Difficile fu sempre la profonda aspirazione, dei cosiddetti imperi di epoca moderna e contemporanea, a governare su ampi territori da una capitale posta all’altro capo di oceani, vasti continenti, insuperabili catene. Poiché il tipo di priorità anteposte da coloro che non hanno mai davvero potuto sperimentare le reali condizioni e implicazioni di un territorio, mai potranno sostituire il punto di vista critico posseduto dai legittimi abitanti di quelle foreste o amene pianure. Almeno finché il sollevarsi di una ribellione, prevedibile quanto spietata, non recida quei legami simili a un lunghissimo cordone ombelicale. In tal senso uno dei primi tentativi di rivendicare un qualche tipo d’indipendenza americana avvenne sotto la supervisione del mercante ed avventuriero Nathaniel Bacon nel 1676 in Virginia, quando lui ed i suoi si rifiutarono di scacciare i Nativi dai loro territori ancestrali. Alleandosi piuttosto con loro e puntando le armi contro i britannici nelle caserme e piazze d’armi di Georgetown, in una sommossa che avrebbe letteralmente dato fuoco all’intero centro abitato di epoca coloniale. Uno dei resoconti maggiormente inaspettati ed interessanti della vicenda, tuttavia, sarebbe stato redatto dal politico e coltivatore del luogo Robert Beverley Jr, venuto a conoscenza di una strana esperienza di alcune giubbe rosse che avevano accidentalmente trangugiato, durante la preparazione di una zuppa con ingredienti foraggiati localmente, alcune foglie e fiori della strana pianta nota come Whisky degli Indiani, così chiamata a causa dei presunti effetti inebrianti causati dalla sua consumazione benché negli anni successivi avrebbe assunto l’appellativo inglesizzato di jimsonweed. Ebbene costoro, nei risvolti a tratti tragicomici di quel racconto, iniziarono immediatamente a comportarsi in modo straordinariamente atipico, con uno di loro che passava ore a far volare una piuma soffiando, mentre il secondo gli lanciava fili d’erba. Mentre il terzo seduto da una parte, completamente nudo sghignazzava all’indirizzo d’interlocutori inesistenti. Ed il quarto cercava di attirare l’attenzione degli altri, atteggiando il propri volto a “Più smorfie di una farsa teatrale d’Olanda.” Messi sotto sorveglianza per la propria stessa sicurezza, i soldati si sarebbero quindi ripresi dopo il trascorrere di alcuni giorni. Benché sia ragionevole pensare che, dal punto di vista dei malcapitati, tale arco di tempo possa essere durato l’equivalente di mesi, o persino anni.
Questo il potere del genere di piante alte fino a due metri dalle origini centroamericane, appartenente allo stesso ordine dei pomodori e del tabacco, la cui caratteristiche caratterizzanti dal punto di vista botanico includono la tendenza a sbocciare unicamente dopo il sopraggiungere del vespro e per l’intera durata delle ore notturne, fino alla creazione di una capsula dei semi dalla forma tondeggiante, ricoperta di agguerrite spine in grado di richiamare il profilo sfrangiato delle foglie stesse. Che la scienza chiama Datura, benché il nome popolare ed internazionale preferito sembri essere quello di trombe del Diavolo, causa la forma a calice di tali fiori che crescono in maniera perpendicolare al suolo. E la capacità di evocare, per chiunque sia abbastanza folle da consumarle, una ragionevole approssimazione dell’Inferno in Terra…
pericolo
L’esilio di un libro e la morte invisibile sui muri dell’Imperatore
In una delle leggi riportate nel Levitico, terzo libro della Bibbia e della Torah, viene spiegato che: “Quando la piaga appare sulle pareti della casa con cavità verdastre o rossastre, che sembrino più profonde della superficie della parete, il sacerdote… farà raschiare la casa tutt’intorno ed ordinerà che si tolga la parte delle pietre in cui è la piaga, affinché si gettino in un luogo impuro fuori della città”. Un ancestrale riferimento alla cosiddetta sindrome della casa malata, possibilmente motivata dalla presenza di muffe o marcescenza nociva per gli esseri umani. Nonché l’esempio, sempre significativo, di come l’associazione tra religione e buone norme del vivere civile abbia salvato le vite attraverso lunghe fasi delle antiche civiltà terrestri. Lo stesso brano ricompare dunque, all’inizio di un ammonimento, nella breve prefazione del volume di epoca