Elicottero infuriato brucia il bosco californiano

43 residenze, 53 edifici, 8 strutture annientate dalle fiamme. 69.438 acri andati in fumo, nonostante il coinvolgimento di 227 vigili del fuoco. Nelle regioni più secche degli Stati Uniti, gli incendi sono talmente grandi, e devastanti, da riuscire a guadagnarsi addirittura un soprannome. Come il “Rocky Fire” che nell’estate del 2015 porto disastro e distruzione per un territorio notevolmente più esteso della media. “E ti credo!” Avrebbero esclamato i più ingenui tra gli spettatori. Tutta colpa di quel temibile pilota col suo diabolico arnese volante. Iniziò a girare voce tra i locali. Ne parlò persino il TG, con scene che parevano prelevate da un film di fantascienza speculativa sulla falsariga di Farheneit 451. L’elicottero, apparentemente non dissimile da tutti gli altri, si sollevava in volo ai margini del centro abitato. Trascinandosi dietro quello che guardando da lontano, non poteva assomigliare ad altro che un secchio per il trasporto dell’acqua. Se non che appariva, stranamente, sigillato. Quasi come se gli addetti a terra l’avessero precedentemente riempito con un liquido speciale. Così una volta raggiunta la scena delle fiamme, avreste visto questo arnese che deviava verso i margini del caos. E invece di puntare dritto al centro come da prassi, scaricava il contenuto del barile ai lungo quel tragitto che si riteneva più probabile per il propagarsi dello show. Soltanto che, apriti cielo: letteralmente. Mentre l’aria si faceva tremolante, per l’effetto del calore e la rarefazione, quello che scendeva era soltanto fuoco, altro fuoco, tanto per contribuire alla devastazione sistematica dell’universo vegetale. Stop. Cosa stiamo vedendo? C’è una tecnica, che in molti conosciamo, per limitare il verificarsi di una simile evenienza. Sto parlando della bruciatura controllata, durante cui gli addetti alla foresteria, senza alcuna esitazione, appiccano le fiamme ad aree attentamente definite del territorio oggetto delle loro responsabilità. Avendo cura che le piante più alte sopravvivano e ottenendo, in questo modo, che erba secca, foglie morte ed altro combustibile si trasformino in cenere e concime. Quello che abbiamo modo di scrutare in modo assai meno frequente, tuttavia, soprattutto qui da noi in Europa, è la versione più disperata di una tale prassi, che prevede l’intervento con l’incendio in corso ormai da svariate ore. Quando i metodi convenzionali non bastano più a risolvere la situazione, e l’unica risorsa che rimane all’uomo, è disegnare le cosiddette “linee nere”; aree lunghe e sottili dove non resti assolutamente nulla che il fuoco possa lambire. Lasciandogli la sola scelta di fermarsi, e poi dissolversi nell’aria.
Un tipo d’intervento tradizionalmente riservato solamente ai più convinti e coraggiosi tra i volontari, per il semplice fatto che potrebbe corrispondere, in linea di principio, ad un chiaro intento di passare a miglior vita. Gli improvvisi mutamenti della direzione del vento, dopo tutto, sono un caso proverbiale, così come il rischio che pervade questo gesto di aggiungere altro fuoco dove già il terreno brucia, ritrovandosi potenzialmente chiusi tra pareti che si stringono, un poco alla volta. Finché per fortuna, attorno all’epoca degli anni ’60, i pompieri forestali della Divisione Incendi Californiana (CALFIRE) non iniziarono a sperimentare un nuovo tipo di approccio al problema. Legare un lungo cavo sotto un elicottero, ed attaccarvi… Varie cose. Un processo noto come helitack, il cui inventore resta largamente ignoto, ma che avrebbe rivoluzionato su scala globale il metodo per approcciarsi agli incendi boschivi. Ben presto ci si rese conto agire da terra nelle circostanze più infernali era un rischio che non occorreva più correre, a meno che si fossero già tentate tutte le alternative a disposizione. Tra cui quella, decisamente Heavy Metal, di gettare l’equivalente civile del napalm sul sentiero più probabile dell’espansione dell’incendio. Sia chiaro che stiamo parlando, in questo caso, dell’elitorcia, uno strumento che non costituisce, contrariamente al suo apparente aspetto, la più compatta e versatile delle armi di distruzione di massa. Bensì un utile alleato nella lotta contro entità spietate come il Rocky Fire del 2015, e così tutti gli altri incendi a venire. Un lanciafiamme buono, in altri termini. Il più improbabile degli ossimori, tra tutti quelli che potremmo concepire in un’epoca successiva alle grandi guerre del ‘900.

Nota: il video di apertura mostra le operazioni di un McDonnell Douglas MD 600 della compagnia Brim Aviation dotato di elitorcia. Al fine di accrescere la sicurezza di volo si tratta di un elicottero NOTAR, ovvero senza rotore di coda, in cui la stabilità è fornita dal getto di una turbina orientata nella direzione della coda.

Volendo usare una similitudine, l’elitorcia ricorda una colossale fiamma ossidrica che sia stata sospesa sotto le piume di un pellicano in volo. Uccello che ha acquisito, per uno scherzo del destino, il gusto per il pesce cotto, invece che crudo.

