L’ingegnoso meccanismo della maschera mutevole nell’opera teatrale di Sichuan

Nell’affollato teatro tradizionale di Chengdu, un importante evento storico viene presentato al pubblico, enfatizzando le capacità di un personaggio che sfuma nella leggenda. Seduto in modo composto oltre il portale di un’antica città vuota, il leggendario stratega dell’epoca dei Tre Regni, Zhuge Liang osserva quietamente il suo strumento musicale, la cetra orizzontale nota come Guzheng. Adesso la sua faccia di colore rosso, grazie all’apparente applicazione del trucco scenico di questa forma d’arte drammaturgica, indica un contegno valoroso e lealtà nei confronti del suo virtuoso signore, Liu Bei. Dopo una rapida sequenza di note che si fondono alla colonna sonora e con la voce del narratore, tuttavia, egli si alza in piedi, fronteggiato dalla figura quasi altrettanto nota del suo storico rivale e futuro fondatore di una dinastia, Sima Yi. Il volto bianco di quest’ultimo, un colore che indica doppiezza e tirannia, alla testa di un manipolo di combattenti il cui significato nell’economia della scena appare drammaticamente chiaro: essi rappresentano l’intero, sterminato esercito della nazione rivale di Wei. Mentre l’eroico protagonista esegue un passo di danza inteso a mirare un combattimento disperato, tuttavia, qualcosa all’improvviso accade: senza soluzione di continuità, il suo volto assume colore azzurro della determinazione e sicurezza di se. Quindi egli si siede nuovamente, continuando a strimpellare lo strumento. Ora Sima si volta verso i suoi uomini, facendo cenno di fermarsi ad aspettare. Dopo uno svolazzo del ventaglio d’ordinanza, anche la sua faccia cambia tonalità, diventando improvvisamente verde: il colore dell’impulsività e il despotismo. Ora la canzone di sottofondo passa ad elencare le passate vittore, nonché la notoria scaltrezza, dell’imbattuto e temibile Zhuge Liang. Davvero egli siederebbe producendo musica di fronte al suo nemico, se non disponesse di uno stratagemma per tornare, ancora una volta, in trionfo negli odiati palazzi di Shu? Esprimendo rammarico e cautela, il nemico ordina perciò la ritirata, uscendo a destra dal variopinto palcoscenico per tornare da dove era venuto. Al che Zhuge nella porta vuota si alza e danza nella quieta consapevolezza che il suo geniale stratagemma, ancora una volta, ha salvato la situazione. Voltandosi rapidamente da una parte, si rivolge nuovamente agli spettatori. Tuttavia, qualcosa è cambiato: il suo volto è adesso nero, ad indicare integrità, imparzialità ed il peso che gli è stato tolto, per aver salvato il popolo incolpevole della città di Yang Ping. Sipario. Applauso.
Ciò che abbiamo fin qui descritto è una delle scene immediatamente riconoscibili della cosiddetta Chuānjù (川劇) o Opera di Sichuan, un tipo di rappresentazione canonica che può essere fatta risalire fino all’ultimo periodo della dinastia Han, nel secondo secolo d.C, poco prima del confronto decennale tra le eccezionali menti di Sima e Zhuge. Mentre molto più recente dovrebbe essere, sebbene la sua datazione esatta risulti necessariamente complessa, l’invenzione e l’utilizzo delle rinomate tecniche del Biàn liǎn (变脸) binomio essenzialmente traducibile come “mutamento del volto”. Strategia impiegata da taluni attori e tramandata gelosamente nelle loro discendenze, almeno a partire dagli albori della dinastia Qing (1644) per enfatizzare l’espressione dei sentimenti attraverso un effetto speciale in grado di cambiare il colore dei loro volti. In origine mediante l’utilizzo di polveri colorate, cui si avvicinavano strategicamente nel corso dei momenti più concitati. Ma in seguito tramite l’impiego di un più sofisticato approccio basato sull’impiego di sottili maschere di seta. Svelate in rapida sequenza lungo il corso della rappresentazione, come in un gioco di prestigio basato sul trasformismo…

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L’antica tecnica per trasformare una comune zucca nel tradizionale copricapo delle Filippine

