Basta scavare sufficientemente in profondità nei dintorni di un fatto storico, tra l’erba e le pietre dei fatti intercorsi, perché la probabilità di trovarsi a scrutare il suo volto semi-coperto di terra si avvicini ad 1. L’Essere antico, le corna rosse, la coda appuntita, la barba caprina. Colui il cui Nome non va Pronunciato (non sto parlando di Voldemort). Singolare, a tal proposito, appare la maniera in cui il maligno, simbolo di ogni sepolto sentimento d’ignominia, egoismo e biasimo, sia in determinati ambienti considerato più che altro un ribelle. La mente che supera le convenzioni, la mano che traccia il disegno, il direttore di un lavoro trasformativo sul territorio, oltre i confini, attraverso un tunnel di logica ignorata ed aspettative modificate in fieri. Ed è proprio da questo, il più delle volte, che prende forma la leggenda del ponte del diavolo, una struttura per lo più simile alle altre, se non fosse per le circostanze straordinarie della sua costruzione, aspetto, funzione o la maniera in solita in cui è stato dipinta, assemblata, decorata. Ma forse il più splendido dell’intera categoria, il ponte dalla simmetria più perfetta e impossibile da dubitare, compare nell’Azaleen- und Rhododendronpark della tenuta di Kromlau, presso il comune di Gablenz. Un vero e proprio giardino inglese, direttamente ispirato a quello più celebre della vicina città Bad Muskau, costruito secondo i valori estetici del Barocco, giunto in queste terre remote con una calma e una lentezza che potremmo definire glaciale. Sappiamo stranamente ben poco, dell’insolito personaggio che a partire dal 1844, investì almeno metà della sua considerevole fortuna per trasformare la sua tenuta in un catalogo di luoghi fantastici prelevati direttamente dal vasto leggendario della Mezza Europa: grotte e piramidi, il Trono del Giudizio, il Paradiso e l’Inferno e numerosi stagni artificiali, decorati con colonne di basalto magico importate a caro prezzo dalle cave della Boemia. Nonché per finire, imprescindibilmente, il ponte ad arco di Rakotz, concepito appositamente per disegnare un oculo, o un’anello, nei periodi dell’anno in cui la luce gli permetteva di riflettersi nettamente sulle acque del fiume sottostante. Quasi come se il suo committente non chiedesse niente di meglio, che aprire un passaggio verso mondi e dimensioni precedentemente ignoti allo sguardo dei coraggiosi.
Friedrich Hermann Rötschke era, secondo quanto riportato dalla testata LR Online, un eccentrico rimasto celibe nel corso della sua vita, possessore di vaste tenute sul confine russo-polacco ed appartenente, secondo alcune teorie, ad un ramo periferico della dinastia imperiale degli Asburgo. Cultore dell’insolito e dei più profondi misteri della vita, un po’ come il suo remoto antesignano italiano, il principe Pier Francesco Orsini che nel XVI secolo aveva fatto costruire il parco dei mostri a Bomarzo, egli scelse di vivere la sua vita in mezzo alla natura, finché nel 1875, lasciando la cura del parco a suo figlio Theodor, si trasferì in vecchiaia presso Wilmersdorf, nei dintorni di Berlino. Il parco passò quindi alla successiva generazione, prima di essere venduto, nel 1889, ad un rampollo della famiglia Egloffstein-Arklitten, un probabile nipote dell’importante generale dell’esercito prussiano Albrecht Dietrich Gottfried von und zum Egloffstein. Il parco sarebbe quindi rimasto di proprietà dei suoi discendenti fino all’epoca della seconda guerra mondiale, attraversando molte decadi di miglioramenti, soprattutto nel campo della silvicoltura, l’agricoltura e la pesca all’interno dei suoi numerosi specchi d’acqua, trasformandosi, oltre ad un luogo degno di essere visitato, in un bene che sapeva essere straordinariamente redditizio. In particolare le varietà floreali qui coltivate acquisirono una fama europea, portando ad un proficuo commercio di bulbi e semi verso i principali potentati all’inizio dell’epoca moderna. Ma mentre la fama del parco cresceva, il ponte continuava a specchiarsi nel corso del fiume sottostante, attirando gli sguardi malcapitati di chiunque fosse abbastanza incauto da perdersi nei meandri di surreali elucubrazioni…
