Come può essere descritta, invero, la forma dell’Universo? Si tratta di una verità che alberga, come in ogni circostanza dalle implicazioni metafisiche, almeno in parte dentro l’occhio ed i neuroni dell’osservatore. Giacché non appartiene al pesce, il potere di comprendere l’ampiezza di un lago. Né a una mosca, il poter circondare con lo sguardo una ragnatela. Il che non ha in alcun modo impedito, a generazioni successive dell’interminabile consorzio umano, di trovare o caratterizzare punti di convergenza per quanto concerne l’opinione collettiva. Imprimendoli nelle figure o manufatti che oggi abbiamo l’abitudine, più o meno giustificata, di associare a intere generazioni pregresse dei nostri predecessori. Nella società altamente stratificata in classi dell’antica cultura di Liangzhu ad esempio, concentrata primariamente attorno al delta del Fiume Azzurro nella parte nord-occidentale dell’odierna prefettura dello Zhejiang, è altamente ragionevole pensare che ampie fasce di popolazione appartenenti alle classi meno influenti non avessero mai tenuto in mano, soppesato o ponderato la natura di un cong (琮). Eppure, tali oggetti dalla forma estremamente riconoscibile figurano in modo preponderante all’interno delle tombe di quelli che noi reputiamo essere stati i potenti di questa civiltà del Neolitico, che fiorì tra 3.400 e 2250 anni prima della nascita di Cristo. Non servono, del resto, attrezzi di metallo di alcun tipo per poter pensare di plasmare questo tipo di materiale, la giada che non può essere divisa o incisa tramite un approccio di tipo convenzionale. Ma soltanto abrasa un poco alla volta, con grande dispendio di tempo e pazienza, fino all’emersione delle forme o del disegno desiderato. In tal senso, gli oggetti dal significato rituale e almeno parzialmente istituzionalizzato costruiti a partire da minerali come la giadeite, nefrite, agalmatolite o serpentina parrebbero aver rappresentato il puro ed esclusivo appannaggio di coloro che potevano posizionarsi in modo incontestabile agli assoluti vertici del loro mondo privo di testimonianze scritte. Poiché la scrittura, per quanto ci risulti verificabile, era ancora ben lontana dall’essere stata inventata. Il che non impedì a quei popoli, incluse le altre culture limitrofe connesse da diverse angolazioni a quella di Liangzhu, di dare forma tangibile alle loro credenze più trascendentali e le divinità cui erano soliti rendere omaggio nel quotidiano. Il che dovrebbe aver costituito, sulla base dell’implicita linea di ragionamento che accomuna l’antico al moderno, la base e l’origine del singolo oggetto destinato, più di ogni altro, a suscitare un senso di spiazzamento in successive generazioni di archeologi interessati al contesto cinese…
mostri
Anfisbena degli alti deserti, l’antico serpente con due parti davanti
Nei secolari tentativi d’approfondimento enciclopedico e studio pseudo-scientifico antecedente all’inizio dell’epoca moderna, gli studiosi che ebbero ragione d’interessarsi al deserto della Libia si trovarono dinnanzi a due importanti verità: tra le dune di quel mondo privo di vegetazione, mancavano del tutto le formiche. E nessuna cosa morta, a distanza di poche ore o giorni, pareva mantenere alcun tipo di tangibile presenza oltre poche ossa bianche come i petali di una margherita. Ciò pareva confermare, in modo inconfutabile, l’esistenza di una mistica presenza strisciante… In molti, tra i viaggiatori, ne avevano incontrato l’inquietante forma. E sebbene non ci fossero prove materiali, come una pelle, lo scheletro completo o neanche un quantità plurale di ritratti appartenenti ad epoche o culture diverse, gli insigni filosofi erano chiari nel citare come reale un’importante vicenda della mitologia Greca. Quando Perseo, ancora armato col falcetto e gli stivali alati di Ermes, lo scudo specchiato di Atena e l’elmo dell’invisibilità di Ade, sorvolava il Nordafrica di ritorno verso casa. Con stretta nella mano destra la testa tagliata della mostruosa Medusa, dal cui collo gocciolavano copiose quantità di sangue. Ex morte vita, dunque, al sorgere dell’alba successiva, il rosso fluido si era convogliato in una forma, e da essa sorse, orribile e contro natura, un serpente a due teste. Chiunque immagini questa creatura dai molti nomi, tra cui anfisbena e anfesibena, come un mostro draconico con spire parallele potrebbe essere stato tratto in errore da stereotipi successivi; giacché le contrapposte fauci di questo particolare mostro si trovavano, a quanto si narra, al termine della sua lunga coda. Se ancora fosse stato giusto definirla in siffatta maniera.