vittoriana pubblicato nel 1874 con un titolo inquietante: Shadows from the Walls of Death (Ombre dai Muri della Morte) composto per il resto da un ricco campionario di variopinte, attraenti carte da parati. Opera intenzionalmente ad alto impatto retorico del dottore americano del Michigan Robert C. Kedzie, tra i pionieri di una tardiva, quanto fondamentale realizzazione. L’idea controcorrente all’epoca, che non soltanto la consumazione dell’arsenico ma anche respirarne la presenza per un tempo sufficientemente lungo potesse avere effetti maggiormente nocivi, o persino letali, di qualsiasi sostanza precedentemente in grado d’invadere naturalmente le abitazioni. Un problema sensibilmente più pressante di quanto si potrebbe pensare, quando si considera la presenza pressoché costante di questo elemento chimico nella produzione di diffusi pigmenti verso l’inizio e la metà del XIX secolo. Tra cui soprattutto, caso vuole, quelli usati per alcune delle carte decorative più popolari (e non solo) di quell’epoca particolarmente sfortunata in materia di abbellimento parietale. Ma anche oggetti per la casa, giocattoli, persino dolciumi. Non era inaudito, ad esempio, che i bambini si sentissero male per ragioni poco chiare dopo una festa. Essi avevano respirato, malauguratamente, l’aria delle candeline verdi accese sulla torta di compleanno.
Esistevano a tal proposito almeno due marchi commerciali di vernici, il verde di Scheele e quello di Parigi, celebri per le loro tonalità accese e la capacità di resistere per lungo tempo alla luce solare, sebbene tendessero a scurirsi se mescolate con altre sostanze o esposte a fonti d’inquinamento ambientale. Questo, s’intende, per l’elevata reattività dell’arsenito di rame, composto chimico simile per composizione e tonalità alla conicalcite sottoposta ad ossidazione sotterranea nei depositi minerari di Spagna, Sassonia ed il deserto dell’Atacama. Così che la stessa prefazione procede narrando diversi di casi di avvelenamento cronico, tra cui quello di una donna anonima che aveva l’abitudine d’intraprendere viaggi per curare la propria salute cagionevole. Ed ogni volta che tornava in casa, dormendo nella sua stanza da letto di un attraente verde acceso, tornava nuovamente a subire mal di testa, crisi respiratorie, svenimenti occasionali. Questo almeno finché un collega dottore di Kedzie, agendo come il proverbiale sacerdote biblico, non comprese cosa stesse accadendo e provvide a far rimuovere immediatamente la pericolosa carta da parati. Altri, purtroppo, non furono così fortunati. Esiste d’altra parte una teoria secondo cui uno dei personaggi più influenti della storia moderna europea, senza dubbio il francese più famoso mai vissuto, potrebbe essere morto proprio in conseguenza di sintomi connessi a questa stessa problematica insidiosa…
Centodieci punte di coltello nella bocca del più longevo assassino del Burundi
Variegate sono le leggende che si affollano nella coscienza collettiva dei contesti urbani, in un labirinto di mistiche apparizioni, oggetti fuori dal comune, voci provenienti dal sottile velo che divide il regno del tangibile dall’illusione. Ma basta trasferire la tua lente scrutatrice in un ambiente dove la semplice sopravvivenza è meno garantita, per trovare un filo conduttore ininterrotto che si estende dai primordi della civilizzazione fino alle disquisizioni di taverne o centri del villaggio dei giorni odierni: l’idea che la natura è Pericolosa e le creature che in essa sussistono, possono sostituire a pieno titolo i recessi dei tuoi incubi più orribili ed al tempo stesso terrificanti. Come l’esperienza tanto spesso vissuta, stando ai resoconti registrati ed alcune comprovate prove documentali, dal tipico pescatore del bacino idrografico circostante il lago più lungo al mondo. Che avvicinandosi in maniera cadenzata a quello che sembrava essere da ogni punto di vista rilevante un isolotto formato da terra e fango, ha rilevato prima l’evidente progressione di una serie di scaglie ripetute sopra il “dorso” del compatto rilievo. Quindi, ha visto poderose fauci spalancarsi all’improvviso su di un lato, sufficientemente ampie da riuscire a trangugiare la sua testa, spalle e pure il remo usato come ultimo strumento di protezione. Ed è allora che ha iniziato a correre. O perire.
