La ferrovia che taglia un lago rosso e verde come una bandiera

Quel ramo del lago avìto, che volge al vespro, rosa e maleodorante, tra le propaggini di deserto raramente attraversato dai veicoli della moderna civilizzazione; e il ponte che ivi congiunge le distanti rive, dividendo in lembi contrapposti ciò che un giorno era stato unito. Salato, più del mare stesso. Ma non perciò privo di vita, piuttosto che ristoro per gli uccelli che qui sostano, nutrendosi dello strato quasi solido costituito dalle mosche del sale, le ronzanti efidre. Mentre nelle sue profondità, si aggirano miliardi di piccoli gamberi, nati da generazioni successive di uova dormienti. Eppure ciò che maggiormente riesce a caratterizzare nella percezione popolare il bioma del Grande Lago Salato, maggiore dello Utah e ventunesimo nei vasti Stati Uniti, non è questa sua popolazione interconnessa bensì l’effetto che il sostrato basico di essa riesce a indurre nel fondamentale cromatismo della situazione, suddiviso in due metà distinte: intenso e sanguigno da una parte, scolorito e verdeggiante in quella contrapposta, all’altro lato della diga involontaria, ma non per questo meno necessaria alle macchinazioni di coloro che qui vivono, attraverso le generazioni, sin dall’epoca della prima colonia stabilita dai mormoni. Che poi crebbe, in modo esponenziale, fino all’ottenimento dello status di città costiera e capitale dello stato con il nome di Salt Lake City. E si arricchì di un utile viale d’accesso, con la costruzione tra il 1902 e il 1904 di un lungo viadotto ferroviario, la linea di Lucin, costituito da esattamente 19 Km a partire dalla riva di Promontory Point. Un ponte in legno che poggiava sul fondale non troppo profondo, destinato ad essere mantenuto e sostituito per un periodo di quasi 50 anni, quando in considerazione del suo utilizzo piuttosto intenso, con fino a sette treni giornalieri per il trasporto di merci e persone, la compagnia Southern Pacific non decise di affiancargli un diverso tipo di passerella. Ovvero un terrapieno, costruito con gabbioni, detriti e ingombranti pietre, che andasse da una riva all’altra del Grande Lago, suddividendolo essenzialmente in due entità distinte fatta eccezione per un paio di piccole condotte equidistanti dalle contrapposte rive. Dopo tutto, quale poteva essere il problema? Per uno specchio d’acqua per lo più endoreico, privo di fattori d’affluenza fatta eccezione per la pioggia stessa, e già soggetto a significative fluttuazioni della sua estensione attraverso il ciclo prevedibile delle stagioni. Che continuò a procedere, senza immediati cambiamenti apprezzabili dall’uomo.
Finché un giorno, qualcuno non si volse verso levante per notare qualcosa d’insolito e altrettanto inaspettato: “Sto sognando, gente, o le acque hanno cambiato colore?” O per lo meno la metà settentrionale oltre quella muraglia percorribile, dove l’assenza dei fiumiciattoli e torrenti della metà sud, utili a disperdere l’innata salinità di un tale specchio, aveva causato la progressiva modificazione delle condizioni chimiche vigenti. Fino all’eutrofizzazione ad opera dell’alga estremofila rimasta senza concorrenti, quella Dunaliella salina che tanti altri laghi salati, in giro per il mondo, è responsabile di aver tinto di rosa. Ma la scena qui presente, essenzialmente, era del tutto priva di corrispondenze altrove. Perché nel frattempo, all’altra parte dello stretto terrapieno le acque erano rimaste comparativamente incolori, benché tendenti al verde causa la copiosa presenza di Dunaliella viridis e colleghe. Il lago, in altri termini, si era trasformato nel vessillo di un’alta bandiera ed a nessuno sembrava importare particolarmente, apprezzandone anzi gli ottimi presupposti turistici sugli abitanti degli stati vicini. Almeno finché verso il principio degli anni ’80, lo squilibrio tra i livelli delle due metà non causò una serie d’inondazioni durante un periodo di piogge particolarmente intense, con conseguente danneggiamento delle attività industriali e agricole nate nel frattempo all’altro lato della città di oltre 200.000 abitanti. Essendo stati colpiti dove fa più male (il flusso ristorativo dei denari) venne deciso in tutta fretta, a quel punto, d’intervenire!