ponti
Una scacchiera gigante intagliata dai piloni del ponte
Canada, Confederation Bridge: tre semplici parole, che comportano in realtà una narrazione carica d’implicazioni meteorologiche e il lato più impietoso del carattere climatico del mondo. Gelo, nelle ossa. E movimento della corrente oceanica che ogni giorno, per l’effetto del vento, s’instrada nel canale che divide l’Isola di Prince Edward dal continente Nordamericano. Una commistione di fattori che risulterebbe ardua da comprendere, per così dire, al volo, se non fosse per la pronta disponibilità di immagini come questa, scattata col telefonino dall’istruttore di volo Paul Tymstra a bordo del suo Cessna 172 del 1973. Un aereo che noi tutti conosciamo, grazie alle disordinate scorribande compiute in ore di volo su Flight Simulator: quattro posti a bordo, sportelli come quelli della macchina, un paio di ali situate in alto e le tre ruote del carrello non ritraibile, chiamato in gergo “il triciclo”. Non propriamente il velivolo in cui vorremmo trovarci, insomma, quando la temperatura scende molti gradi sotto lo zero e le nubi si addensano con aria di tempesta.
Ma il cielo era limpido, quel giorno, e la mano salda che impugnava il cellulare è così riuscita, grazie alla luce del sole e una risoluzione più che buona, a catturare quello che vedete riportato qui sopra. Questa è una foto che andrebbe guardata nei particolari: una singola e compatta massa di ghiaccio, nella parte inferiore dell’inquadratura, che lascia il posto, a partire da un’altezza estremamente precisa, ad una serie rettangoli in sequenza parallela, apparentemente non dissimili dalle caselle usate nei giochi della dama e gli scacchi. Ma larghi, ciascuno, esattamente 250 metri, in funzione del singolo elemento per così dire “nascosto” dell’eccezionale composizione. Potreste riuscire a scorgerlo se cliccate e ingrandite l’immagine: quella sottile striscia scura, che agisce come una sorta di separatore tra la parte integra e quella segmentata della distesa glaciale. Lo spirito e l’anima del ponte. Il “corpo” fisico di quanto l’originale confederazione delle colonie inglesi del Nord, oggi trasformata in un singolo stato, sia riuscita a costruire al termine degli anni ’90, dopo una delibera durata una generazione e un tempo assai più lungo trascorso a destreggiarsi coi traghetti stagionali. Limitati a primavera, estate ed autunno, perché questo particolare tratto di mare, lo stretto di Northumberland, ha una caratteristica decisamente fuori dal comune: la capacità di ghiacciarsi completamente in inverno, diventando totalmente impossibile da navigare. Ma non per questo, statico, con ben due correnti contrapposte che si scontrano in un vortice centrale, trasformando il suo punto più stretto nell’approssimazione naturale di una colossale betoniera distruggi-navi. Ecco spiegata, dunque, l’importanza degli aerei: fino al completamento di quello che i locali chiamano affettuosamente il “Passaggio Fisso” il miglior modo per raggiungere l’isola durante il grande freddo era a bordo di un mezzo volante, con l’unica, temeraria alternativa delle cosiddette iceboat, barche a remi con una lunghezza media di 5 metri, che l’equipaggio e i passeggeri dovevano letteralmente sollevare, una volta raggiunti maggiormente solidificati del tragitto, e spostare a braccia finché non era di nuovo possibile tornare a galleggiare. Una soluzione estremamente scomoda, per un luogo abitato da quasi 150.000 persone, con una natura splendida capace di sostenere una proficua industria del turismo.
