Siamo oggi dotati di uno degli strumenti didattici più potenti della storia: un mappamondo in rilievo che può essere ingrandito, ruotato, esplorato e scomposto nel mosaico di tutte le riprese mai effettuate da una fotocamera sospesa in orbita geostazionaria. Fino al volgere dell’anno 2000, i bambini studiavano la geografia mediante l’impiego di carte geografiche o globi di plastica, fatti ruotare manualmente. Oggi, la percezione delle masse continentali, i mari, i monti e le nazioni viene acquisita tramite una sorta di fantastico videogame, che contiene, ed al tempo stesso amplifica, la simulazione di volo, l’escursione avventurosa e la trasformazione in spettri fluttuanti all’interno di un istante congelato nel tempo. E se questo rappresenta, per noi gente comune, il software rivoluzionario di Google Earth, pensate cosa può arrivare ad essere per un archeologo: colui che, come parte inscindibile del suo lavoro, dovrà costantemente compiere ricerche sul campo, al fine di ampliare il ventaglio delle nostre conoscenze della storia. Eppure, non importa quanto eclettico, per un simile studioso ha sempre importanza poter visualizzare l’aspetto complessivo di un luogo, il rapporto tra i diversi biomi che s’intrecciano in esso, i confini geografici degli spazi occupati da una determinata civiltà. Proprio quello che stavano facendo, presumibilmente, Jonas Gregorio de Souza e José Iriarte dell’Università di Exeter, assieme a svariati colleghi, in relazione ad un’area relativamente poco approfondita della vasta foresta del Brasile, polmone osmotico di tutti noi. Quando, spostando il cursore del mouse nei dintorni del bacino del Tapajós, uno dei principali affluenti del Rio delle Amazzoni diviso tra gli stati del Mato Grosso e il Parà, relativamente poco esplorato dai ricercatori di questo campo. Poiché si riteneva tradizionalmente, con valide prove logiche, che le popolazioni stanziali di un simile contesto fossero vissute, prima della venuta di Cristoforo Colombo, principalmente nelle pianure fertili, piuttosto che all’ombra degli alberi della giungla, dove il suolo dalla composizione acidica avrebbe compromesso qualsiasi coltivazione a scopo alimentare. Così che oggi permane, immutata, questa immagine del tipico indigeno dell’Amazzonia, un appartenente a comunità tribali nomadi, prive di strutture sociali complesse. Eppure per quale ragione dovremmo pensare che quello che è vero oggi, debba esserlo stato fin dall’alba dei tempi? Una linea d’analisi che deve aver guidato il team di Souza mentre ciascuno dei partecipanti annotava, l’una dopo l’altra, una serie di 81 strane forme rilevate ed evidenziate nel territorio, una sorta di versione in piccolo degli antichi geoglifi di Nazca, la celebre pianura peruviana con le immagini rituali di numerosi animali ed altre geometrie. Abbastanza per ipotizzare, nell’intera area presa in analisi, una popolazione di circa un milione di persone complessive, in linea con una proiezione ottimistica di fino a 10.000.000 nell’intera area amazzonica, laddove in molti ritengono, tutt’ora, siano esistiti sempre e soltanto dei piccoli villaggi isolati.Ma nulla di tutto questo avrebbe dato dei risultati degni di pubblicazione, se la squadra non si fosse quindi organizzata, al termine della ricerca, per armarsi ed andare a verificare direttamente l’importante intuizione.
