Guarda che pericolo: una gara con l’incrocio in mezzo

Figure 8 racing

Tutto, nei maggiori sport statunitensi, sembra pianificato per indurre il pubblico al coinvolgimento personale, dalla progressione rituale del Football, in cui le frequenti interruzioni si trasformano in momenti per discutere dell’andamento di partita, alle gare negli ovali della Nascar, fatte di dozzine di sorpassi a giro, in mezzo a un traffico che ricorda quello affrontato dagli stessi spettatori per raggiungere la pista dello show. Eppure basta osservare qualche minuto di questo bizzarro e prestigioso evento in particolare, il World Figure 8 Enduro dell’Indianapolis Speedrome, per notare qualcosa di diverso dal normale. Due giudici di gara in abito scuro, stolidamente immobili sul piedistallo, non fanno infatti che riprendere l’atteggiamento del resto dei presenti: silenzio, raccoglimento, uno stato lieve ed apparente di continua confusione. A giudicare dal modo in cui si muovono le teste al centro dell’inquadratura, viene persino il sospetto che alcuni stiano letteralmente trattenendo il fiato. La ragione…Viene resa subito evidente. Al centro dello stadio che un tempo era sterrato, come un piccolo Circo Massimo, si affollano quasi 30 automobili, intenti in una disfida che sarebbe già impossibile da giustificare con la mera logica, se avesse un andamento consueto ed accessibile: due rettilinei, due curve, una linea del traguardo? Troppo facile, ovvio, scontato. Perché in questo luogo vige la regola del “Sarebbe”. Non **** fantastico, ad esempio, se il percorso designato avesse la forma esatta del numero otto, essendo quindi costituito da due anse intersecanti, con un’ingombrante incrocio ad X esattamente al centro della scena? Sicuramente si, sembra dire l’abitante degli stati dell’Indiana e della Florida, dove simili forme brutali d’intrattenimento sono maggiormente popolari.
Ma il risultato pare uscito da un’antologia della follia applicata al regno degli sport. I veicoli impiegati, agli albori appartenenti alla categoria delle stock cars, ovvero auto di serie, sono state perfezionate per lo scopo nel corso dei lunghi anni in cui tale attività ha continuato a richiamare le folle, presso i piccoli circuiti permanenti, oppure per le sempre popolari county fairs statunitensi, occasioni festive di riunione organizzate da una o più amministrazioni comunali. La sicurezza è stata aumentata, tramite l’inclusione di una rollbar con la forma a doppia T. Tutti i vetri sono stati rimossi, le parti più delicate della meccanica di funzionamento trasferite dentro l’abitacolo, assieme al serbatoio ed alla batteria. Perché naturalmente, gli incidenti sono inevitabili. Quindi, lentamente quanto inesorabilmente, sono aumentate le prestazioni. La tipica gara di banger cars americane, come vengono definiti per antonomasia questi eventi votati all’imprevisto prevedibile, prevede l’impiego di mezzi preparati, con  elaborazioni al motore, perfezionamenti delle sospensioni, gomme professionali e vistosi alettoni posteriori, in grado di sviluppare una certa forza aerodinamica, persino alle velocità relativamente contenute a cui si svolgono simili competizioni. Dico relativamente, perché comunque non è insolito che tra una curva e l’altra tali bolidi raggiungano anche gli 80-90 Km/h, fin al punto catartico del già citato incrocio. Per giungere a trovarsi innanzi ad un dilemma: passare o fermarsi. Naturalmente, per i primi 5 o 6 giri, la situazione non appare tanto grave. Le auto sono ancora raggruppate tutte assieme, e soltanto le prime e l’ultime della fila dovranno dosare attentamente la propria velocità, per evitare l’impatto a T con le avversarie con l’opposto piazzamento. Ma già sul finire del breve video, che mostra l’inizio esatto della corsa (si parte già lanciati) inizia la dominazione del più puro caos. Alcuni che si fermano, inchiodando perché certi di non passarci, mentre altri sfrecciano senza neanche un battito di ciglia, sfiorando i paraurti delle macchine con moto perpendicolare. Certi concorrenti, riununciando a un mezzo giro ormai impossibile da completare, si reimmettono nel flusso trasversale, ripercorrendo un’ansa del circuito ed aumentando il senso di anarchia diffusa. Ma volete sapere qual’è il punto più incredibile? Questa gara dura complessivamente ben 3 ore. Il grado di concentrazione e abnegazione del pericolo che diventano necessari per portarla a termine, a questo punto, appare fin troppo evidente…

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La temerarietà dei droni con telepresenza virtuale