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La palma che ha unto i naturali meccanismi del mondo

Quando l’Agnello sciolse il primo dei sette sigilli, vidi e udii il primo dei quattro esseri viventi che gridava come con voce di tuono: «Vieni». Ed ecco mi apparve un albero di palma e da esso pendevano frutti rossi. Quindi gli fu data una corona e poi esso crebbe vittorioso, per crescere ancora. Terribile verità: non tutte le Apocalissi si presentano inizialmente come tali. Vi sono circostanze, o sequenze di eventi, che appaiono benevole sott’ogni possibile aspetto; finché non monta il serpeggiante sospetto, da parte dei soggetti a tale iniqua negazione dell’essere, che ogni cosa abbia smesso per andare verso il bene. Ed è allora, in genere, troppo tardi per imboccare la strada del ritorno. Sappiate dunque oh poveri umani, che il nome era è resta Elaeis guineensis, sebbene non sia questa l’unica, tra tutte le piante appartenenti alla famiglia delle Arecaceae, ad essere sottoposta ad un processo di spremitura dei propri frutti e la stessa sommità del tronco, finalizzati a creare un ulteriore, semi-trasparente tipo d’oro dei nostri tempi. Ovvero olio, ottimo tra gl’ingredienti, risorsa utile non solo per cucinare, ma anche creare un’amalgama, donare consistenza, far spostare i veicoli alimentati a biodiesel. Particolarmente a partire dal fatidico 2007, quando gli Stati Uniti vararono la fatale legge per l’Indipendenza Energetica e la Sicurezza, finalizzata a liberare per quanto possibile l’industria dei trasporti dalla dittatura economica del petrolio mediorientale, riconosciuta come un punto di svolta nella diffusione su larga scala della monocultura intensiva finalizzata alla produzione dell’olio di palma.
Un fenomeno che getta le sue più profonde radici, tuttavia, nei trascorsi della gastronomia salutista a partire dalla metà degli anni ’90, quando fu determinato improvvisamente come il principale antidoto all’obesità e il colesterolo globale, la margarina che aveva sostituito il burro in molti ambiti della produzione su larga scala di cibo, potesse in realtà esser ancor più lesiva ai danni del nostro organismo già in fase borderline. Ciò in funzione della genesi insospettata, durante la processazione dei suoi ingredienti di origine vegetale, di una grande quantità di acidi grassi insaturi, normalmente chiamati in lingua inglese trans fats. Venne così l’irripetibile giorno, in Europa e negli Stati Uniti, in cui tutte le fabbriche di cibo in scatola, dolci, cioccolatini spensero per un’intera giornata le proprie catene di produzione. Affinché l’intero contenuto delle vasche di preparazione potesse essere sostituito dalla nuova, mistica sostanza. Caratteristica dei demoni è quella di avere molti nomi e sotto questo punto di vista, l’attraente fluido ricavato dal frutto di un tale albero non fa certo eccezione: oltre 200, ne possiede, molti dei quali poco più che un numero accompagnato ai termini “emulsificatore” o etilene-glicolo” e soltanto il 10% dei quali contenenti il termine chiarificatore di “palma”. Il che fa testo non soltanto per quanto riguarda il recente ma enfatico intento di nascondere la sua presenza in determinati prodotti al grande pubblico, ma soprattutto l’inerente straordinaria versatilità di un simile ingrediente, che arriva persino ad essere usato anche al posto del sego di origine animale in un grande numero di saponi e detersivi. In un’alone di segretezza che trova la sua principale ragione d’esistenza nella percezione vaga, riuscita a permeare il senso comune, che l’olio di palma sia un Grande Male dei nostri giorni, sebbene siano sorprendentemente poche, le persone che giungano in fin dei conti ad interrogarsi sull’effettivo perché. Questo nonostante i tre paesi che vantano il più intenso effetto deleterio nei confronti dell’effetto serra siano i due più vasti e industrializzati della Terra (Stati Uniti e Cina) subito seguiti dalla relativamente rurale, non troppo avanzata nazione isolana dell’Indonesia. Non per il fumo costante proveniente da un certo numero di ciminiere, bensì tutt’altro tipo di fuoco, probabilmente destinato a non spegnersi fino all’ultimo dei nostri tragici giorni…