Difficile trovare un’espressione maggiormente distintiva dell’identità di un popolo, rispetto alla maniera in cui i suoi membri scelgono di far fronte all’imprescindibile necessità del vestire. Un’esigenza che si estende per un paese dal clima tropicale, umido ed affetto dalla periodico ritorno dei monsoni all’utilizzo di un sistema particolarmente valido per proteggere la testa ed il volto, dall’inclemente sole di mezzogiorno, così come i sostanziali centimetri di pioggia che si accumulano con insistenza poco più che settimanale. Ragion per cui nella pregressa esperienza di vita delle diversificate etnie filippine, quasi ogni regione, ciascun singolo distretto ha sempre avuto una premura di distinguersi per quanto riguarda lo stile e l’ornamento dei cappelli di tipo salakot, tanto importanti in questo luogo quanto i soprabiti e le giacche dei paesi freddi, o le pelli di leoni ed altre belve nei remoti territori della savana. Con la sostanziale differenza, frutto del contesto ecologico ma anche l’eredità dell’ancestrale animismo isolano, che l’essenziale fonte in termini di materiali riesce ad essere di un tipo prevalentemente vegetale. Come nel caso del talugong fatto con le foglie di palma, il Sarùk in rattan finemente intrecciato con l’esterno in cotone, lo hallidung coperto di un resina al fine di renderlo impermeabile. O ancora il il riconoscibile kattukong degli Ilocano delle alture settentrionali, vietato per un lungo periodo come simbolo di ribellione dagli europei ma paradossalmente, oggi ritenuto uno dei principali ispiratori dell’iconico casco da esploratore o pith helmet dell’Inghilterra di epoca coloniale. Questo per la forma bombata e l’ampia tesa solida, frutto nel caso dell’originale asiatico delle specifiche circostanze della sua creazione. Giacché un simile implemento viene in genere costruito, tra tutte le alternative possibili, a partire da una tondeggiante cucurbitacea definita localmente tabungaw, la zucca che possiede il nome scientifico di Lagenaria siceraria, comunemente associata in tutta l’Asia alla propria funzione ideale di bottiglia per contenere bevande alcoliche di varia natura. Ma che lasciata crescere in maniera maggiormente proporzionale fino alla maturità, tende a disegnare con il suo profilo uno sferoide perfetto, tanto capace d’ispirare l’immediatamente riconoscibile forma della testa umana. Da qui l’iniziativa vecchia di svariati secoli, consistente nel tagliare a metà il frutto e foderarne laboriosamente la parte interna, così da renderlo perfettamente funzionale all’impiego come tipico indumento locale. Una preziosa tecnica ormai diventata rara, essendo in modo drammaticamente celebre soprattutto l’esclusivo appannaggio di una singola e ormai celebre figura professionale…

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Il destino delle arcane foglie nella biblioteca della pura conoscenza balinese