Questo è il principale dovere degli esploratori: vedere coi propri occhi, prima di dare la forma finale a un’idea. Eppure anticamente, non sempre la loro categoria veniva considerata pienamente degna di fiducia. Nel 1533, il missionario dominicano spagnolo Gaspar de Carvajal partì dalla colonia peruviana di Quito, dove era approdato sette anni prima per diffondere la parola di Dio, al fine di accompagnare il governatore Gonzalo Pizzarro, fratellastro del più famoso Francisco, nella sua ricerca della leggendaria “Terra della Cannella” chiamata in spagnolo la Canela. L’ecclesiastico quindi, assunto come cappellano della spedizione, tenne un dettagliato diario del viaggio, che oggi costituisce una delle testimonianze più rilevanti delle civiltà precolombiane del Sudamerica al momento del loro massimo splendore, prima che le malattie importate, i conflitti armati con gli europei e la privazione delle risorse ne decimassero tristemente la popolazione. Eppure per secoli, il suo racconto fu considerato a tratti esagerato, sopratutto quando parlava delle vere e proprie città costruite lungo il corso dei fiumi dell’entroterra brasiliano, costruite “…per un estensione di fino a 15 miglia, senza lasciare alcun tipo di spazio tra una casa e l’altra” e “vasti campi coltivati nelle radure, paragonabili per varietà e ricchezza dei raccolti a quelli della nostra Spagna”. Finché tanto tempo dopo, quasi accidentalmente, Google Earth non gli ha dato ragione.
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Il mistero archeologico degli aerei precolombiani
Sei nel bel mezzo di una passeggiata sul lungofiume assieme ai tuoi amici di vecchia data, tutti tombaroli, quando finalmente avvistate l’oggetto principale del vostro interesse: una struttura di muratura, semi-sepolta tra la sabbia in prossimità di un promontorio, simile a un cilindro privo della sua parte superiore. Forse per effetto dell’erosione, magari a causa di un pregresso disastro naturale, poco importa! Voi ben sapete che quell’oggetto avrà almeno cinque secoli, potenzialmente un millennio d’età. Eppure strano a dirsi, nelle profondità più rurali della Colombia l’archeologia mainstream ha qualche problema a giungere coi suoi cataloghi e normative vigenti, causa l’assenza di guide disposte ad aiutarli e un’apparente disinteresse da parte delle autorità preposte. Il che va benissimo, per voi. Con una pala ciascuno, iniziate a scavare freneticamente, sperando di trovare la ragione della vostra venuta: un altro sarcofago di corteccia d’albero, al suo interno ancora le spoglie mortali di un antichissimo sacerdote, membro della famiglia reale, importante artigiano… Questa è l’informazione che avete ricevuto da un cacciatore locale ed esattamente come previsto, così è stato. Soltanto che, stavolta, la ricchezza che vi aspetta è qualcosa di precedentemente mai visto: circa 200 oggetti in lega d’oro dalla fattura straordinariamente pregiata ed i soggetti più interessanti che mai. In altri termini, la svolta per la vostra difficile vita trascorsa fin qui a scavare.
Siamo attorno… Al 1890, nessuno lo sa con certezza. Quando il coperchio fatale fu messo da parte da ignoti,, soltanto per trovarsi davanti a qualcosa che avrebbe cambiato la nostra concezione del passato sudamericano in maniera drastica e duratura: un’intera collezione di modellini d’oro. Raffiguranti persone, pesci, rettili e… Alcuni aerei? Senza dubbio così sembra, in modo particolare per quanto concerne un paio di soggetti simili a creature composite, potenzialmente ispirati dagli insetti. Stiamo parlando, tanto per dare un nome alle cose, del celebre tesoro dei Quimbaya, cultura della Colombia antecedente alla “scoperta” dell’America da parte degli europei, che dopo essere stato ritrovato da ladri senza nome, per qualche tempo vagò tra le occulte pieghe del mercato nero, prima di approdare nelle mani e nella collezione privata di Carlos Holguín, l’allora Presidente della Repubblica di questo paese, che ne donò una parte a María Cristina, regina di Spagna, ponendo le basi per una disputa legale che continua tutt’ora. È pur vero che allora, semplicemente non esistevano le basi per considerare un qualcosa come parte del patrimonio tangibile di un popolo, e quindi del tutto inaccessibile ai collezionisti