La rana della dolce attesa che finì per trasformarsi nell’araldo dell’apocalisse anfibia

Un gruppo di scienziati in un laboratorio pallido e incolore, ciascuno incaricato nell’assolvere un preciso compito determinato dalla procedura. Apri la gabbia, prendi il coniglio. Metti l’animale sopra il tavolo ed inietta l’urina di una donna. Uno strano rituale… Da ripetere più volte, scegliendo un roditore differente ogni volta; topo, arvicola, criceto. Vittime sacrificali destinate all’impietosa dissezione, così come si usava fare nei primi decenni del Novecento, al fine di determinare se una donna fosse incinta. Procedura mistica non troppo lontano, per lo meno in apparenza, dalla divinazione in uso nell’antico Egitto che impiegava nello stesso ruolo due sacchetti, con semi rispettivamente di grano e di orzo. Se il giorno dopo il primo fosse germinato, sarebbe presto nato un maschio; se invece il secondo, una femmina. E se nessuno, falso allarme, tutto resta come prima. Ancorché l’approccio che traeva conclusioni dal mondo animale avesse una base scientifica, fondata sulla scoperta e tracciamento della gonadotropina corionica (HCG) ormone della gravidanza in grado di causare un lieve ingrossamento delle ovaie se iniettata per via sottocutanea o nell’addome di un mammifero di dimensioni minori. Immaginate dunque la sorpresa del zoologo britannico Lancelot Hogben nel 1933, quando nel corso delle sue ricerche sull’endocrinologia dei batraci finì per imbattersi in una fenomenologia simile per la rana artigliata africana, anche detta Xenopus laevis (Xenopo liscio). Creatura che una volta inoculata con l’estratto dell’ipofisi del bue, dalla composizione chimica non troppo distante dallo HCG, iniziava immediatamente ad ovulare. Episodio chiaramente ed immediatamente apprezzabile, data la quantità tra le 500 e 1.000 uova fisicamente espulse dall’anfibio ad ogni singolo episodio di questa natura. Lavorando all’epoca in Sudafrica, un paese che avrebbe in seguito lasciato per la propria manifesta antipatia nei confronti delle leggi razziali e l’eugenetica del tempo, Hogben iniziò quindi a collaborare con il ginecologo Francis Albert E. Parkes, nel tentativo di trasformare la propria scoperta in un processo ripetibile in sequenza nei laboratori medici di tutto il mondo. Immaginate, a tal proposito, il vantaggio: prima di tutto l’assoluta affidabilità, notevolmente prossima al 100%. Per non parlare del fatto che la rana lunga appena 8-12 cm, diversamente dai roditori, non dovesse morire al fine di confermare la gravidanza, permettendone il riutilizzo dopo un ragionevole periodo di riposo…