Left Behind FPV

Volando a 65-70 Km/h per le sale di un ospedale abbandonato in Spagna, con il sibilo che sembra quello di un crudele frullatore. Se cercate una sequenza video in grado di farvi abbassare la testa, piegare di lato e attivare artificialmente il vostro senso di vertigine, non c’è probabilmente nulla di migliore sul web che la sessione di uno di questi campioni dell’FPV, disciplina che consiste nel pilotare un quadricottero, o altro velivolo radiocomandato, tramite la prospettiva offerta da un visore stereoscopico sugli occhi. Si, per chi ancora non lo sapesse, viviamo in un mondo in cui è possibile far questo: montare sopra il proprio drone non soltanto la telecamera ad alte prestazioni, da cui trarre un cortometraggio degno di essere mostrato al mondo, ma anche una seconda più piccola, proveniente in via diretta dal mondo della videosorveglianza, progettata per catturare un’immagine più o meno stabile, sufficientemente chiara. E soprattutto, ad una risoluzione sufficientemente bassa da poter essere trasmessa senza eccessiva latenza alla distanza di un grande parcheggio, anche attraverso qualche muretto ed altri ostacoli sottili. Non siamo più in presenza di un semplice ricevitore, quindi, usato per far muovere le superfici e/o i rotori di controllo. Pensate piuttosto al Wi-Fi, che serve a stabilire un flusso di dati reciproci tra due dispositivi, permettendogli d’interagire senza soluzione di continuità. Soltanto che in questo particolare caso, non c’è un provider di servizi. O per meglio dire, tale ruolo è svolto dal pilota.
Si tratta di una versione di quest’hobby in forte crescita che si distanzia dal quotidiano, almeno meno quanto riesce a farlo la guida su pista dal semplice tragitto casa-lavoro. Tanto per cominciare, in funzione delle prestazioni dei mezzi coinvolti, facilmente in grado di raggiungere velocità degne di un automobile, consumando l’intera batteria nel giro di una decina di minuti. E poi per lo sprezzo del pericolo, nel mettere costantemente a rischio quanto si è acquistato a caro prezzo/faticosamente costruito/messo alla prova con cautela preventiva. Il dispendio di parti di ricambio, durante ed a seguito di una sessione come questa, è generalmente piuttosto elevato, per il semplice fatto che più aumentano le doti del pilota, maggiormente costui deve provare a superarsi, affrontando dei percorsi sempre più duri. È uno strano tipo di divertimento, questo che consiste nel mandare al limite i propri dispositivi d’intrattenimento, mettendone a rischio il futuro per qualche minuto d’entusiasmo. In cui naturalmente, il centro d’attenzione non risulta più essere l’equipaggiamento di gioco, ma il gesto in quanto tale.
Proprio per questo si tratta, fondamentalmente, di uno sport. Con tanto di squadre sponsorizzate dalla fama internazionale, sebbene limitata ad un àmbito ancora tutt’altro che di pubblico interesse, o figure emergenti dai diversi campionati di ciascuna stagione, analogamente a quanto fatto nell’ultimo anno dall’autore del presente video, il celebrato e audace Charpu. E che sport, il suo: di quelli basati su dei presupposti imprevedibili, che compaiono talvolta nei film del fantastico moderno, come un Quiddich con l’aggiunta del tocco cyberpunk che non guasta mai. Trasferire temporaneamente il proprio senso della vista a bordo di una scheggia lanciata tra gli stretti ed articolati corridoi di un edificio in rovina: difficile immaginare qualcosa di concettualmente più estremo, ed al tempo stesso, non rischioso per alcuna delle parti (biologiche) coinvolte. Mentre ancora le foglie smosse dal passaggio del bolide non hanno avuto modo di toccare terra, potrebbe palesarsi l’inevitabile domanda: quanto costa cominciare? La risposta potrebbe risultare alquanto sorprendente…

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Un miraggio planetario nel deserto del Nevada