privati. Così una parte del tesoro fu successivamente acquistata per vie traverse dal Banco della Repubblica di Colombia, per essere infine esposta presso il museo dell’oro di Bogotà. Ed è lì che tutt’ora si trova il più curioso di questi oggetti, assieme ai suoi simili, una “creatura” dalla forma marcatamente aerodinamica, che non si capisce bene cosa voglia effettivamente raffigurare. Ali a delta rigide nell’aspetto, che si trovano in corrispondenza della parte bassa del corpo. Una casistica inaudita nel regno animale. E una forma dell’addome che potremmo definire a tubo, esattamente po’ come una fusoliera. Per non parlare della coda che si erge nella parte posteriore, più simile al timone di un aeromobile che a qualsiasi altra cosa prodotta dalla natura. Con la possibile esclusione di un pesce volante, che deve usarla anche per spostarsi sott’acqua. Ma volete voi dirmi dove mai avrebbero visto questo animale gli antichi abitanti di alcune delle più profonde giungle sudamericane? È perciò possibile interpretare questi doni di accompagnamento per l’oltretomba, con uno scopo rituale non troppo dissimile da quello degli artefatti funebri egizi, come dei veri e propri oggetti fuori dal contesto (in inglese out-of-place-artifacts, in breve OOPArt) ovvero inspiegabili dalle nostre cognizioni pregresse su una particolare epoca o regione del globo. Perché la logica ci insegna che è assolutamente impossibile che questa cultura precolombiana dei Quimbaya possedesse la tecnologia per costruire degli aeromobili, visto come ancora non esistessero concetti come la saldatura, le viti e le lamiere. Per non parlare di quel piccolo dettaglio che avrebbe fatto la differenza: il motore a combustione interna. E allora che cosa, esattamente, si erano prefissati raffigurare costoro?
L’energia magica dei quattro cappelli d’oro
Uno dei tratti caratteriali dominanti nella psicologia umana, attraverso i secoli, è sempre stato l’anticonformismo. Il bisogno, espresso da artisti, tecnocrati e figure politiche, di “distinguersi” da chi è venuto prima, proponendo una strada nuova e proprio per questo, in qualche maniera maggiormente intrigante per un pubblico di potenziali seguaci. Si tratta di una soluzione adottata anche dalla Natura stessa, attraverso il sistema delle mutazioni genetiche che conducono alla selezione naturale, altrettanto utile nel migliorare la qualità della vita e le condizioni di una specie. Eppure non così propositiva, per quanto concerne il lato estetico della questione. Pensate ad esempio all’immagine popolare dello stregone: un individuo alto, con la barba, tendenzialmente dotato di un cappello a punta. Nel mondo moderno, generalmente, un semplice copricapo di stoffa incolore, sformato, talvolta persino assente. E noi dovremmo pensare che l’aspetto di un personaggio come il grande stregone Gandalf, più simile a un anziano viaggiatore che al druido che dovrebbe rappresentare, sia degno dell’esponente di un simile alto ufficio? Può diventarlo, in senso moderno, soprattutto attraverso il filtro dell’umile sacralità cristiana attraversò cui l’autore affrontava un simile tema. Ma basta risalire fino al Rinascimento, per trovare figure di profeti, fattucchiere, cartomanti ancora dotati di ornamenti improbabili, strane chincaglierie, mantelli degni di un esibizione teatrale. Mentre se si torna indietro fino al Medioevo ed al Mondo Antico, non possiamo che trovarci ad identificarli con lo stile eclettico dei loro Dei dalla testa conica, quali Baal degli Ittiti, El dei Canaaniti o la divinità fenicia Reshep. Per trovare alcuni i cappelli più fantastici mai costruiti, tuttavia, occorre risalire ancora fino all’epoca preistorica dell’Età del Bronzo: circa 3.000 anni fa. Il contesto è quello delle culture proto-celtiche europee, tra le più avanzate dal punto di vista metallurgico in quella particolare epoca della vicenda umana. Naturalmente, poiché si tratta di cappelli realizzati in lamina d’oro. Il più duttile, attraente e facile da lavorare dei materiali preziosi, i cui primi esempi fatti oggetto dell’artigianato sono stati ritrovati nei Balcani, all’interno della necropoli di Varna, una serie di sepolcri risalenti a quasi un millennio prima di questa data. Niente che fosse altrettanto fantastico e sfolgorante, s’intende.