Quanto è grande, esattamente, il più significativo dei coccodrilli nilotici, che in media viene giudicato il secondo rettile più imponente al mondo? Accantonando a questo punto la risposta che potreste aspettarvi, sulla falsariga di “Lo zoo di [X] ne ha tenuto un esemplare in grado di raggiungere [X] Kg nel corso della sua lunga vita” possiamo ritornare tra le opache acque del fiume Ruzizi nel piccolo paese africano del Burundi, rinomato tra le altre cose come la dimora della singola cosa più vicina a Godzilla mai vissuta in epoca contemporanea agli umani, fatta eccezione possibilmente per esemplari ignoti appartenenti alla distante schiatta del coccodrillo marino australiano. Un mostro in grado di raggiungere o persino superare i 6 metri di lunghezza. Ed i 900 Kg di peso. E sia chiaro, nel contempo, che quelle citate non costituiscono neppure le cifre più notevoli connesse alla complessa vicenda della sua vita. Essendo il caso di Gustave (questo il nome) direttamente collegato al potenziale verificarsi di una quantità variabile tra le 60 e le 300 morti umane. Dovute al rapido e purtroppo inevitabile incontro con la colossale, impressionante capace di scattare in avanti, con velocità paragonabile a una trappola di tipo assolutamente letale…
L’oblunga crepa che divide il territorio arido nel parco nazionale delle Canyonlands
Chiaramente nota tra i pochi cervi del distretto, in mezzo a lievi dislivelli e rocce che compongono un paesaggio brullo e caratterizzante, la linea divisoria ha molto lungamente costituito il “bordo della mappa” per innumerevoli abitanti, forme di vita, creature non fornite della pratica capacità di sollevarsi per andare oltre. Un luogo noto per il modo in cui la luce non riesce a penetrare, tanto da essere chiamato sulle guide o i materiali di supporto: the Black Crack, la Spaccatura Nera. Insolita persino nel territorio dall’orogenesi complessa di un luogo come il parco delle Canyonlands, nella parte meridionale dello Utah non troppo lontano da Moab. Lungo l’arduo tragitto stradale della White Rim Road, per cui si richiedono veicoli speciali ed ancor più rari permessi ottenuti dalla contea. Il che non sembrerebbe aver precluso, a generazioni successive d’escursionisti, l’opportunità di scorgere coi propri occhi l’incredibile caratteristica del paesaggio, diventata celebre negli ultimi tempi per il meme internettiano che tenta d’identificarla come niente meno che la faglia di Sant’Andrea. Accompagnata da didascalie evidentemente fasulle, che parlerebbero di 132 Km di lunghezza e 32 di profondità. Laddove l’effettiva crepa, benché significativa in termini universali, non supera in profondità i 20-30 metri ed ha un’estensione di circa un centinaio nonostante la larghezza sia talvolta inferiore al metro. In molti modi più che sufficiente a creare nell’escursionista tipico quel senso di surreale straniamento, per cui siamo ricorsivamente indotti a confrontarci con le anomalie dei luoghi più quotati o fraintesi al mondo.
Trattasi dunque dell’equivalenza in termini di proporzioni, come ben pochi sono attenti a far notare, del crepaccio glaciale di una zona soggetta a strati di permafrost, il che può risulta senza dubbio rilevante alla questione, considerate le origini sostanzialmente non troppo lontane dovute ad escursioni termiche potenti e reiterate. Sebbene in questo caso, verificatosi lungo l’arco di possibili migliaia di anni sul terreno duro d’arenaria, tanto caratteristico delle regioni del parco. E coadiuvate da forze d’erosione come l’infiltrazione idrica ed il soffio instancabile del vento. Egualmente responsabili, di loro conto, per sculture svettanti come l’iconica Isola del Cielo, il Labirinto e gli Aghi. Benché sia difficile negare il fascino di un tale buco, tanto umile nelle caratteristiche quanto funzionale a generare un ricco repertorio di fantasie. Sulla falsariga di: quanti cadaveri si troveranno là sotto? Quanta spazzatura? Quali creature striscianti ed infinitesimali, come bachi fatti prosperare sui confini di uno squarcio sanguinante, intenti a rimuovere i batteri dalla ferita della Terra stessa…