Come un macigno posto lungo il corso di un grande fiume, la memoria dell’uomo viene erosa dallo scorrere insistente delle decadi ed i secoli trascorsi, diventando progressivamente meno nitida ed approfondita nei dettagli delle vite trascorse. Intere vicende di persone che hanno frequentato i sentieri alterni della vita, lasciando impressa una testimonianza pratica dei loro trascorsi tra le moltitudini presenti e future: artisti, filosofi, uomini politici e simili membri di una società indivisa, in cui ci è sempre apparso come invito implicito ed inevitabile, la diretta associazione tra le loro gesta e i luoghi in cui hanno trascorso i loro giorni tra le schiere dei viventi. Dal che le innumerevoli testimonianze architettoniche, intese come iscrizioni, epigrafi ed epitaffi, riportati non soltanto lungo i viali ombrosi dei cimiteri, bensì innanzi agli occhi della principale concentrazione di persone, il tentacolare ambiente cittadino coi suoi plurimi e continui cambiamenti. Di muri, ed invero interi edifici, continuamente demoliti e sostituiti con altre di maggiore solidità strutturale, fatto salvo che la loro svettante presenza sia stata in qualche modo coinvolta nel complicato avvicendarsi di cause ed effetti che siamo abituati a definire Storia. Già, ma come distinguere questi ultimi dalle moltissime alternative, esteriormente identiche, che formano l’urbano labirinto delle circostanze? È qui che entra in gioco, per lo meno in un contesto geograficamente britannico, l’idea e l’intraprendenza del politico di fazione liberale William Ewart (1798-1869) che esattamente sei anni prima della sua dipartita ebbe l’idea d’istituzionalizzare, ed in qualche modo rendere immortale e imprescindibile, la sopra descritta tendenza totalmente implicita nella conservazione della labile memoria collettiva degli eventi. In senso lato, nulla di nuovo, eppur condotto con un’uniformità di metodologie ed intenti tali da essere effettivamente privo di precedenti. Tramite il coinvolgimento iniziale della Royal Society of Arts (RSA) per la creazione di una serie di targhe murarie riportanti il nome, qualifica e durata della vita di una certa serie d’insigni personaggi, da affiggere presso le case dove avevano vissuto la propria giovinezza, o altri luoghi ove avevano trascorso periodi particolarmente influenti della loro carriera. A partire dalla prima, in seguito andata perduta a causa di una demolizione poco accorta nel 1889, dedicata al poeta Lord Byron nel luogo della propria nascita 24 Holles Street, Cavendish Square. La più antica ancora esistente, atipicamente eretta quando il suo soggetto era ancora in vita, è invece quella del politico Napoleone III a King Street, St. James, nella residenza che si dice lasciò in tutta fretta nel momento in cui ricevette la notizia dell’abdicazione del re Louis-Philippe nel 1848. Questi primi segnali istituzionali, dunque, avevano alcune caratteristiche destinate a restare inscindibili dal concetto stesso del loro ambito, tra cui la forma perfettamente circolare plasmata da una mattonella encaustica, ovvero colorata senza l’uso di vernici bensì mediante l’impiego di diverse tipologie di ceramiche cotte allo stesso tempo. Negli anni successivi e mentre le targhe prodotte aumentavano vertiginosamente di numero, tuttavia, numerose variazioni sul tema sarebbero state sperimentate, con l’idea del tutto comprensibile di contenere i costi di produzione…
personaggi
L’enorme università medievale costruita in Africa dall’uomo più ricco nella storia dei continenti
Tra i personaggi più celebri ed al tempo stesso misteriosi nell’intera storia dell’Africa Occidentale, Mansa Kanku Musa ha visto realizzarsi, nella celebrazione ad opera della prosperità, un periodo celebrativo particolarmente esteso grazie all’invenzione delle trattazioni brevi per il popolo di Internet, concepite al fine di rendere interessante un singolo argomento storico in un paio di paragrafi o poco più. Poiché c’è molto di appassionante per la fantasia del grande pubblico nell’affermare che nel particolare contesto geopolitico di allora, costui sia stato il più abbiente di tutti i sovrani della storia pregressa e futura, e regolando le cifre in base all’inflazione dei nostri giorni, persino più abbiente di figure come Jeff Bezos, Bill Gates ed Elon Musk. Un’affermazione mai effettivamente supportata dai fatti, per la semplice ragione che verificarla, ad oltre sette secoli di distanza, esula dalle effettive possibilità degli studiosi. E per di più basata su di un singolo episodio della sua vita, largamente celebrato da diverse fonti arabe e con probabili intenzioni almeno parzialmente auto-celebrative. Ciò che d’altra parte sappiamo per certo, poiché ne abbiamo le prove tangibili, è che al ritorno dal suo pellegrinaggio presso la Mecca in base ai termini della religione in cui