I coni d’oro della Preistoria (o Protostoria) costituiscono una serie di quattro misteriosi manufatti, ritrovati tutti nel corso degli ultimi due secoli e custoditi in alcuni dei più importanti musei tedeschi, francesi e svizzeri, che assumono l’aspetto di alti ed affusolati coni cavi, dotati di una base del tutto simile alla tesa di uno Stetson o un Panama odierni. Ritenuti per lungo tempo degli ornamenti per i templi, come una sorta di vasi o in alternativa, coperture decorative per dei pali, sono stati rivalutati quando gli studiosi fecero notare la loro forma sostanzialmente ovale, più che mai utile a calcare un cranio, nonché l’affinità ad alcuni dei copricapi raffigurati negli affreschi schematici della Tomba del Re, un tumulo coévo presso Kivik, nella Svezia meridionale. Contrariamente a quanto si possa tendere a pensare, inoltre, i cappelli in questione sono relativamente leggeri (appena 490 grammi il più grande, che si trova a Berlino) e avrebbero potuto quindi trovare la stabilizzazione ulteriore di una sorta di velo di stoffa, che sarebbe ricaduto sulle spalle del portatore. Già, ma chi sarebbe stato costui? Esistono diverse teorie, tutte appartenenti alla sfera religiosa. Altrimenti come potremmo giustificare un simile dispendio di materiali e tempo, in una società ancora primitiva in cui il semplice sostentamento dei popoli era tutt’altro che garantito? Secondo alcuni, si trattava di sovrani o capi della comunità, per cui era importante al tempo stesso risultare riconoscibili e suscitare un senso costante di suggestione. Altri credono che si trattasse di sommi sacerdoti, profeti in grado di pontificare sull’immediato ed il più remoto futuro. Ma il consenso, soprattutto in epoca più recente, vi ha individuato la figura di astronomi, una funzione che soltanto nell’epoca moderna è riuscita a slegarsi dal mondo del sovrannaturale. La base di questa ipotesi è forse più salda delle altre due, poiché nasce da un’analisi numerologica delle stesse decorazioni presenti su ciascuno di questi cappelli, realizzate tutto attorno al cono grazie all’impiego della tecnica del repoussé (colpi di scalpello dall’interno) e lo stampaggio con apposite forme geometriche ricavate da metalli più pesanti.
Un iceberg smarrito nell’entroterra dell’Anatolia
Il colore è un fondamentale elemento di qualsiasi descrizione. Provate a visualizzare una montagna grigia come la pietra, scarna e ormai priva di vita. Ed ora, di contrasto, ricopritela di verde con l’occhio della mente: alberi, cespugli, bassa vegetazione. Non è magnifica, questa rinascita della natura? Ora allontanatevi e copritela con un dito. E se vi dicessi che adesso, all’improvviso, la montagna è diventata del tutto bianca? Nient’altro che neve, questo è lo stato dei fatti. Ghiaccio, il morso del gelo che avanza. Candida come l’orso polare della pubblicità della Coca-Cola! Occorre, tuttavia, dare ascolto alle ragioni di contesto. Perché non è possibile che l’inverno ci porti a questo nel momento in cui ci si trova a soli 160 metri dal livello del mare, nell’Egeo interno della Turchia, presso una zona dal clima per lo più arido e le temperature che nel corso dell’anno oscillano normalmente tra i 20 ed i 30 gradi. Eppure, le candide cascate e i terrazzamenti di Pamukkale esistono, fin da tempo immemore, costituendo un’importante attrattiva della regione. Tanto che proprio qui, dall’epoca del terzo secolo a.C, le popolazioni della Frigia avevano costruito un tempio al Dio del Sole, attorno al quale, gradualmente, sorse una città. Dove tutti coloro che avessero voglia e risorse per viaggiare, accorrevano col proprio bagaglio di malanni e piccole afflizioni, poiché si diceva che l’acqua di questo luogo potesse curare qualsiasi condizione spiacevole dell’esistenza umana. Già, acqua. Che sgorga dal suolo a temperature tra i 50 ed i 100 gradi, dalla sommità della formazione biancastra lunga due chilometri e mezzo, per ricadere gradualmente verso un piccolo lago antistante all’odierna Ierapoli, per lo più un agglomerato di resort e hotel. Una fonte termale, dunque, che scorre sul bianco. Che non è neve (l’avrete capito) bensì, travertino. Proprio così: la pietra di Roma, sopra ogni altra, la pietra porosa ma dotata di buone caratteristiche strutturali, che nel corso dei secoli fu impiegato per costruire innumerevoli edifici, acquedotti, anfiteatri… E che trovò l’impiego storico, in questa particolare regione, per scopi similari. Dopo tutto, sin dall’epoca di Sparta ed Atene, tutto ciò che separava questo luogo dall’Occidente era un piccolo braccio del Mar Egeo. Facilmente navigabile, e per questo, veicolo di tratti culturali e metodi architettonici che sfruttino le risorse a disposizione.
