Di corna impavide su cime ataviche, così ama vivere la caprecora Tibetana

Quando conosci ogni sentiero della montagna, se hai la dote implicita di consumare piante appena commestibili, con massimo profitto. Se l’aria rarefatta non riesce a scoraggiarti e l’incombente nebbia non riesce a penetrare il tuo fitto manto ricoperto d’olio; allora l’alta quota, e tutto ciò che questa comporta, potrà essere davvero il Paradiso. Fuori portata dalla maggior parte dei più minacciosi tra i predatori. Fatta eccezione per l’uomo, s’intende. D’altra parte il takin o Budorcas taxicolor, magnifico bovide dall’aspetto caprino sul remoto tetto del mondo, è un’imponente creatura dal peso medio di quattro quintali (che può arrivare, in casi specifici, anche a una tonnellata) il cui manto è apprezzabile a tal punto da aver potuto costituire, in base ad alcune teorie, l’origine del mito ellenico del Vello d’Oro. Forse procurato su mandato degli Dei, per un tramite di misteriosa provenienza, proprio dalla particolare sottospecie B.t. bedfordi, la cui colorazione esula più d’ogni altra dall’origine termine d’identificazione latino, significante di contro “del colore di un tasso”. Così come caratteristico delle altre tre varianti, ciascuna situata in una differente regione limitrofa ai picchi dell’Himalaya, con una diversa gradazione cromatica o proporzionamento delle rispettive membra. Ma tutte egualmente, per una ragione o per l’altra, considerate vulnerabili dagli indici degli animali a rischio, con un occhio di riguardo nei confronti del B.t. tibetana o takin del Sichuan, da tempo immemore sottoposto a caccia non sostenibile e per questo rigorosamente vietata in base alle normative odierne. Pur senza poter contare dello stesso carisma ed immagine internazionale del suo compagno d’habitat maggiormente famoso, l’inconfondibile panda gigante. Creatura ursina la cui prima osservazione di un consumo di carne, attività rara ma comunque attestata dalla scienza, la vedeva sgranocchiare per l’appunto una carcassa di questo notevole ruminante. La cui classificazione tassonomica risulta fin dalla prima descrizione scientifica (Hodgson, 1850) tutt’altro che scontata, visto il possesso di multiple caratteristiche apparentemente prese in prestito da differenti rami dell’albero della vita. Con corna d’antilope, manto di un bue muschiato, agilità di una capra, proporzioni bovine e un muso bombato che pare la caricatura di quello di un’alce. Tanto che il naturalista George Schaller, nella seconda metà del secolo scorso, l’avrebbe definita come una versione “punta da un’ape” dell’iconica creatura canadese. Laddove la vistosa forma sovradimensionata dei seni nasali dell’animale, così come ogni altra sua caratteristica, costituisce uno specifico adattamento ai suoi ambienti di provenienza, funzionale al riscaldamento dell’aria prima d’immetterla all’interno dei suoi polmoni. Un’accorgimento dell’evoluzione, a dir poco, ingegnoso…

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Il mondo rivelato della telecamera lanciata da una nave da crociera nel Mediterraneo