Da un punto di vista meramente descrittivo, l’elitorcia non è altro che un contenitore sigillato a terra da 50-55 galloni (circa 200 litri), nel quale è stata precedentemente introdotta una miscela di liquido combustibile e un agente di gelificazione, quale ad esempio l’Alumagel, in un rapporto sufficiente a trasformare il tutto in una poltiglia semi-densa e appiccicosa. Una volta attaccato l’apparato al cavo di sollevamento, quindi, si collega il tutto all’impianto elettrico dell’elicottero e si aggiunge un pratico pulsante di attivazione, assicurato con delle cinghie alla cloche usata dal pilota per dirigere il mezzo. Poiché anche se sarà presente un secondo a bordo, per favorire la coordinazione col personale di terra, esattamente come nello sgancio di un ordigno bellico sarà soltanto colui che si trova ai comandi, a poter decidere il momento in cui si trova in posizione idonea allo svolgimento della missione. Nel momento in cui l’istinto gli dirà di procedere, dunque, egli premerà questo bottone dell’apocalisse, garantendo il succedere di due cose: primo, l’attivazione della pompa che scaraventa nell’aria la progressiva totalità dei globuli grumosi contenuti all’interno del barile ma non prima che (seconda cosa) il sistema piezoelettrico di accensione abbia liberato la scintilla che essi necessariamente attraverseranno, trasformandosi in altrettante piccole palle di fuoco. Questo approccio alla combustione intenzionale non lascia scampo. Come nell’epoca più cupa dei bombardamenti americani nel Vietnam, la benzina addensata è una sostanza che continua a bruciare anche per 10-15 minuti, penetrando grazie al suo peso attraverso la fitta coltre di foglie della foresta. E giungendo con estrema facilità fino a terra, dove si trasforma in un manto in grado di polverizzare tutto quello che gli capita a tiro, escluse forse le pietre. Questa è la terribile potenza dell’elitorcia. Per portare a termine una simile mansione occorre, generalmente, disporre di un team particolarmente affiatato e che abbia portato a termine un sufficiente numero di esercitazioni. Tra i ruoli determinati, oltre a quello del pilota, figurano una serie di “capi” o “boss” con la funzione deputata di supervisionare diversi momenti delle operazioni. C’è il capo supremo della bruciatura, collocato a terra e con una visione d’insieme, che si coordina con il “lighning boss” a bordo del velivolo, per dare direttive per lo sgancio del gel. Coadiuvati dal cosiddetto “holding boss” presso l’eliporto, che coordina il personale per il rifornimento e la manutenzione del velivolo tra una sortita e l’altra.
Non che un simile dispiego di uomini e risorse costituisca, ovviamente, dell’unico strumento impiegato per la propagazione degli incendi programmati. Un testo reperibile su Google risalente al 1980, intitolato EQUIPMENT for reforestation and timber stand improvement parla estensivamente dei diversi attrezzi esistenti, un’impressionante selezione di armi incendiarie messe in mano ai salvatori della foresta e delle proprietà private che si trovano ai suoi margini, ad ogni sopraggiungere dell’estate californiana. Soluzioni come munizioni a scoppio ritardato, torce a combustione lenta per il lancio dagli aeromobili, sistemi simili a elitorce portatili o loro versioni sovradimensionate, per il montaggio su veicoli come fuoristrada o pick-up. Uno degli strumenti più affascinanti sono i brush burners, speciali ventilatori costruiti per gettare in egual misura aria e carburante diesel nelle zone che sono state già incendiate, per assicurare una propagazione più rapida e risolutiva del grande fuoco che tutto purifica, sotto l’attenta supervisione di colui che se ne intende.

La versione aerotrasportata della drip torch (apparato per il rilascio di gel infiammabile) non è poi così diverso dall’attrezzo manuale che l’ha ispirata. L’uso di quest’uiltima richiede, tuttavia, un grado decisamente maggiore di coraggio individuale.

Fiamme al servizio del bene, dunque, finalizzate a prevenire qualcosa di molto più grave. Ovvero un incendio che bruci libero tra i confini del bosco, ormai impossibile da controllare. Non che il problema, in se stesso, sia portato ai suoi termini più estremi dalla natura. Per la tipica vegetazione ad alto fusto le fiamme non costituiscono in genere la fine. Anzi, tutt’altro: poiché mentre i vecchi tronchi bruciano, già i loro semi cadono a terra, e penetrano nel sostrato di cenere e terra carbonizzata. Preparandosi alla rinascita che da infiniti secoli ha preservato la loro specie. Esistono persino delle particolari specie, come la Sequoia sempervirens delle coste californiane, che in mancanza di un recente incendio non possono neppure germogliare, per il semplice fatto che le loro pigne (serotiniche) si aprono soltanto in caso di elevate temperature. Questo perché simili alberi, che crescono lentamente ed al costo di enormi quantità di sostanze nutritive, devono essere i soli nel vicinato. Oppure, è garantito, non riusciranno mai a prevalere.
Siamo soltanto noi, esseri umani, e gli altri animali, a trovare che il fuoco sia un momento problematico dell’esistenza su questo pianeta. Che purtroppo, o meno male, è letteralmente ricoperto di ossigeno, il prodotto della fotosintesi di quelle stesse piante che lo usano per ricreare regolarmente la propria infinita esistenza. Sarà un caso? Io dico soltanto questo: se non puoi batterle, unisciti a loro. Non c’è necessariamente alcuna implicazione nefasta nel giusto grado di piromanzia. Purché non diventi, dannazione, una mania.

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