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La grande sete di Palo Verde, tripla oasi nucleare nel deserto dell’Arizona

“Portate quindi il vostro cibo, la vostra acqua, i vestiti e le altre risorse necessarie alla sopravvivenza, poiché nulla sopravvive nell’arido entroterra delle sabbie senza tempo… A meno che riesca a farlo contando unicamente sulle proprie forze.” E così fu, attraverso il lungo corso delle epoche nella storia; genti nomadi o stanziali, indifferenti all’ardua regola della natura, prosperarono con quieta ostinazione, costruendo quell’insieme di strutture che hanno nome collettivamente “Civiltà”. Al sopraggiungere dell’epoca moderna, tuttavia, i deserti sembrerebbero aver perso il proprio scopo primordiale; poiché quando tutto è connessione, integrazione, schema collettivo del villaggio globale, quale può essere lo scopo di ammantarsi della solitudine del mondo, andando a vivere in mezzo ai roadrunner e le lucertole di Gila? Finché sorse a un paio di generazioni a questa parte, sotto l’occhio dello spettatore e della storia, il nome di una direttiva domeinante: NIMBY, “Not In My Backyard” (Non nel mio cortile!) Il sentimento collettivo per cui bella è l’energia pulita, costante, significativa. Ma del resto qui tutti ricordano la fusione parziale del nocciolo a Three Mile Island; per non parlare del terribile disastro, più distante ma non certo meno grave, della centrale Lenin presso quel di Chernobyl, Ucraina. Ecco quindi nel distante 1973, prendere per la prima volta forma l’idea. Di una centrale in grado di essere non solo la più imponente & significativa degli Stati Uniti (in un paese che ne possiede quasi un centinaio) ma soprattutto statisticamente incapace di subire incidenti significativi, data la collocazione a ben 72 chilometri dalla città di Phoenix, Arizona e molto più… Da qualsivoglia altro centro abitato degno di questo nome. Circondata dall’assoluto nulla in ogni direzione e finché riesca a spingersi lo sguardo degli umani. Così Palo Verde fu il suo nome, dal toponimo di origine spagnola in uso per questa regione, quando finalmente venne inaugurata nel gennaio del 1986, sotto la supervisione della società dell’Energia del Servizio Pubblico dell’Arizona che l’ha in gestione tutt’ora e con l’aiuto della compagnia ingegneristico-architettonica Bechtel Power di Norwalk della California. Tre reattori da oltre 1300 MWe di emissione ciascuno, costruiti in modo inusuale al fine di essere del tutto indipendenti l’uno dall’altro in materia di raffreddamento e operatività, per condividere soltanto i servizi offerti dalle strutture di supporto ed assistenza, collocate al centro del complesso in grado di vantare un’estensione complessiva di 1.600 ettari. Di sicuro, un obiettivo non così arduo da raggiungere quando si hanno a disposizione i vasti spazi che caratterizzano l’entroterra americano, benché essi non risultino inerentemente privi di un fondamentale problema: ci avevate mai pensato? Quasi nessuna grande centrale nucleare sorge, in alcun paese del mondo, lontano da laghi, fiumi o le rive dell’oceano. Questo perché sviluppare la fusione di quei carburanti, riuscendo faticosamente a mantenerla sotto controllo, comporta un impegno significativo e costante, sostenuto da copiose quantità del fluido che costantemente sacrifica se stesso, evaporando al fine di tenere i gradi sotto ad un livello ragionevolmente controllabile dall’uomo. Il che ci porta, senza significative esitazioni, al punto cardine della questione…

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Tremila metri sotto il Sudafrica, alla ricerca dell’ultimo grammo d’oro

