Dolore o guarigione nella pianta che produce il fuoco dalla punta delle sue foglie

E fu così che mentre Mosè pascolava il gregge di Ietro, suo suocero, scorse l’angelo del Signore in un roveto in mezzo a un passo del monte oltre il deserto, l’Oreb. La pianta ardeva per il fuoco, ma non si consumava. La voce allora disse: “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali, poiché il luogo su cui sta camminando è suolo consacrato.” Mosè allora si coprì il volto con la mano, perché aveva paura di guardare verso Dio. Gesti ben precisi ancora oggi compiuti, con la massima attenzione, dai sacerdoti del monastero di Santa Caterina in Egitto, dove oltre alle reliquie della principessa martirizzata ad Alessandria gli ecclesiastici hanno il dovere di custodire ormai da più di mille anni i rami non del tutto naturali di un cespuglio. La pianta stessa, o almeno così si ritiene, presso cui il profeta degli Israeliti ottenne la sua rivelazione più importante: scientificamente parlando, un esemplare all’apparenza normalissimo di quello che è stato identificato come Rubus sanctus, pianta strettamente imparentata con le spine acuminate di lamponi o more dei nostri ambienti boschivi. Oltre il legittimo dubbio che la forma di vita vegetale in questione possa essere stata sostituita svariate volte nel corso dei lunghi secoli intercorsi, tuttavia, una sfida per la fede può collocarsi nel ricco novero della tassonomia botanica da una potenziale specie responsabile, dotata di una caratteristica invero piuttosto rara. Quella di accendersi in modo spontaneo durante giorni particolarmente caldi e secchi, di una scintilla che può circondarne momentaneamente il fusto, le foglie e i fiori. Per poi spegnersi, regolarmente, senza conseguenze in grado d’inficiarne la sopravvivenza nell’immediato o potenziale futuro.
Il suo appellativo binomiale è Dictamnus albus. per associazione geograficamente non corretta con l’isola greca di Dikté, anche detta Creta ed in modo particolare il suo punto di maggiore preminenza, il sacro monte di Ida. Laddove il thamnos (arbusto) di riferimento sarebbe in questo caso un’altra pianta autoctona, l’Origanum dictamnus appartenente per l’appunto alla famiglia dell’origano, piuttosto che quella del rosmarino che vede per l’effettiva specie presente nell’intera Eurasia, incluse zone temperate della Siberia e del Caucaso. Molto meno problematica nel frattempo la nomenclatura d’uso comune in italiano, che vede la pianta monotipica in questione definita come frassinello, per la superficiale somiglianza delle sue foglie con l’albero delle Oleacee comune in tutto l’emisfero settentrionale. Pur trattandosi nello specifico di pianta erbacea perenne, che non muore facilmente ma rinasce dalle sue radici, anche in seguito all’abbattimento del fusto, comunque raramente più alto dei 60-80 cm da terra. Fino alla spettacolare produzione delle vistose infiorescenze violacee, lungamente inserita nei cataloghi botanici, per le doti pratiche e talvolta mitologiche confermate già note agli antichi…

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Le tre porte verso la moschea scientifica, capolavoro architettonico dell’Anatolia