La disponibilità o diffusione di particolari tecnologie plasma la cultura di un popolo, e questo è vero per importanti avanzamenti generazionali come la stampa, la bussola o Internet, così come dei concetti basilari quali il semplice principio necessario per tradurre le parole, in scrittura. Così che l’impiego di un determinato tipo di caratteri, siano questi fonetici, sillabici o dei veri e propri ideogrammi, può scaturire dal bisogno di riuscire a riprodurli con determinati metodi o materiali. È questo il caso di molte scritture brahmi dell’Asia meridionale, dal Devanagari al Telugu, dal Javanese al Tamil, le cui lettere tondeggianti, piuttosto che essere formate dalle linee dritte che caratterizzano l’alfabeto latino, avevano uno scopo ben preciso: prevenire che il principale materiale utilizzato per la scrittura, per sua natura solido, ma non indistruttibile, finisse per spezzarsi letteralmente in più di un pezzo rendendo totalmente inutile il lavoro dello scriba. Questo perché il tipico sostegno dell’inchiostro in quei paesi, dal V secolo a.C. fino al XIX ormai successivo alle contaminazioni provenienti da Occidente, non era bianca carta né pergamena, né papiro o altra sofisticata fibra dalla provenienza vegetale. Bensì un pezzo di vegetazione stessa, ovvero le foglie piatte e larghe che formavano la caratterizzante corona dell’albero di palma. Un qualsiasi albero facente parte del genere Palmyra dunque, o certe zone dell’India la specie Corypha umbraculifera, adeguatamente prelevate, messe ad essiccare e successivamente appiattite mediante l’uso di varie tipologie di presse dal grado di tolleranza progressivamente minore, verso l’ottimale attrezzo definito pemlagbag. Fino all’ottenimento di una serie di ritagli dalla configurazione rettangolare, perfettamente idonei all’intaglio di annotazioni delle tipologie ed argomenti più diversi, da testi di medicina a salmodie religiose, passando per codici legali ed opere letterarie finemente illustrate. Il tutto mediante l’utilizzo di un piccolo e maneggevole coltello da intaglio, capace di tracciare i solchi destinati ad essere, di lì a poco, colmati con inchiostro nero ricavato dalla fuliggine delle lampade, colla organica ed olio vegetale come additivo. Per poi passare, dopo il lavaggio dell’eccesso, allo stadio fondamentale della rilegatura, ottenuta mediante il ricavo di un foro centrale con il trapano piglig entro cui viene fatto passare un semplice spago, così da preservare l’ordine delle foglie durante la lettura.
Un approccio all’immortalità delle nozioni non propriamente privo di difetti, vista la propensione di tali testimonianze a disgregarsi completamente in un tempo variabile in media tra i circa 60 e 600 anni, a seconda dell’umidità e conseguente presenza di parassiti del legno all’interno di un determinato territorio di riferimento. Il che avrebbe permesso, ad esempio, ad alcuni testi nepalesi di giungere intatti fino a noi dall’epoca medievale, così come in un caso particolarmente degno di nota, al manoscritto Spitzer risalente al secondo secolo di rimanere perfettamente leggibile ai moderni, grazie al clima moderato delle grotte di Kizil in Cina, celebri per le loro mille e più statue raffiguranti Buddha ed i suoi discepoli più famosi. Laddove in luoghi come l’Indonesia, ed in modo particolare l’isola di Bali, un ambiente maggiormente problematico avrebbe portato all’implementazione di precise ed altrettanto collaudate pratiche di conservazione…

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L’Africa spaziale di Zak Ové, nella diaspora vissuta come viaggio tra universi tangenti

Ad ogni azione corrisponde una reazione, l’imposizione di una forza sottintende un qualche tipo di resistenza. Così nella fisica, come negli studi sociali, particolarmente se applicati alle dinamiche di coesistenze conflittuali, l’unica maniera in cui può essere chiamato un mondo in cui qualcuno può acquistare altri esseri umani, disattendendo lo schema generico dei diritti umani ed il principio del libero arbitrio. E tanto a lungo tale circostanza ebbe a proseguire e rinnovarsi, che in un giorno possibile, in base a una speciale profezia, l’uomo nero del futuro potrà scegliere di organizzare una delegazione. Inviandola, tramite l’impiego di un vascello ultraveloce, fino alle regioni spaziotemporali della nostra epoca. Senza nessun tipo di missione, tranne sorvegliare l’imminente stato delle cose. Ed osservarci, per incorporare nella propria mente immobile un possibile schema di risoluzione a beneficio di una discendenza che non ha potuto ancora dedicarsi alle ragioni della cupidigia inerente. Questo l’evidente scopo dell’ultima variopinta astronave/totem dell’artista londinese, di origini trinidadiane Zak Ové denominata Mothership Connection (citando un album funk degli anni ’70 dei Parliament) e creata per il Regent’s Park lo scorso settembre, continuando l’ideale discorso della popolazione dei cosiddetti uomini invisibili, 40 figure antropomorfe originariamente esposte presso lo Sculpture Park dello Yorskshire (2018). Individui dal volto coperto, così come una maschera del carnevale di quell’isola risalta in cima al nuovo totem post-moderno, perché diaspora e schiavitù sottintendono la perdita dell’identità individuale, mentre i tratti culturali ereditati vanno incontro a un sincretismo delle circostanze che non può realmente sovrascriverne, d’altronde, il significato inerente. Questa l’idea del carnevale caraibico del Moko Jumbie, i cui princìpi estetici e talvolta i personaggi stessi sono stati utilizzati come ispirazione, nel corso della carriera di questo celebre artista, in qualità di linguaggio o parte della storia stessa, narrata tramite i molti campi della sua espressione creativa: pittura, cinematografia, scultura, ricamo. Fino all’estremo delle sue creazioni più recenti, il tipo di pali monumentali che vedremmo collocati convenzionalmente fuori dalle abitazioni dei nativi delle Americhe nord-occidentali. Se non fossero creati grazie all’uso della plastica, luci elettroniche e parti d’automobili con fregi cubici dai plurimi colori contrastanti…

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