Così che la percezione di una forte necessità, normalmente, pone le basi per l’ipotesi di massicci megaprogetti. E qualche volta accade, con un plebiscito popolare e la magnanima approvazione della classe al potere, che simili ipotesi ingegneristiche approdino al programma dei lavori con sovvenzioni statali. E un significativo aiuto, in questo caso, di un consorzio privato (Strait Crossing Development Inc.) che potrà incassare tutti gli introiti derivanti dai (costosi) pedaggi fino all’anno 2032. Condividendo, inoltre, il merito di foto straordinarie come questa. Già, la foto. Ritornando allo strano fenomeno: avevate mai visto niente di simile? Come credete che sia stato possibile per il ponte tagliare il ghiaccio a quel modo? La risposta, come spesso capita, non può prescindere da una sommaria analisi tecnica di ciò di cui stiamo parlando…
Il ponte che ridisegna la megalopoli del meridione cinese
Megalopolis: da un punto di vista prettamente europeo, potremmo identificarle come una serie di banane transnazionali dai molteplici colori. La blu, che parte da Liverpool in Inghilterra, per proseguire verso Bruxelles, Amsterdam, Lussemburgo e, dopo aver attraversato Francia e Germania, trovare il suo punto più a sud nella nostra Italia, all’incirca nei dintorni di Torino. E quella dorata, che partendo da qui, si dirige piuttosto ad Occidente, coinvolgendo Lione, Manresa e Cartagena. Mentre la verde, che ha l’origine in Polonia, coinvolge l’Austria e la nostra città di Trieste. Nient’altro che un gioco, da un punto di vista prettamente grafico, per chi evidenzia contorni e profili degni di nota sulle cartine. Ma anche molto più di questo. Poiché c’è un limite o una distanza massima, oltre cui l’energia intrinseca di un centro abitato può fare il “salto” trovando riconferma ed accrescimento nel prodotto economico dei suoi vicini. Quanto possa estendersi tale spazio, a seconda di chi effettua l’analisi, può variare. Secondo gli studiosi della Commissione di Riforma e Sviluppo Nazionale di Hong Kong, molto evidentemente, si tratta di quello che può essere percorso da un’automobile media in un tempo che si trova, grossomodo, tra le quattro ore ed i trenta minuti. Uno spazio per colmare il quale (assieme ad oltre 50 km di mare) dopo oltre trent’anni di ipotesi ed esattamente 9 di lavori, sta per essere portato a termine il più lungo, e per certi versi significativo progetto relativo ad un ponte che transita sopra l’acqua. Obiettivo: balzare oltre il vasto delta del leggendario Fiume delle Perle, per unire l’ex-colonia inglese nota come Porto Fragrante (questo il significato cantonese del suo nome) al centro abitato antistante di Macao, e per suo tramite la città di Zhuhai. Per un totale di 7,3 + 0,6 + 1,5 milioni di abitanti, al fine di creare un singolo hub di 56 Km quadrati, formato da tre delle principali, e più popolose città dell’intera area cinese meridionale. Ma anche, in effetti, molto più di questo: poiché il semplice conteggio delle teste non può raccontare l’intera storia, quando stiamo parlando di aree portuali in grado di ricevere o spedire incalcolabili tonnellate di merci ogni giorno, senza neanche approcciarsi alla questione dell’aeroporto internazionale di Hong Kong. Per raggiungere il quale dall’altra parte del confine geografico fluviale, fino ad ora, è sempre stato inevitabile un ritardo di mezza giornata di lavoro. Mentre oggi, finalmente, il flusso della storia dei trasporti sta per cambiare.