Rassicurante può essere tentare di attribuire alle maggiori religioni del mondo una serie di caratteristiche esteriori e implicazioni contestuali capaci di esulare dai reciproci contesti d’appartenenza. Determinati stili, connessioni pratiche nelle meccaniche visuali da evocare nei fedeli, mediante lo strumento sempre utile dell’arte umana. In tal senso costituendo il tipo di enti che trascendono i confini di regni, repubbliche o tribù, i diversi modi di approcciarsi alla divinità diventerebbero una mera conseguenza, dell’uno o l’altro canone letteralmente imposto dagli imprescindibili predecessori di un Credo. Al punto che persino l’eccezione, nell’attenta salvaguardia di quell’utile concetto, diviene per il senso comune uno strumento avversativo utile a confermare la presunta regola. Pur essendo, nel contempo, l’evidente promemoria che ogni tipo di realizzazione può riuscire a giustificare la propria stessa esistenza, a patto che sia sufficientemente memorabile in una quantità rilevante dei propri fondamentali aspetti. Nello stesso modo in cui a Divriği, insediamento di circa 11.000 abitanti nel distretto turco di Sivas, sorge un edificio che avendo incorporato a partire dal XIII secolo la duplice funzione di luogo di culto islamico e dār al-shifā’ (casa di guarigione) oggi ci ricorda come i preconcetti fondati sulle conoscenze pregresse non sempre corrispondano a fattori geometricamente prevedibili, né sostanziali limiti creativi imposti ai costruttori originali di una simile tipologia di edifici. Con dimensioni imponenti di 64 per 32 metri e facciate in media capaci di elevarsi fino a 12 metri fatta eccezione per il minareto, che ne raggiunge 24, la Grande Moschea e Ospedale (Ulu Cami ve Darüşşifası) della città risulta dominata per chi l’osserva da lontano da un’iconica caratteristica particolarmente distintiva nel suo contesto culturale d’appartenenza: tre portali monumentali finemente ornati, mediante l’utilizzo di bassorilievi ed elementi a sbalzo, tanto elaborati da giungere a ricordare superficialmente l’aspetto delle cattedrali gotiche della stessa epoca appartenente a un contesto europeo. Almeno finché non ci si avvicina ulteriormente, giungendo a intuire almeno in parte il complesso iconografico degli elementi rappresentati per ciascuna di esse, che in aggiunta alle iscrizioni a rilievo del nome del sultano nella distante capitale, dei committenti diretti e la duplice funzione della struttura, di per se non rara all’epoca, includono reticoli decorativi a nido d’ape, dotati di elementi vegetali e diverse creature fantastiche dal significativo simbolico relativamente occulto. Ragion per cui sarà opportuno, a questo punto della trattazione, rivolgere temporaneamente la nostra attenzione al quadro storico che avrebbe permesso ad un simile capolavoro di palesarsi…

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Le ruote del destino nel colossale veicolo trasformato in tempio del Sole a Konark

Dietro una solida barriera cresciuta sulla costa di querce tamarina ed allori tamanu, perfettamente visibile dal punto panoramico lungo un’arteria di collegamento stradale, si erge nella regione storica di Odisha un edificio dell’altezza di 30 metri sopra una solida piattaforma, con un tetto piramidale a gradoni successivamente sovrapposti. Ma sarà soltanto avvicinandosi a distanza più ridotta, che l’osservatore potrà scorgere l’eccezionale quantità di gruppi statuari e sculture in bassorilievo che si affollano su queste mura, raffiguranti in egual misura scene mitiche, momenti della vita quotidiana e posizioni tantriche direttamente estratte dal sacro repertorio del Kamasutra. Laddove nella parte più vicina al suolo, gli oltre 1.200 scultori coinvolti all’epoca della sua costruzione vennero incaricati di prevedere la forma immediatamente riconoscibile di 24 ruote finemente ornate, non tanto come raffigurazione del ciclo dell’esistenza e la natura ciclica dell’Universo. Bensì necessari componenti al fine di far muovere, in maniera metaforica se non pratica, l’intero torreggiante ammasso di muratura e pietra. Alimentando l’idea per cui tutto diventava possibile, nel distante e misterioso Oriente…
Con le loro armi energetiche, i veicoli spaziali, la capacità di cambiare aspetto e identità terrena, molti degli aspetti attribuiti alle divinità dell’Induismo avvicinano queste figure trascendenti alla moderna e molto più prosaica concezione di un popolo cosmico entrato in contatto in con gli umani, in un’epoca remota, finendo per essere venerato mediante crismi rituali e costruzioni tangibili capaci di restare intatte attraverso lo scorrere d’infinite generazioni. Così come l’idea del tutto mitologica, ma inerentemente influenzata da corrette percezioni di natura astronomica, che l’astro diurno fosse trasportato quotidianamente attorno al nostro mondo grazie all’utilizzo di un carro volante, le cui proporzioni si sarebbero probabilmente avvicinate a quelle del palazzo semovente di un sovrano. Un’idea riconducibile a quella del dio greco Elio, sostituito in questi luoghi da Sūrya (“Luce Suprema”) entità precedente addirittura all’elaborazione della Trimurti e che nei poemi epici del Ramayana e Mahabharata appare rispettivamente come il padre spirituale di Rama e di Karna. Il che rende alquanto atipica e di certo singolare, l’assenza generalizzata di templi dedicati a tale ancestrale divinità sebbene i pochi dislocati nell’intero estendersi del subcontinente figurino senz’altro tra i più massicci e notevoli di questo eterogeneo paese. Con uno, in modo particolare, utilizzato come termine di paragone nonché principale esempio sopravvissuto dell’originale scuola architettonica dello stile Nagara, tradizionalmente contrapposto a quello dravidico dell’India meridionale. Trattasi di niente meno, come avrete certamente già desunto dall’intestazione, che dell’iconico Sūrya Deul di Konark, situato in corrispondenza di un importante porto commerciale di scambio e laguna di approvvigionamento ittico del potente impero dei Ganga Orientali, capace di regnare nell’intera regione di Kalinga sulla costa Est dell’India senza sostanziali interruzioni dal V alla metà del XX secolo. Questo grazie all’opera continuativa dei depositari di una potente tradizione militare, ma anche l’abilità strategica e diplomatica di sovrani come Narasingha Deva I (r. 1238-1264) dimostratisi capaci di costituire una barriera invalicabile contro l’espandersi della sfera d’influenza politica, ed al tempo stesso quella religiosa, dei potenti Mamelucchi islamici di Delhi…