aveva scelto di convertirsi, buona parte delle sue finanze furono investite nel costruire grandi opere pubbliche, presso l’antica capitale del regno del Mali, Niani e i nuovi territori conquistati di Noa e Timbuctù. Per far costruire in modo particolare all’interno di quest’ultima, uno dei templi della conoscenza più notevoli mai esistiti, capace d’istruire all’apice del suo periodo d’operatività una quantità (stimata) di studenti superiori a quelli della moderna Università di New York nell’intero anno 2008. Siamo quindi ormai verso la fine del suo regno (c. 1312-1337) quando la pre-esistente moschea di Sankoré, risalente almeno al 988 grazie alla donazione accertata di una donna di lingua e cultura malinke, ricevette un’afflusso imprevisto di fondi sufficiente a trasformarla in una vera e propria madrasa, o scuola coranica, dalle proporzioni ed organizzazione del tutto prive di precedenti. Narrano gli storici coévi, dunque, di come il grande complesso capace di espandersi in 180 edifici confinanti fosse destinato ad accogliere ben presto circa un quarto dell’intera popolazione cittadina, essenzialmente composta da insegnanti e alunni suddivisi in una serie di facoltà indipendenti. Per la messa in opera di un curriculum capace di durare in media 10 anni, quindi più simile a un apprendistato secondo le logiche dell’educazione medievale, da cui si usciva formati fino al più alto dei livelli immaginabili e preparati su argomenti religiosi, legali e scientifici. Ma soprattutto, avendo memorizzato il Corano e potendo esprimersi coerentemente nella lingua Araba, un vero passaporto per l’integrazione ai vertici della società altamente sincretistica di quei giorni. Così che la fama di una tale istituzione entro breve tempo riuscì a propagarsi verso Oriente, percorrendo quegli stessi sentieri commerciali che erano stati il sentiero verso l’immortalità di un sovrano tanto amato dalla propria discendenza, quanto discusso dai contemporanei in qualità di eccessivo riformatore e scialacquatore delle risorse vaste ma non infinite del suo potente regno del Mali, precedentemente arricchitosi grazie alle importanti miniere di sale e d’oro, responsabili quest’ultime secondo una stima di circa un terzo del prezioso minerale attualmente in circolazione nel mondo. Un tesoro, probabilmente, superato solo dalla fama successiva e l’elevato prestigio dei suoi studenti…
Nativo eloquente dimostra lo schiocco tonante delle diverse consonanti sudafricane
All’origine della vicenda umana sulla Terra, le persone iniziarono a convergere l’una in prossimità dell’altra. Per proteggersi dai predatori, le intemperie e gli altri pericoli della natura, cominciarono perciò a cooperare. Ma come possiamo facilmente comprendere, non può esserci lavoro di concerto senza un qualche tipo di comunicazione. Taluni gruppi etnici, e l’intera specie soltanto vagamente imparentata alla nostra degli uomini di Neanderthal, utilizzarono perciò i gesti. Mentre altri, ben presto imitati dalla maggioranza, iniziarono da subito a impiegare lo spropositato potenziale dell’apparato fonatorio umano. O forse sarebbe più preciso definirlo, in questa fase, l’unione meramente pratica di naso, gola e bocca, capaci come nella maggior parte delle specie animali di articolare e manipolare il passaggio udibile dell’aria al loro interno. Guidata tuttavia, per la prima e significativa volta, dall’acuta intelligenza che conduce ad una pletora di applicazioni parallele, ciascuna improntata alla specifiche necessità di una particolare società, diversa in vari modi da ciascuna delle altre. Forse il più importante fondamento della scienza linguistica contemporanea, tuttavia, è che le caratteristiche fondamentali delle sopracitate strutture anatomiche, finalizzate nel contempo ad assolvere il non meno importante compito di mantenere in vita i loro proprietari, restano sostanzialmente invariate nell’intero ventaglio conseguente dall’originale diaspora geografica compiuta dai primi cacciatori-raccoglitori in Africa ed i loro discendenti, gli agricoltori. Ed è sulla base di questo che il particolare impiego dei fonemi utilizzati in un antico gruppo di lingue, situate nella parte meridionale di quel continente, viene giudicato “inusuale” nella maniera in cui devia da talune regole tanto diffuse da poter risalire, idealmente, all’ignoto idioma della prototipica Eva mitocondriale. La prima donna (o fino a 20.000 donne vissute allo stesso tempo) da cui discenderebbero le intere moltitudini dell’odierno consorzio parlante. E se invece, d’altra parte, fosse vero l’esatto contrario? Che quanto messo in pratica nel qui presente affascinante video di Sakhile, guida culturale del suo popolo, gli Zulu, fosse la strada maestra della comunicazione, soltanto per un mero caso del destino, abbandonato dalle moltitudini migranti delle famiglie umane?