Il culmine si è raggiunto, guarda caso, la notte stessa del capodanno solare, che qui è vista come una festa secondaria rispetto a quella del calendario cinese, che si celebra in base al novilunio tra gennaio e febbraio. Occasione in cui svariati milioni di cinesi si allontanano per un periodo di fino a quattro giorni dal lavoro, e percorrono miglia e miglia per raggiungere i propri parenti o destinazioni turistiche (o “banane”) di grido. Mentre la celebrazione nostrana, stavolta, ha avuto la fortuna di cadere in corrispondenza del momento in cui, grossomodo, andava accesa per la prima volta l’illuminazione elettrica del grande ponte di Hong Kong-Zhuhai-Macao. Un passaggio dal grande significato simbolico, tuttavia subordinato alla vera e propria inaugurazione, che dovrebbe giungere entro i primi mesi del 2018. Presente per l’occasione, assieme a diverse altre Tv nazionali, era il canale China Global Television Network (CGTN) uno dei pochi occhi scrutatori realmente aggiornati con il permesso di pubblicare online gli eventi relativi al Paese di Mezzo (中國 oppure 中国) del gran Dragone cinese. Per dare luogo all’intervista in lingua inglese di cui potete osservare un breve spezzone nel video di apertura, ma il cui svolgimento completo è stato caricato a questo indirizzo, nel corso della quale Yu Lie, vice-direttore del monumentale progetto ingegneristico, ha elencato e spiegato ampiamente le impressionanti cifre fin qui coinvolte. A partire da quelle relative al materiale principale, l’acciaio, di cui sono state impiegate 420.000 tonnellate, ovvero l’equivalente di 60 Torri Eiffel, per passare poi al cemento. 23 sezioni di 80 metri ciascuna, accuratamente depositate presso il fondale del Fiume delle Perle attraverso un periodo di circa 4 anni. Già, perché questa è forse la faccenda in ultima analisi più affascinante: trovandosi ad attraversare uno dei più importanti punti d’ingresso per le navi porta-container in Cina, se il ponte in questione avesse avuto una sezione sollevabile, si sarebbero formate letteralmente delle code come al casello dell’autostrada. Ragione per cui è stato scelto di perseguire una soluzione inimmaginabile fino ad un paio di generazioni a questa parte: far passare una parte del “ponte” sott’acqua, con un tunnel sotto la baia lungo 6,7 Km.
Il ponte che c’insegnò a rispettare il vento
Spalancare i forzieri dell’istituto dei cinegiornali inglesi British Pathé, ormai da tempo offerti gratuitamente online, può riservare significative sorprese. Avete mai visto, ad esempio, un ponte lungo quasi 2 Km che oscilla nel vento? È di questo che parlo: la sua intera struttura di acciaio e cemento, con tanto di cavi di sospensione e torri svettanti sopra lo stretto che si affaccia sul grande Pacifico, ridotto all’intrinseca leggiadria del bambù nella foresta dei pugnali volanti. Finché l’inevitabile, esiziale crollo, non ci riporti alle ragioni dell’assoluta realtà. Si tende a considerare l’avanzamento della tecnica ingegneristica come una linea diagonale che interseca i fattori del tempo e le prestazioni, quando la realtà dei fatti è più simile al susseguirsi delle onde di un mare in tempesta. La situazione progredisce, al mutare dei giorni, fino ad un picco estremo, in cui sembra che sia stato compiuto un passo avanti veramente significativo. Quando, immancabilmente, succede QUALCOSA. L’opinione contraria di una personalità insigne. Un trascurabile incidente. Anche un disastro di variabile entità… Ed è a quel punto che si tende a fare un passo indietro. Anche due. Ma poi col proseguire dei momenti, è inevitabile che ci si avvicini sempre più alla riva. E le onde che corrispondono al nostro ipotetico grafico, diventino sempre più alte. Pensate che persino Leon S. Moisseiff, il famoso progettista originario della Latvia naturalizzato statunitense che lavorò tra le altre cose al ponte del Golden Gate, fece un’esperienza che lo costrinse, pochi anni dopo, a riconsiderare il suo smodato entusiasmo per le costruzioni completamente o quasi del tutto in metallo. L’errore destinato a costare allo stato di Washington 6,4 milioni di dollari, l’equivalente di circa 30 volte quella cifra una volta applicata l’inflazione odierna. E in merito al quale, la faccenda poteva prendere una piega decisamente più disastrosa, visto che per lo meno non ci sono state perdite di vite (umane). Una delle più grandi sconfitte nella storia della viabilità statunitense. Ma anche un momento di rivalutazione delle aspettative, dal quale è scaturito un metodo migliore per progettare le cose. Tutto considerato, si potrebbe persino dire che il mondo ci ha guadagnato?