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Riecheggia nuovamente, magnifico tamburo che avvisava del pericolo i villaggi della Costa d’Avorio

Soldati in equipaggiamento europeo dell’inizio del XX secolo che s’inoltrano entro una macchia di vegetazione densa di ombre e prospettive poco chiare. Convinti di poter sorprendere, grazie ad un’accurata pianificazione strategica, i capi della ribellione che ormai da svariate settimane impediva ai rifornimenti di raggiungere le fattorie dell’entroterra dietro i posti di guardia sui confini di Adjamé, la laguna costiera scelta per sfuggire al clima arido, le malattie e le belve del difficile territorio nordafricano. Quando il capitano francese della spedizione, facendo un cenno agli uomini di fermarsi a lato del sentiero, si protende ad ascoltare un suono trasportato dal vento. Come un ritmo stranamente meccanico ed irrituale, ovvero la lamentazione di una mistica creatura risvegliata. E allora tutti seppero che il loro intento era fallito. Poiché dall’altro lato della foresta, sollevandosi in maniera graduale, un secondo suono simile iniziava a riprodurre l’articolata risposta. Tutti ormai sapevano del loro arrivo. Il villaggio dei nativi, al termine di quella lunga marcia, li avrebbe accolti con musica, una festa ed abbondanti libagioni. Ma nessun colpevole da riportare nelle avulse prigioni…
Il problema principale del colonialismo è che il suo il suo funzionamento implicito non tollera, dal punto di vista di chi costruisce gli insediamenti, l’incontro e commistione di sistemi sociali contrastanti. In un capovolgimento storico di quell’integrazione tanto spesso evocata, al giorno d’oggi, nel commentare e limitare il verificarsi dei flussi di migrazione che non hanno mai cessato di operare al susseguirsi dei fattori della civilizzazione vigente. Così che il supposto “pentimento” dei grandi poteri dell’Occidente, col trascorrere dei secoli, si è trasformato in utile strumento con cui chiedere a popolazioni strategicamente in minoranza di “dimenticare” ciò che un tempo erano, annichilendo in modo molto pratico le differenze. Ma se invero dovrebbe essere la geografia, intesa come appartenenza storica di un popolo ad un luogo, a determinare il fato di costoro e i loro discendenti, perché un simile approccio non si applica anche alle cose che costituiscono la loro eredità tangibile, un potente filo di collegamento tra l’antico e il moderno? Se c’è stato un pentimento, perché non restituire ai popoli diseredati, quanto meno, i loro perduti tesori?
Si trattò di un importante punto di svolta, nella storia condivisa tra la Francia e i territori un tempo dominati sotto il suo vessillo nel vasto continente africano, quando l’attuale presidente Emmanuel Macron pronunciò il discorso del 28 novembre 2017 a Ouagadougou, in Burkina Faso, chiedendo scusa per la prima volta in merito a ciò che un tempo si era verificato. E promettendo di operare politicamente in modo concreto al fine di rimediare, nella misura in cui era possibile, agli strascichi di quel periodo storico di crudeltà e disuguaglianze. Cominciando con la compilazione del cosiddetto memoriale di Sarr-Savoy, una lista di alcune decine di opere d’arte africane (tra le oltre 90.000 possedute dai musei francesi) ai loro luoghi originari di provenienza. Una decisione che oggi, dopo molti ritardi di natura logistica ed amministrativa, sta iniziando finalmente a trovare margini concreti d’implementazione situazionale…

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