Mentre oggi, nessuno mai toccherebbe la sacra pietra di Pamukkale. Il cui nome contiene letteralmente le parole castello (kale) di cotone (pamuk) nella ricerca di un’ulteriore metafora, forse non tanto affascinante ed estrema quanto quella glaciale, ma non per questo meno corretta. Un’elemento paesaggistico nominato patrimonio dell’UNESCO nel 1988, assieme alla città che sorse attorno all’antico tempio. Da dove passarono, attraverso i secoli, le più svariate civiltà: dapprima gli Attalidi, sotto la guida dei re di Pergamo, che qui fecero costruire un completo complesso termale dove riunirsi con gli altri nobili per trascorrervi periodi di recupero del proprio stato di grazia mentale. Quindi i Romani, tramite un’alleanza con il dinasta Eumene II nel 190 a.C, che l’aveva conquistata a seguito di una guerra in Siria. In quest’epoca, il centro diventò famoso per l’abilità dei suoi medici, che venivano visitati da ogni angolo del territorio mediterraneo, e si dice facessero largo uso dell’acqua “magica” ed i fanghi termali delle fonti miracolose della città. Per un lungo periodo, dunque, la città fu parte delle provincie asiatiche dell’Impero, dopo essere stata colpita due volte, nel 17 e nel 60 d.C, da gravi terremoti. Ma neppure la distruzione degli antichi edifici sacri poté privare un simile luogo del suo ruolo di centro filosofico e polo mistico di guarigione. Tanto che nel 129, si verificò una visita dell’imperatore Tiberio in persona, in occasione della quale fu fatto costruire un teatro sul modello occidentale, con alti gradoni in purissimo travertino locale. A partire da quell’epoca, quindi, Ierapoli fu nominata necropoli, per i suoi legami al culto chtonio del dio Plutone, e i potenti fecero letteralmente a gara per essere sepolti qui. Nell’epoca della frammentazione e le invasioni barbariche dunque, inevitabilmente, il centro termale ricadde nella sfera d’influenza della capitale d’Oriente, Bisanzio. Prima di trasformarsi, nell’alto Medioevo, in un’importante centro religioso legato al martirio dell’apostolo Filippo, che qui era stato crocefisso nel primo secolo, e le cui figlie erano diventate profetesse famose nella regione. Strati di vestigia che tutt’ora appaiono, l’uno di fronte all’altro, tra le candide rocce dei terrazzamenti dell’alto castello. Qui un luogo di culto, lì una tomba, semi-sepolta dalla pietra calcarea che nei millenni si è trasformata in travertino. Un prestigioso museo archeologico, costruito a ridosso dell’area termale, costituisce un’attrazione importante per le centinaia di migliaia di turisti che visitano quest’area dell’odierna Turchia ogni anno. Ma il punto ed il nesso principale di tali pellegrinaggi, oggi come allora, resta lo stesso: provare gli effetti delle abluzioni nell’acqua plutonica, che il sapere del popolo aveva continuato a definire benefica oltre qualsivoglia descrizione, ancor prima che la scienza medica moderna ne confermasse l’effettiva utilità.