“Se la Terra fosse grande quanto una pallina da ping pong, la sua distanza dal Sole sarebbe di 460 metri.” È per questo che ai fini di effettuare dimostrazioni scientifiche, non è opportuno che la Terra abbia dimensioni superiori a una pallina da ping pong. Va d’altra parte anche considerata la maniera in cui, nonostante il suo velato ed ingiustificato senso di aleatoria familiarità, il sistema planetario a cui noi apparteniamo sia costituito in larga parte dal vuoto cosmico, ragion per cui prende il nome di Spazio e non, tanto per dirne una: “Grande oceano popolato da una pletora di pesci e altre creature.” Se dovessimo d’altronde immaginare un ipotetico futuro, in cui stazioni spaziali, ferrovie astronautiche a la Galaxy Express 999, punti di approdo asteroidali e piccole stazioni fluttuanti di altra natura dovessero riuscire a costellare questi territori, sorgerebbe l’esigenza di costruirne, da qualche parte, un plastico in scala maggiore. Altrimenti come potremmo riuscire a immaginare, senza staccare i piedi dal pianeta che ci ha dato i natali, di vedere con i nostri occhi Marte, Venere o gli anelli luminosi del grande Saturno? Ebbene se una simile possibilità dovesse mai effettivamente palesarsi, non è irragionevole pensare di conoscere già il luogo dell’impresa: le vie ferrate di Chiloquin, Oregon, contea di Klamath, non lontano dal famoso Crater Lake Park. In un luogo noto tematicamente e in modo almeno parzialmente descrittivo come “Train Mountain” benché non sia (soltanto) una montagna, contenendo anche diverse valli, colline, vari boschi e i suoi percorsi, serpeggianti in mezzo a quella che potremmo definire l’incomparabile e ragionevolmente incontaminata natura. Dove la Terra avrebbe un diametro corrispondente grosso modo all’altezza del Messico e una locomotiva la capacità d’ingombro di una marmotta adulta. Bestia di metallo dalle dimensioni forse contenute, ma cionondimeno in grado di trasportare assieme alle sue molte consorelle un carico pensante ed entusiasta in giro per i 2.205 acri ed oltre 40 Km di binari di quel territorio in “miniatura”, completo di rimesse, scambi elettrici del tutto funzionanti, piccoli paesi in miniatura, torri di approvvigionamento idrico e veri e propri ponti a traliccio, per non parlare del tunnel lungo 91 metri posto a transitare sotto il corso di un’autostrada full-size. Benvenuti, dunque, in quello che pur avendo le caratteristiche, l’aspetto, il funzionamento, l’organizzazione, i metodi promozionali di un luna park, è in effetti più che altro un museo a cielo aperto. Forse il più atipico, a suo modo memorabile degli Stati Uniti e del Mondo…
infrastrutture
La strategia dell’autostrada che avvicina il Cielo e la Terra per i viaggiatori cinesi
Un’idea fuori dal tempo ed oltre i limiti della consueta logica procedurale: rendere vicine, per quanto possibile, le temperate valli del bacino fluviale del Sichuan e gli altopiani tibetani, dove l’aria rarefatta s’interpone come unica barriera tra l’uomo e l’infinito. 240 Km di strada, che non sarebbero una cifra tanto eccezionale, se soltanto non passassero attraverso sei montagne con 25 tunnel, tre grandi fiumi, dodici zone di faglia sismica ed un dislivello nel complesso pari a quello di un sinuoso percorso verso cime perse tra nubi distanti. Ciò non basta ancora a impressionarvi? Allora, considerate questo. Prima del 1980, il trasporto di merci nell’entroterra avveniva primariamente tramite linee ferroviarie, e non era del tutto errato affermare che il paese fosse privo di un singolo