La più tenue e labile speranza, l’unico strumento utile per ritrovare infine la via di casa: il filo d’Arianna, mitologico implemento utile alla navigazione dell’insidioso Labirinto cretese. Ed è questa la funzione, fondamentalmente, di un moderno cavo di recupero, saldamente assicurato ad una parte solida della struttura sopra cui ci troviamo. Ovvero il grattacielo sdraiato, l’orizzontale resort semovente d’una ponderosa nave da crociera dei nostri giorni. Luogo di lavoro e al tempo stesso funzionale prigione dorata, per persone come Odysseas Froilan, il tecnico marittimo impiegato da diverse compagnie greche tra cui la Celebrity Cruises, Inc. a partire dall’anno 2019. Esperienza durante la quale, in un frangente destinato a diventare celebre, decise l’anno scorso di procedere così: gettando la sua ottima e preziosa telecamera digitale subacquea oltre il parapetto della nave. Ma non prima di aver disposto il necessario per poterla riportare a bordo… Due volte. Una di giorno e l’altra successivamente al sopraggiungere dell’oscurità serale, per meglio ottenere l’effettivo trasferimento al contesto attuale del suo storico passatempo. Sto parlando come desumibile da un rapida ricerca del suo nome online, di riprendere il mondo naturale del suo splendido paese e non solo. Riuscendo a trarne materiale dai palesi meriti professionali e qualche volta, addirittura, totalmente unico nel suo genere di rappresentanza. Osservate dunque, assieme a lui, l’obiettivo che scavalca la murata e scende giù costeggiando lo scafo, fin oltre la linea di galleggiamento. Per poi giungere a inquadrare brevemente il bulbo di prua, soltanto pochi attimi prima che si verifichi l’inevitabile evento. Ecco palesarsi, dunque, la scattante forma oblunga di un crudele barracuda o luccio del Mediterraneo, probabilmente appartenente alla specie Sphyraena viridensis (non che l’unica possibile alternativa, lo S. Sphyraena, possa risultare facile da distinguere in queste particolari circostanze) prevedibilmente ed immediatamente attratto dalla scintillante forma penetrata ai margini del suo campo visivo. L’occhio attento scrutatore e quella bocca semi-aperta ingombra di zanne aguzze, di concerto, utili a comunicare ciò che fondamentalmente avremmo già potuto immaginare in autonomia: “Vieni qui di persona la prossima volta, umano. E ti farò conoscere il destino di chiunque intenda sfidare le regole non scritte degli abissi”. Ma è null’altro che un fugace momento, quello caratterizzato da una simile impressione, mentre il punto di vista continua la sua inarrestabile discesa finché non si trova a pochi metri dal fondale. Per trovarsi ad inquadrare, sorprendentemente, la catena di metallo dell’imponente ancora del vascello, così pesantemente dislocata tra la sabbia di un fondale dolorosamente ed irrimediabilmente cambiato. Lunghi solchi che dovrebbero idealmente sanguinare, se l’antica metafora della Terra “vivente” potesse esprimersi attraverso dei fattori esteriori. Benché la vita, con il consueto e pratico senso d’adattamento, continui nondimeno a prosperare, persino adesso, persino in mezzo ad una simile preponderante devastazione…

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Perché occorre controllare che la lingua non abbia gli artigli

Ovvero la crudele legge che vige negli abissi, ovvero la peggior giornata possibile di un pesce, ovvero la zampettante condanna dei sapori che percorrono le alterne strade della fame pinnuta. Riuscite ad immaginare nulla di più terribile? Rispetto a quanto la natura, nella sua infinita saggezza, si è fatta carico di progettare, al tavolo da disegno della lunga evoluzione pregressa. In cui è la sopravvivenza a farla da padrona, senza nessun tipo di rispetto nei confronti dell’estetica o percezione di gradevolezza, che d’altronde corrispondono a pensieri di esclusivo appannaggio della sensibilità umana. Come se gli umani, al posto di siffatte creature, non sarebbero perfettamente inclini a fare di molto peggio. “Ecco, guardami prima che l’apertura si chiuda di nuovo: sono la femmina di Cymothoa exigua o pidocchio mangiatore della lingua. Adesso puoi vedermi, fra poco sparirò di nuovo. Dietro l’uscio di quei denti utilizzati da viventi, l’ittico passaggio per il cibo e… Me.”
L’orrore in questo mondo può senz’altro assumere diverse forme. Poche tra le quali, tanto chiare ed oggettive quanto quella di una timida creatura aliena, nascosta nell’ingresso di un malcapitato sistema digerente. Saldamente abbarbicata là, dove idealmente si sarebbe collocato l’organo del gusto per eccellenza. Che in effetti non è particolarmente simile a un crostaceo come questo ma se lei/lui non è incline a formalizzarsi, perché mai dovremmo fare gli schizzinosi! Dopo tutto, si tratta essenzialmente della linea comportamentale di qualcuno che ha l’intento di serbare il proprio privilegio. Nella scelta di cosa mangiare e cosa, invece, lasciar scendere giù dentro l’esofago della creatura che si è ritrovata a contenerlo. Perché di sicuro, come ogni buon parassita che si rispetti, il pidocchio non vorrebbe mai che la sua casa morisse. Fin da quando, qualche mese prima, vi era entrato in guisa e dimensione di larva o mancae, assieme a vari altri rappresentanti della sua specie. Tutti rigorosamente maschili poiché nessuno nasce femmina, nell’universo circostanziale dell’isopode mangiatore di lingua. Ma ciascuno, purché degno, può aspirare un giorno a diventarlo.
Vita, morte e miracoli, come quello che conduce uno soltanto, tra milioni di spermatozoi, verso l’ovulo splendente che costituisce un simbolo del suo trionfo. Ed allo stesso modo, un occulto mangiatore tra dozzine d’altri, giù dentro la gola ittica e quindi fino all’agognata posizione di preminenza. Dove iniziare, un poco alla volta, a mettere in pratica il gesto terribile da cui prende il nome…