Era il 7 novembre del 1940, quando la situazione si trovò al punto critico di non ritorno. Per quattro mesi a partire dalla precedente estate, il ponte completato su richiesta dell’ente preposto statale con finanziamento della PWA (Public Works Administration) sullo stretto di Tacoma, finalizzato ad unire l’omonima città di 200.000 abitanti con la penisola di Kitsap, si era guadagnato il preoccupante soprannome di “Gerdie il galoppante”. Attraverso un periodo di febbrile rivalutazione ed approcci sperimentali, si era ormai fatto di tutto per tentare di contenere le sue impressionanti oscillazioni, che facevano sembrare a coloro che erano tanto folli da attraversarlo che le auto provenienti in senso contrario sparissero a intervalli regolari. È in effetti assolutamente impressionante, quanto una struttura architettonica così apparentemente rigida, possa in realtà flettersi per l’effetto di forze che non erano state considerate al momento della sua edificazione. Si tentò così di ancorare la carreggiata, impiegando dei cavi che collegavano la sua sottostruttura a dei blocchi di cemento collocati a riva, dal peso di 50 tonnellate. Ma i cavi si spezzarono quasi immediatamente. Furono installati degli smorzatori idraulici in corrispondenza delle torri, ma questi ultimi erano stati purtroppo danneggiati nel momento in cui la superficie delle stesse venne sabbiata, prima di passare alla verniciatura. Difficilmente, ad ogni modo, sarebbero bastati a risolvere il problema. Nell’ultimo periodo prima dell’episodio destinato a lasciare il segno nella storia della fisica applicata alle situazioni del quotidiano, fu coinvolta anche la figura di uno scienziato di fama, il Prof. Frederick Burt Farquharson dell’Università di Washington, per effettuare delle simulazioni tramite l’impiego di modellini e giungere a una soluzione. Che avrebbe incluso, nella sua idea, delle superfici aerodinamiche a lato della sottilissima striscia (appena 12 metri d’ampiezza per 2,4 d’altezza) che univa i due lati del tratto di mare tanto spesso in tempesta. E lui era lì, quel giorno, per caso o più che mai giustificata preoccupazione, in quel giorno di venti dalla potenza moderata, tuttavia capaci di portare la situazione fino alle sue più estreme conseguenze. Leonard Coatsworth, un editore del giornale Tacoma News Tribune, si trovava in quel momento ad attraversare il ponte con la sua macchina. Quando ad un trattò, udì il rumore del cemento che iniziava a creparsi per la sua intera estensione. Per evitare di precipitare nella baia, fermò subito il motore. Ma a quel punto il veicolo prese a spostarsi lateralmente in maniera impressionante, costringendolo ad aprire lo sportello e strisciare fuori. Mentre la folla osservava dalla riva, quindi, dovette camminare a carponi per i molti metri che lo separavano dalla salvezza, facendosi male alle mani e alle ginocchia. Una volta salvato se stesso e mentre i presenti si lasciavano sfuggire un sospiro di sollievo, si alzò improvvisamente in piedi ed esclamò turbato: “Accidenti! Ho dimenticato di prendere… Il cane!”