chilometro di autostrade in senso contemporaneo. Ancora 7 anni dopo, un primo esempio di simili infrastrutture era stato completato tra Shanghai e Pechino, impiegando prestiti considerevoli da parte della Banca Mondiale. Ma sembrava che la modernizzazione del sistema stradale fosse destinata a procedere a rilento. Almeno finché il 13 gennaio del 2005, il Ministero dei Trasporti annunciò il suo piano “7918” per una griglia di 7 sentieri asfaltati destinati a diramarsi dalla capitale, 9 in direzione nord-sud e 18 est-ovest da completarsi entro il 2030. Ma ciò non fu giudicato essere ancora abbastanza, con il passaggio entro il primo quinquennio al progetto revisionato dal numero identificativo aumentato a “71118” (per undici strade appartenenti alla seconda categoria). Una di queste, alquanto inaspettatamente, avrebbe finito per attrarre l’attenzione, ed in una certa misura l’invidia, degli ingegneri civili di mezzo mondo. Poiché si potrebbe tranquillamente affermare, senza distanziarsi troppo dalla verità, che il lavoro completato nel 2018 per questo particolare e lungo tratto della Pechino-Kunming attraverso la significativa catena montuosa di Hengduan, soprannominato per l’appunto autostrada Yaxi/Tianla o Sky Road costituisca qualcosa di assolutamente unico al mondo. Eppure al tempo stesso, persino tale affermazione potrebbe costituire un parziale eufemismo. Di fronte alla constatazione della somiglianza, più che accidentale, di una parte significativa del percorso alla dislocazione pratica di una montagna russa, tra rampe, curve sopraelevate e soluzioni fortemente innovative, quali la dozzina di trafori montani con forma circolare ascendente, al fine di condurre i mezzi più pesanti fino in cima superando il problema pratico d’eccessive pendenze. Mentre in altri casi, le particolari soluzioni adottate paiono parte di una precisa ricerca estetica, laddove forma originale e funzione risultano effettivamente coincidenti per l’effettiva e comprovata distanza del progetto, da qualsivoglia metodologia consueta dalle comparabili circostanze. Ed è forse proprio questa, tra le molte apprezzabili caratteristiche di una simile modifica del paesaggio, a renderla maggiormente accettabile anche da parte di chi ama preservare le cose com’erano in origine. Benché resti facilmente immaginabile il modo in cui, negli anni, le proteste degli ambientalisti debbano aver richiesto più di un innalzamento sistematico del ben noto e raramente fallibile grande firewall cinese…
L’azione rotante che capovolge il modo di progettare un ponte
L’uomo gira freneticamente l’ingombrante manovella in senso orario, nell’evidente attesa che possa verificarsi l’Evento. E non c’è neanche il tempo di provare a interrogarsi sulla probabile natura di quest’ultimo, prima che i nostri occhi vadano a posarsi sull’imponente scheletro di un parallelepipedo da 13 tonnellate posizionato almeno in apparenza in equilibrio sul fiume Lea, instradato sul passaggio di specifiche rotaie ondulatorie. Per l’oggetto che un poco alla volta, con un suono simile a quello di una pendola del nonno, si appresta a ricevere il fondamentale dono dell’obliquità. Benché a quel punto non si fermi, per marciare con fermezza fino al mezzo giro dei 180 gradi. Facendo conseguentemente risalire, prima da una parte e infine sulla sommità distante, il battistrada che poteva conseguire dall’unico lato chiuso dell’insolito costrutto di metallo e legno di quercia. Un vero e proprio ponte inglese, sotto qualsivoglia specchio dell’analisi s’intenda scrutarlo.
