenziali vantaggi economici, non fece quello che era stato espressamente ed originariamente vietato…
L’esperimento del distretto Pullman, un feudo medievale nella Chicago dell’Ottocento
Lungi dall’essere considerato fino agli ultimi anni della sua esistenza una sorta di Ebenezer Scrooge della sua parte dell’Atlantico, in una versione drammaticamente realistica del Canto di Natale, il grande industriale, inventore e supremo capitalista George Pullman (1831-1897) ebbe la capacità di coltivare l’immagine di un magnate illuminato, attento al benessere dei propri dipendenti all’interno delle sue molte iniziative utili al miglioramento della loro vita. Giungendo persino a far costruire per loro una ragionevole approssimazione dell’Eden, la città “perfetta” situata nella parte meridionale di Chicago, in cui l’esistenza trascorreva in superficie priva di problemi sociali, senza distrazioni, alcol e gioco d’azzardo. Tra gli edifici progettati in base ai crismi di un’estetica gradevole e pittoresca, fino al culmine della suprema sede della Compagnia, con la sua svettante fabbrica dotata di una fiabesca e stranamente superflua torre dell’orologio. Che qualcuno potrebbe riconoscere dal film animato di Robert Zemeckis del 2004, Polar Express, giungendo al punto di essere riutilizzata come elemento caratterizzante della sede operativa di Babbo Natale. Una scelta presa in forza dell’associazione imprescindibile tra questo luogo con le ferrovie, data l’importanza di una forza lavoro giovane ed esperta nella costruzione delle eponime carrozze Pullman, vagoni dotati di ogni comfort per il pubblico crescente dei commessi viaggiatori, una categoria sociale in forte crescita sul finire del XIX secolo. Di sicuro più costose della concorrenza ma anche standardizzate e facilmente intercambiabili, con grande semplificazione logistica per compagnie ferroviarie. Un prodotto dallo straordinario successo, dunque, sufficiente all’accumulo di un capitale tale da permettere al suo padrone ed esclusivo detentore dei diritti, nel 1880, di acquistare un terreno di 4.000 acri in prossimità del lago Calumet sui confini della sua città d’adozione, dove aveva fatto fortuna in precedenza importando un particolare sistema di spostamento con martinetti idraulici degli edifici, impiegato all’epoca della costruzione del canale Erie a New York. Così che assunto a tal fine l’architetto Solon Spencer Beman, già famoso per aver contribuito al revivalismo gotico di quel secolo e la costruzione del Campidoglio del Connecticut, iniziò la realizzazione del suo ultimo e più ambizioso sogno: un luogo che potesse dirsi il culmine e la suprema realizzazione della sua visione del mondo. L’ultimo in ordine di tempo e forse il più famoso esempio del concetto di città aziendale, un agglomerato urbano attentamente pianificato per permettere al personale di una particolare attività del mondo industrializzato di vivere a ridosso del proprio luogo di lavoro, il distretto Pullman avrebbe mantenuto per diversi anni un’immagine di straordinaria serenità apparente. Con reiterati articoli di giornali e trattazioni a più livelli della straordinaria qualità delle sue residenze, universalmente dotate di amenità piuttosto avveniristiche per l’epoca, quali acqua corrente ed elettricità, tanto da essere già diventato una letterale attrazione turistica durante l’Esposizione Mondiale tenutasi a partire dal maggio del 1893. Ma era già dai primi mesi di quell’anno che le cose avevano preso una piega inaspettata, rivelando la cupa realtà dei fatti dietro la facciata d’apparente perfezione, ovvero lo spietato volto nascosto e le sinistre conseguenze di di una casa così falsamente attraente…