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La pelle morbida e sensibile alla luce della cosiddetta salamandra infernale

Situata negli spazi interstiziali tra le pietre, in mezzo alle acque turbinanti di molti dei fiumi e torrenti rapidi degli Stati Uniti Occidentali, la creatura nota scientificamente come Cryptobranchus alleganiensis ha avuto nel folklore e nel dialogo informale una vasta pluralità di appellativi: lucertola lasagna, diavolo del fango, cane d’acqua, grampus, tritone d’acqua leveriano, alligatore di Allegheny (questi ultimi due mutuati da studiosi del settore). Quello che più di ogni altro si è affermato nel corso degli ultimi due secoli, a partire dalla prima classificazione del 1803, è l’anglofono hellbender, che significa “[salamandra] destinata a far ritorno all’Erebo”, luogo sepolto e popolato dalle anime dei dannati. Un’associazione d’idee potenzialmente giustificabile, almeno dinnanzi all’opinione pubblica, dall’aspetto non molto raccomandabile del grosso anfibio pieghettato, lungo fino a 74 cm dal muso aguzzo fino alla punta della sua coda. Laddove storie si erano moltiplicate, sin dall’epoca remota delle colonie, in merito a pescatori che nelle ore dell’alba e del tramonto si erano trovati a estrarre involontariamente dalle acque il misterioso drago strisciante, subendone un conseguente destino infausto o un qualche tipo d’avvelenamento dovuto al suo morso. Un dettaglio, quest’ultimo, frutto della semplice immaginazione, vista l’assoluta assenza di tossine nella biologia di questo animale, totalmente incapace di nuocere all’uomo. Il che non significa che siamo innanzi a una creatura pacifica, vista la sua natura di efficace ed implacabile predatore, cacciatore notturno di ampie schiere di gamberetti, pesciolini, larve ed esemplari adulti d’insetti. Continuamente catturati mentre si sposta nuotando controcorrente, la bocca a forma di spatola completamente aperta per riuscire a trangugiarne la maggior quantità possibile. Questo grazie principalmente all’utilizzo del proprio senso dell’olfatto eccezionalmente sviluppato, piuttosto che i piccoli occhi poco funzionali, quasi del tutto incapaci di formare immagini e quasi unicamente sensibili alla direzione della luce solare. Un’inclinazione, quest’ultima, più che altro utile a difendersi massimizzando le già significative capacità mimetiche dell’animale, in grado di sparire totalmente nel suo ambiente ogni qual volta ne percepisca l’esigenza, nonostante le dimensioni tutt’altro che trascurabili del suo corpo. Aiutandosi, a tal fine, con l’ulteriore percezione ambientale di particolari organi sensoriali: da una parte la linea laterale, un sistema sul proprio profilo sensibile alle vibrazioni e del tutto simile a quello posseduti da una vasta quantità di pesci, coadiuvata nel presente caso da una prerogativa molto più distintiva della nostra cara salamandra americana. Sto parlando nello specifico della sua capacità di percepire, letteralmente, eventuali fonti di luce dalla superficie pelle stessa, potendo così determinare quanto la pietra elettiva stia effettivamente funzionando al fine di coprire interamente il suo piatto corpo. E non si contano letteralmente i casi, in cui la coda dell’animale sia stata disposta con precisione assoluta mediante tale tipologia d’informazioni, al fine di sparire letteralmente sotto la geometria del suo legittimo fondale d’appartenenza…

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