Creatura onnivora diffusa in tutta l’Africa Subsahariana, lo xenopo dimostra abitudini prevalentemente notturne ed una speciale strategia di nutrizione. Essendo infatti privo di una lingua o denti, esso impiega le sue zampe anteriori come dei rastrelli per filtrare la sabbia del sostrato, trangugiando qualsiasi essere vivente o eventuale carcassa gli riesca di trovare sul fondo dei laghi o stagni dove preferisce abitare. Una delle prime scoperte di Hogben, tra i primi ad interessarsi alla biologia di tale essere, fu la capacità di cui era dotata nel cambiare progressivamente colore in base alle condizioni di luce dell’ambiente dove aveva luogo il suo sviluppo. Con esemplari adulti che tendevano ad essere più scuri se tenuti al buio, e viceversa. Una dote derivante, nel modo in cui lo scienziato avrebbe determinato tramite la sperimentazione, non da cromatofori come nel caso dei camaleonti, cefalopodi o talune specie di crostacei, bensì grazie ad ormoni secreti dall’ipofisi, in assenza dei quali la rana assumeva sempre un pallido color crema. Altra caratteristica rilevante, la dote degli esemplari non ancora del tutto sviluppato dell’anfibio di rigenerare la propria colonna vertebrale, possibilità il cui valore medico nel caso degli umani rappresenterebbe la rivoluzionaria salvezza per tutti coloro che devono convivere con lesioni debilitanti. Ciò detto ed in aggiunta all’utilizzo della rana su larga scala per determinare la gravidanza, almeno fino all’invenzione dei moderni test con striscia reattiva chimicamente negli anni ’60, non è dunque sorprendente se i laboratori di mezzo mondo iniziarono ad allevare sistematicamente e tenere nei propri acquari quantità notevoli di xenopi, il cui destino non era sempre controllabile né del tutto condizionato dall’uomo. Alcune di tali creature espatriate dall’Africa iniziarono, effettivamente, a scappare attorno agli anni ’70 ed ’80, o forse furono liberate, diffondendosi egualmente nel Vecchio e Nuovo Mondo nonché, pressoché immediatamente, in Australia. Il che sarebbe già stato abbastanza grave, data la capacità degli organismi non-nativi resistenti ed adattabili di soverchiare e causare l’estinzione delle specie endemiche pre-esistenti. Ma nel caso della rana artigliata, qualcosa di molto peggiore attendeva nel loro organismo, attendendo pazientemente di essere scatenato nel mondo. Quello che potremmo definire, in pochissime parole, come l’agente patogeno più letale nella storia della scienza biologica, con un tasso di mortalità successivo al contagio dell’80-100% in un ampio ventaglio di entità bersaglio. Tutte appartenenti, per fortuna, alla categoria molto lontana dagli umani degli esseri anfibi. Ciò in seguito alla contrazione del fungo infettante Batrachochytrium dendrobatidis, all’origine della terribile chitridiomicosi. Una malattia consistente nell’ispessimento della pelle, usata dalle rane per respirare, con conseguente affaticamento cardiaco e decesso nel giro di pochissimi giorni. Tutto questo a meno di essere uno xenopo. Portatore sano, del tutto immune e per questo parzialmente complice dell’annientamento biologico di qualsivoglia potenziale rivale…

Con un collegamento stabilito retroattivamente e soltanto successivamente all’inizio del nuovo secolo (vedi ad es. Origin of the Amphibian Chytrid Fungus – Weldon, Preez et al. 2004) la diffusione della chitridiomicosi nel mondo può costituire un impressionante campanello d’allarme di quali possano essere le terrificanti conseguenze di una pandemia capace di saltare agevolmente tra diversi rami dell’albero della vita. Le prime segnalazioni vennero dal Queensland australiano, dove tra gli anni ’70 cominciarono a morire in massa molte migliaia di rane, senza alcun collegamento né giustificazione apparente. All’inizio degli ’80, cominciarono quindi a perire intere discendenze in Sud America e Costa Rica, dove la presenza del fungo sarebbe stata notata formalmente solo nel 1996. Non prima, d’altro canto, che la malattia iniziasse a diffondersi anche in Europa e Centro America verso l’inizio degli anni 2000. Con ormai una quantità fuori misura di specie, tipologie ed interi generi portati all’estinzione o quasi.
E tutto a causa di una transitoria, ormai desueta utilità di quel singolo batrace sudafricano in seguito a una serie di scoperte in laboratorio. Non è terribile pensare fino a che punto l’uomo possa essere, senza neppure rendersene conto, l’imprescindibile momento dell’origine della sua stessa ed altrui condanna? Quanto siamo veramente al sicuro, dopo i terribili anni del Covid, dal ritorno della fine che supremamente grava sopra l’orizzonte del nostro domani? Forse l’unica speranza è vivere con moderazione. Ricercare il progresso, ma non troppo. Agendo con prudenza, ogni qual volta ci troviamo prossimi al nucleo pulsante di quella che potrebbe essere la Vita Stessa o i suoi derivati.

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