Lo studio sistematico dei linguaggi, nato sul piano semiotico alla fine del XIX secolo, iniziò quindi dal sopracitato punto di partenza a descrivere una serie d’insiemi interconnessi, affini alle diverse famiglie tassonomiche impiegate nello studio della biologia. Individuando nella parte meridionale del più antico dei continenti ad essere popolato due realtà sostanzialmente distinte: le lingue cosiddette Khoisan, che accomunavano per l’appunto i Khoi (o Khoikhoi, letteralmente: veri uomini) ed i San (più comunemente detti boscimani) nella parte occidentale della “punta” africana, contrapposti a un altro gruppo di quattro idiomi noti come Nguni o con il termine imposto dall’alto di Bantù, giunti fino a questi luoghi nel corso delle ripetute diaspore e conflitti subiti dai gruppi etnici della regione dei Grandi Laghi (Victoria e Tanganyika) a seguito delle conquiste e saccheggi culminati nel grande conflitto etnico dello Mfecane, che si era esteso per trent’anni a partire dal 1810. Quando il grande capo tribale Shaka kaSenzangakhona, facendo onore alla primordiale tradizione bellica del suo popolo, elaborò strategie e tattiche non solo in grado di garantirgli la conquista dei suoi vicini, ma anche di resistere, per un tempo breve quanto significativo, alla potenza coloniale dell’Impero Inglese. Difficile non notare, d’altra parte, almeno un quantum dell’originale eloquenza appartenuta un tempo a un personaggio di quel calibro, nello stile laconico ed il naturale carisma tranquillo del nostro Virgilio nell’inconoscibile profondità dei linguaggi…
Le speculari trasformazioni del poliedrico artista Darrel Thorpe
Nei meandri marginali di un’interminabile settimana, seduto alla noiosa scrivania dei nostri giorni, percepii per la prima volta una presenza. E nel guardarmi attorno concentrandomi sugli aspetti permeabili dell’esistenza, per la prima volta, vidi lui, che vide me allo stesso tempo. Si trattò di un rapido movimento nel riquadro riflettente della finestra, che aveva ruotato fino ad inquadrare obliquamente la mia figura. E ad un effetto della brezza lieve di quel pomeriggio, sfortunatamente, si spostò di nuovo. Dopo quel momento, per quanto tentassi di spiarne nuovamente le intenzioni, posizionando strategicamente il vetro prima di tornare in postazione, egli mancò di farsi nuovamente avanti presso le regioni dello scibile apparente. Almeno fino al giorno in cui fuori pioveva, dopo l’ora del tramonto, e la stragrande maggioranza delle luci erano spente. Quando soltanto il mio volto, illuminato dalla luce dello schermo, pareva fluttuare senza il minimo contesto nel riquadro di quel vetro che mandava tale immagine al mittente. E fu allora che tenendo ben fissi gli occhi verso avanti, mentre la parte girevole della mia sedia faceva l’esatto opposto, fece nuovamente la sua comparsa. L’altro “me” con l’alta fronte sormontata da un paio di corna, la metà inferiore del volto ricoperta da una folta barba, i capelli a incorniciare il tutto come nell’antica e vermiglia statua di un fauno pagano. Con un gesto del tutto spontaneo, orientai dall’altro lato il corpo e la testa. Ma qualcosa di assolutamente inusitato pareva essere accaduto; poiché nel quadro dell’immagine riflessa, adesso compariva la presenza angolosa di una Dea severa, e verdastra. Le labbra carnose del colore dell’Oceano Pacifico, così come il resto della sua pelle totalmente ed inaspettatamente glabra. Ed uno sguardo ipnotico, non meno di quello del diabolico scrutatore di pochi attimi a quella parte. Ancora e ancora, tentai di liberarmi dell’uno, per tornare nella sfera pratica del secondo. E ad un certo punto, i due divennero quattro, quindi otto e sedici, superando i limiti di ogni vetusta ragionevolezza! E fu allora che tra il soffitto suddiviso in pannelli e il pavimento di linoleum, iniziai a cantare.
Celebre resta ancora al giorno d’oggi lo spunto d’analisi meta-psicanalitico descritto dallo scrittore Pirandello, secondo cui ciascuno di noi indosserebbe una diversa quantità di maschere, a seconda delle circostanze in cui si trova e colui o coloro che si trova di fronte. Volendo utilizzare un’approccio maggiormente superficiale, o se vogliamo mirato esclusivamente a demistificare gli aspetti più evidenti del nostro sentire, parrebbe quasi che in questo sussista un mero e ancor più semplice dualismo: tra l’essenza diurna e quella notturna della mente umana, due piatti della stessa bilancia. Due lati della moneta, due punte o piume della stessa freccia, altrettante biforcazioni della lingua dello scaglioso serpente. Una realtà che appare espressa, in qualche misura, dalla più famosa performance teatrale dell’artista di Brooklyn, Darrel Thorpe, più volte dimostratasi capace d’irrompere nella sfera di percezione della grande mente-alveare digitalizzata. Lasciando in quei momenti dietro di se una scia fatta d’immaginifiche pietruzze, glitter e il sacro fluido senza una sostanza che costituisce l’anima fondamentale della realtà. Si tratta, dopo tutto, di un tipo d’espediente alquanto semplice, che d’altronde in pochi sembrerebbero aver concepito prima del suo momento. Il prototipico Gioco di Specchi, ma con quella che potremmo e dovremmo definire, una marcia in più…