L’oro: il metallo più prezioso nell’immaginario collettivo, sebbene ve ne siano di più rari, utili o funzionali a far fruttare un investimento. Lo sanno fin troppo bene, loro. Ma c’è un fascino immutabile, in ciò che può essere facilmente plasmato eppure non subisce gli effetti del tempo, non viene corroso, né subisce variazioni quantitative durante il riutilizzo successivamente alla fusione. A patto, s’intende, di potersi fidare di colui che lo lavora. Un tesoro assai più raro di quanto saremmo comunemente indotti a pensare, soprattutto rispetto a materiali facilmente estraibili come i diamanti, laddove tale oggetto del desiderio si trova in natura normalmente associato ai filoni di quarzo, tra le rocce ignee e metamorfiche che furono infiltrate dall’acqua di antichi oceani ormai rimasti privi di un nome. E in un mondo in cui per secoli e millenni plurime generazioni di minatori hanno passato una vita con in mano gli strumenti del mestiere, alla ricerca di un difficile sentiero verso l’arricchimento personale, sembrerà talvolta che ogni ultima possibilità sia stata sfruttata, qualsiasi vena a cui l’uomo potesse accedere dietro un investimento di risorse ragionevole sia andata incontro all’esaurimento. Benché l’opera dei nostri progenitori, di suo conto, non sia priva di effettivi lasciti, oltre a quelli intangibili che pesano sulla cultura e l’economia; così che dov’essi avevano scavato, i loro figli hanno continuato a farlo, e così i nipoti. Fino alla creazione, tra gli altri, di un caso estremo come i West Wits, il campo minerario situato a poca distanza dalla città sudafricana di Johannesburg dove hanno luogo alcune delle miniere più profonde al mondo.
Con nomi come Mponeng (“Guardami”) e TauTona (“Il Grande Leone”) nelle lingue delle antiche popolazioni locali, a cui tali depositi erano già noti, sebbene fossero in origine decisamente più accessibili da parte di opere estrattive a conduzione poco più che familiare. Prima che qui giungessero i macchinari e le maestranze della Ashanti Corporation, fondata in Ghana nel 1897 e destinata a diventare nel giro di pochi anni una delle compagnie estrattive più influenti e ricche al mondo, fino alla fusione, destinata a compiersi oltre un secolo dopo, con la AngloGold per una resa annuale misurabile in milioni di miliardi, visto come basti effettivamente estrarre 0,35 once da un’intera tonnellata di roccia, per poter riuscire a generare un profitto. Non c’è molto da sorprendersi, dunque, se lo scavo in questi luoghi fu condotto senza nessun tipo di risparmio, verso l’ottenimento di quelle che possiamo oggi definire, senza dubbio alcuno, le voragini più profonde mai scavate dall’uomo. Fatta eccezione per l’esperimento del foro di Kula o altri tentativi di trivellazione per scopi scientifici, comunque tanto stretti da non permettere la discesa da parte degli umani. Mentre le miniere sudafricane, di contro, riescono ad ospitare delle vere e proprie città dove non batte la luce del sole, con i loro governanti, mezzi di trasporto e regole completamente diverse da quelle della superficie . É perciò un mondo inaccessibile nonché crudele, quello descritto nei brevi e occasionali articoli scritti sull’argomento sulle testate internazionali, che parlano di tunnel da temperature superiori ai 60 gradi che richiedono l’impiego costante di speciali impianti di raffreddamento e i cosiddetti “minatori fantasma”, uomini disperati, spesso armati fino ai denti con fucili a ripetizione e granate incendiarie fatte in casa, che si nascondono in sezioni ormai chiuse della miniera, spesso con il beneplacito o l’impotenza dei lavoranti legittimi, per accumulare piccole ma significative quantità del desiderabile pegno di opulenza creato dalla natura. Al fine di condurlo a distanza di settimane o mesi, a patto che riescano a sopravvivere ai gas venefici e il costante rischio d’incendi, nelle spietate grinfie dei loro mandanti e padroni. Mentre l’opera di scavo inarrestabile continua, all’inseguimento di un tesoro spesso misurabile in pochi centimetri di giacimento, la coda ormai distante delle antiche sale di una mitica Eldorado africana…

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