Verso la fine del XIX secolo la maggiore isola del Regno aveva organizzato i suoi trasporti sulla base di due metodologie ben collaudate. Le persone che viaggiavano, nella maggior parte dei casi, in carrozza lungo strade mantenute in buone condizioni dallo Stato, mentre le merci e i carichi pesanti, sulla base di un’usanza mutuata dal continente, tendevano a imboccare la via dei canali e corsi d’acqua fluviali, a bordo di chiatte lunghe trainate il più delle volte mediante l’utilizzo di affidabili motrici altrettanto inclini all’occasionale nitrito. Ciò che tendeva a capitare tuttavia, come avviene ancora con gli attuali mezzi di spostamento, è che i due tipi potessero trovarsi, in attimi diversi, ad affrontare una geometrica criticità condivisa: l’incrocio liminale tra la parte solida e quella liquida del territorio esistente. Entrambi temporaneamente inclini ad aspettar dando la precedenza, eppur coscienti della problematica inerentemente limitante: che se qualcosa non fosse cambiato nell’assemblaggio del punto di transito condiviso, tale tempo si sarebbe esteso fino all’eternità… Da qui l’idea, tipicamente apprezzata dagli ingegneri di epoca vittoriana, di far muovere il ponte. Ed è la storia di questo particolare approccio tecnologico in Gran Bretagna a costituire, per chi ha voglia d’approfondirlo, un formidabile catalogo di approcci alternativi, capaci di ruotare, sollevarsi, essere spostati o messi da parte. Con motori, motrici, carrelli o ruote di criceto umane. Ragion per cui colpisce in una misura ancor maggiore, il fatto che l’ultima opera firmata dall’architetto Thomas Randall-Page, in questo caso coadiuvato da un nutrito gruppo di consulenti e progettisti, rappresenti l’ambiziosa esplorazione di un potenziale approccio del tutto alternativo. Qualcosa che nessuno in altre circostanze, avrebbe mai potuto dimostrare di saper portare fino alla tangibile realizzazione latente…
L’avventura dell’ultimo martello pneumatico sul ponte condannato alla demolizione in Spagna
La squadra all’opera sul ponte A-6 del viadotto del Castro, crollato parzialmente lo scorso aprile, rivolse al tavolato instabile un ultimo sguardo carico di nostalgia. Dopo mesi di esperta dedizione, finalmente, le opere preliminari potevano dirsi complete e nel giro di pochi minuti, il loro luogo di lavoro principale sarebbe scomparso in una nuvola di polvere, dopo essere precipitato per svariate decine di metri fino al fondo della valle di Pedrafita. Facendosi da parte, gli operai lasciarono a questo punto avanzare l’impiegato più sacrificabile, ed al tempo stesso prezioso, della compagnia. Imponente, svelto, snodato, riconoscibile dal giallo della sua livrea, Brokk si preparò all’opera sollevando lo strumento principe del suo ruolo professionale: distruggere ogni cosa nel modo più rapido e per certi versi, elegante. Legato a quella che poteva essere considerata la sua vita, una catena grossa e ponderosa, discendente dalla sommità dell’imponente paranco collocato sul terreno solido, al termine dell’apparato cementizio visibilmente dismesso. Avanzando ancora qualche metro, l’insolito operaio si fermò improvvisamente, come al ricevimento di un comando invisibile. Mediante una lieve vibrazione in grado di percorrere il suo intero corpo, abbassò quindi il lungo braccio per puntare a terra lo scalpello situato all’estremità di quest’ultimo, del tutto preparato a colpire il bersaglio per 25 volte al secondo grazie all’energia ricorsiva dell’aria compressa. Un metro alla volta, dall’inizio fino al termine del suo tragitto designato, Brokk avrebbe quindi proceduto al gesto proverbiale in lingua inglese di “tagliare il ramo su cui si è seduti”. E nel momento in cui ogni cosa avrebbe fatto il suo corso gravitazionale, sarebbe di suo conto asceso, libero e leggiadro, verso il cielo della gloria imperitura delle macchine demolitrici. Con soltanto il mero potenziale, ahimè, di un’anima e un’identità indipendente.
Poiché l’avrete già capito a questo punto, il nostro protagonista di quest’oggi è in buona sostanza un robot, nell’accezione più contemporanea del termine, mirata ad indicare il sistema dei suoi “muscoli” e ingranaggi semoventi, piuttosto che l’intelligenza indipendente e forma antropomorfa degli automi teorizzati per la prima volta dal drammaturgo ceco Karel Čapek. Quello prodotto dall’eponima compagna multinazionale dalle origini svedesi, fondata nel 1976 da PE Holmgren & Rivteknik, diventata nel corso delle ultime decadi il sinonimo e l’antonomasia di qualsiasi opera demolitrice condotta a compimento tramite l’aiuto di macchinari dotati di un certo livello d’autonomia. Sotto l’esclusiva, imprescindibile guida di un operatore umano, armato di un apposito telecomando senza fili. Ed è un approccio, a ben pensarci, molto pratico e funzionale, poiché permette a costui di osservare attentamente la situazione dal punto di vista che preferisce, piuttosto che quello non necessariamente pratico della cabina di comando. Distanziandolo, nel contempo, dal pericolo che viene da eventuali conci o calcinacci dei pilastri di supporto, nel momento della verità finale. Come quello sopra descritto, probabilmente del tutto privo di precedenti, diventato virale a partire dalla scorsa settimana, dopo aver costituito un passaggio rapido e obbligato delle opere di rimozione per un’opera tanto imponente, quanto instabile e per questo giudicata non più necessaria…