Tra i primi a parlarne figura Nicandro di Colofone, poeta del III secolo a.C, con una citazione dell’essere che avrebbe avvolto la verga di Ermes tra le sue spire, dalla caratteristica forma smussata alle estremità. Spostandoci innanzi, Plino il Vecchio (Naturalis Historia) nel I secolo d.C, Claudio Eliano (Peri zoon idiotetos – La natura degli animali) e Gaio Giulio Solino (Polyhistor – Il curioso) nel III secolo, la connotarono ulteriormente, facendo riferimento a una creatura dalle caratteristiche oggettivamente diverse da quelle di qualsiasi altro animale. Due fauci identiche, dalle zanne avvelenate, la dimensione minima di un grosso pitone. Uno spazio particolare veniva dedicato alle sue modalità di movimento, in cui dando prova di un carattere contrario alla natura, le rispettive estremità sembravano talvolta “lottare” tra loro, portando il rettile a girare su se stesso o compiere dei repentini e imprevedibili cambi di direzione. Un altro tratto ricorrente erano gli occhi luminosi e visibili da grande distanza, il che lascerebbe pensare a un animale dalle abitudini in qualche maniera notturne. Dal che l’origine etimologica dell’appellativo d’identificazione coniugato in molte versioni e sia femminile che maschile, dalle parole greche amphis “entrambe le direzioni” e bainein, “andare”…
Di mostri preistorici che insistentemente ruggiscono nei remoti fiumi australiani
“I grandi imperi durano raramente più di 250 anni” è un detto storiografico, empiricamente verificabile, che trova riscontro nella vicenda pregressa di una grande maggioranza dei paesi di questo mondo. Ed è in effetti risaputo che prima del sopraggiungere di una quarta o quinta generazione di regnanti, nazioni che hanno espanso oltre i confini il proprio territorio tendono generalmente a vacillare, per il palesarsi di problemi economici, conflitti interni, guerra coi propri vicini. Aprendo in questo modo l’uscio all’annichilimento dei propri sistemi di valori, filosofici e credenze ereditate dalle istituzioni continuative nel tempo. Ma quanto possono davvero risalire, simili tesori, addietro nel pregresso di una singola ed ininterrotta civilizzazione? Dipende. Nella caverna di Challicum vicino alla città di Ararat nella parte occidentale dello stato australiano di Victoria, campeggia il dipinto realizzato da mani umane di una singolare creatura. La cui storia viene ancora ripetuta quasi quotidianamente a molti bambini aborigeni, così come avveniva all’epoca in cui pigmenti naturali vennero impiegati per ritrarla sulla nuda roccia da un artista ignoto. Nato, vissuto, e ritornato alle iperboree regioni del Sogno, approssimativamente 60 millenni prima della data odierna. Comprendete la scala cronologica di cui stiamo parlando? Gli eventi narrati nell’Esodo del Vecchio Testamento sono stati datati al 1447 a.C. La costruzione del tempio di Re Salomone, al 968 a.C. Mentre nel momento in cui le genti di Wimmera impugnavano per la prima volta pezzi di carbone e studiavano le proporzioni degli animali, esseri del Pleistocene ancora camminavano sulla Terra.
Quando i primi paleontologi occidentali giunsero nelle colonie nel corso di tutto il XVIII secolo, le ossa ritrovate degli antichi carnivori risalenti a tale epoca furono mostrate ai nativi di diverse comunità tribali dislocate sul territorio. Ed ogni volta, non mancava un saggio che puntando il dito pronunciava l’ancestrale parola originaria della lingua dei Wemba-Wemba: Bunyip. Mostro, nume tutelare, vendicatore, occulta ed ostile presenza fluviale. Un criptide nella misura in cui gli europei a loro volta si fecero suggestionare finendo per avvistarlo più volte, nel corso dei lunghi anni a venire e fino all’insorgere dell’Era contemporanea. Ma accomunare tale essere a creazioni immaginifiche come il plesiosauro di Lochness o l’ominide del Minnesota sarebbe come limitare la nostra percezione del Demonio cristiano unicamente alle vicende folkloristiche sull’incontro di un gallo nero al crocevia di un villaggio medievale. Laddove tale bestia, menzionata nel corpus mitologico d’innumerevoli tribù del continente, appartiene all’antichissimo e complesso sistema di credenze noto come Età del Sogno. Un tempo collegato alla creazione dell’umanità ma privo di una data temporale esatta. E proprio per questo visitabile dagli sciamani, lontano dalle ore limitanti della veglia o tramite l’uso di sostanze stimolati adeguate. Ritornando tanto spesso con l’ammonimento, da rivolgere soprattutto a donne e bambini del villaggio: “State sempre attenti, quando vi recate per pescare al fiume/lago/torrente/billabong dei nostri antenati…”
Il gufo che venne dal cosmo, vagando nell’UFO dei boschi notturni
Dopo appena una dozzina di ore trascorse nello spazio di quell’orbita, fu dolorosamente evidente: la Terra non recava in alcun modo traccia di quel marchio, che su scala intergalattica caratterizza il gruppo dei pianeti illuminati. In altri termini, i suoi abitanti non avevano esperienze di contatto pregresso. Né la capacità inerente di comprendere l’aspetto, le motivazioni, le caratteristiche di un abitante del Cosmo Indiviso. Nonostante questo la creatura esploratrice ben sapeva di dover condurre a termine la sua missione; incontrare, comunicare, raccogliere una serie basilare d’informazioni, per conto del Concilio che tutt’ora finanziava i lunghi viaggi e il carburante della sua astronave. Così puntandone la prua verso una regione a caso del continente occidentale, atterrò a poca distanza da una piccola comunità, il cui nome, in base alle intercettazioni pregresse, sembrava essere Flatwoods. Con un senso di ansia latente, indossò laboriosamente la sua tuta protettiva, al fine di poter sopravvivere nell’aria colma di quel velenoso ossigeno, che la stragrande maggioranza delle creature locali sembrava essere in grado di respirare. Con il cappuccio a punta della pace chiaramente erto sopra il capo, la creatura fece dunque i primi passi in mezzo agli alberi della foresta. Gli animali sembravano amichevoli ed estremamente vari per foggia e dimensioni. Mentre iniziava, cautamente, a godersi l’esperienza ne arrivò tuttavia uno di un tipo marcatamente differente. Quadrupede, non particolarmente grande (gli arrivava appeno alle caviglie) l’essere in qualche maniera simile ai lupi di Rigel IV produceva un flusso ripetuto di onde sonore, trascrivibile come “Bark, bark, bark!” Ma la cosa peggiore fu il prefigurarsi tra le fronde di coloro che lo accompagnavano: sette presenze bipedi, due più grandi, cinque abbastanza ridotte da poter sembrare degli esemplari giovani e per questo ancor più imprevedibili nel comportamento. I mostri gridavano ripetutamente il nome del quadrupede, quindi si misero a conversare con fare concitato nella lingua incomprensibile del pianeta. Uno degli adulti, con espressione contratta, puntò allora un dito all’indirizzo dell’Esploratore interstellare. La parola “Mo-mostro!” Rappresenta una fedele traslitterazione delle sillabe impiegate. Accompagnate da un senso di ribrezzo ed assoluta ostilità, al che l’oggetto della sua attenzione non poté fare nulla diverso rispetto a quanto segue: un’emissione controllata di liquido repellente N5G2, capace di permeare per qualche minuto l’aria. Con un po’ di fortuna, nessuno degli indigeni avrebbe riportato danni permanenti. Quindi, con un lampo nello spettro visibile dei suoi due grandi occhi vermigli, lanciò verso i cieli il rapido segnale che attivava il teletrasporto.
Se soltanto il giorno dopo si fosse soffermato ulteriormente in orbita, le sue antenne d’intercettazione avrebbero captato e forse lentamente decrittato la notizia, che sembrava rimbalzare freneticamente da un lato all’altro della nazione chiamata “Stati Uniti Americani”. Un trafiletto, gradualmente espanso ad articolo con tanto d’interviste, a un gruppo formatosi del tutto casualmente presso Flatwoods, nella contea di Braxton. Il quale, dopo aver scorto una palla di fuoco nei cieli (ovviamente, trattavasi dei retrorazzi della sua tuta) avevano incontrato qualcosa di terribile ed inusitato. L’Esploratore avrebbe allora meditato sul relativismo del terrore di chi non conoscendo, istintivamente diffida. E la casualità della rassomiglianza di un qualcuno d’innocente, ai più intimi terrori onirici di colui o coloro che potevano trovarsi casualmente ad incontrarlo nei recessi ombrosi di un’isolato distretto forestale…