Solar System Model

Sembrano gridarlo ai quattro venti, renderlo palese con la forza dei propri semplici gesti: tutto quello che pensate di sapere sul Sistema Solare, non è proprio Sbagliato…Ma nemmeno utile a costruirvi un visione che risponda alla realtà. E la colpa, se vogliamo, è tutta degli illustratori che ci hanno portato, in anni ed anni di abbellimenti visuali, verso quel modello: la grande sfera fiammeggiante al centro. Una, due, tre, quattro palle dalle dimensioni molto minori, separate l’una dall’altra per lo spazio di qualche centimetro a dir tanto (Mercurio, Venere, Terra, Marte) ed altre quattro invece, dalle proporzioni medie, nonché vivacemente colorate: Giove, Saturno, Urano, Nettuno. Se conservate poi un ricordo del periodo antistante al 2006, a questo club ristretto si sarebbe aggiunto il “piccolo” Plutone, oggi declassificato a pianeta nano, poiché parte in realtà della lunga serie di oggetti rocciosi che formano la cintura asteroidale di Kuiper, analoga a quella interna della fascia principale. E persino lui così azzurrino (chissà poi perché) nel trionfo del paradossale, sarebbe stato lì, con l’ellisse del suo moto alla distanza media di 6 milioni di Km dal Sole circa, forse giusto un po’ di lato, su quel foglio. Messo, al massimo, lievemente in disparte. Il che non sarebbe stato un grandissimo problema, se almeno la rappresentazione convenzionale dell’intero meccanismo fosse in scala. Ma il fatto è che le vertiginose distanze che separano ciascuno di questi corpi, nella loro danza gravitazionale, è così estesa da sfuggire a degne rappresentazioni. Se volessimo raffigurare le distanze rilevanti, i pianeti dovrebbero essere puntini o al massimo cerchietti, e la pergamena usata per raffigurarli, srotolabile, fino alla lunghezza di diversi metri di assoluto nulla. Proprio per questo, le migliori rappresentazioni sono quelle digitali. Però talvolta, stanchi di guardare luci fittizie riprodotte dentro a un monitor, viene anche la voglia di dare una forma fisica a quanto descritto fino ad ora: il vero volto del Sistema. Più che altro perché, utilizzando un punto di osservazione inserito all’interno di un modello in scala, si potrà provare l’emozione di osservare ciascun elemento costituente, alla dimensione relativa che esso veramente avrebbe, nel corrispondente punto dello spazio interplanetario.
Ciò significa, come sapientemente dimostrato verso il termine del video di Wylie Overstreet ed Alex Gorosh, To Scale: The Solar System, che qualcuno potrebbe mettersi vicino a quella biglia che è nella finzione il pianeta Terra. Mentre il suo amico solleva in alto, con gesto teatrale, il mega pallone da spiaggia usato per il Sole. Mentre quest’ultimo, sapientemente manovrato, coprirà perfettamente il disco della nostra stella sopra l’orizzonte, nella perfetta riproposizione di un’eclisse fatta in casa, totalmente soggettiva quanto degna di essere narrata. Il concetto non è, in realtà, del tutto nuovo. Di modelli accuratamente proporzionati del nostro vicinato cosmico ne esistono dozzine: nei musei statunitensi, presso le istituzioni di studio e ricerca. Ad Elrlenbach sul Main, nel land della Baviera, ce n’è uno in scala 1:1.000.000.000, con sfere di metallo poste sopra grandi piedistalli. Il Sole, naturalmente, è dorato. L’università del Colorado vanta un progetto che si estende per l’intero campus, dal planetario di Fiske fino al termine del viale Regent Drive. Qualche volta, tali creazioni diventano dei veri monumenti, con ciascuna sfera montata in alto sulla strada, dislocata lungo uno spazio tra una città e l’altra, come fatto nell’esemplare vantato dallo stato del Maine, che misura complessivamente ben 64 Km e mezzo, dalla comunità di Presque Isle ad Houlton, sul confine con il Canada. Mentre il più imponente di simili costrutti si trova in Svezia, lungo diverse città presso la costa del Mar Baltico. Il Sole, qui, è rappresentato dallo stadio ad emicupola dell’Ericsson Globe, il più grande edificio del suo tipo, mentre i diversi pianeti sono attraenti opere commissionate ad artisti di fama, ciascuna nell’esatta scala di 1:20.000.000. Pensate, per iniziare a rendervi conto delle distanze relative, che i quattro pianeti del Sistema interno sono tutti a Stoccolma, mentre gli altri si trovano ad Uppsala (73 Km dal Globe) Gävle (143 Km) Söderhamn (229 Km) e così via. Per rispettare le dimensioni relative, quindi, la terra misura 65 cm di diametro, mentre Plutone appena 12. Il modello da due metri e mezzo di Urano, per motivi forse dovuti al doppio senso del suo nome, è stato più volte vandalizzato.
Ma il fatto è che qualsiasi ricostruzione di questo tipo, per sua inerente necessità, deve sempre fare i conti con le distrazioni dell’ambiente circostante: strade, lampioni, edifici… Mentre nell’idea di questi due autori, si è cercato di fare un qualcosa di totalmente diverso: il più piccolo modello che fosse anche osservabile da lontano, collocato in uno dei luoghi maggiormente affini al vuoto cosmico che abbiamo sulla Terra: il vecchio bacino endoreico (ex-lacustre) del deserto Black Rock, a decine e centinaia di chilometri dal più vicino centro abitato.

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L’incendio che fu spento con l’atomica da 30 kilotoni

Urtabulak

Fu certamente per l’effetto di una crudele ma simbolica ironia, che la più terribile guerra nella storia dell’umanità dovesse terminare con la coppia di esplosioni più potenti che fossero mai state indotte prima di allora. Hiroshima, Nagasaki: due nomi destinati a rimanere tristemente nella storia, già quando nell’agosto del 1945, sul concludersi della sanguinosa campagna del Pacifico, l’intero mondo si ritrovò improvvisamente, almeno in parte, giapponese. Furono in molti allora, persino tra i capi di stato induriti dai lunghi anni di sanguinose battaglie, a deprecare un tale duplice gesto, che dimostrava senza alcun dubbio residuo gli abissi della distruzione a cui poteva tendere l’ingegno travisato, sospinto innanzi dal bisogno di far tacere le bocche degli altrui cannoni. Ma soltanto quando furono rese pubbliche le testimonianze dei sopravvissuti, si giunse a comprendere la reale portata di una tale pirotecnica dimostrazione di forza: le ustioni, i cancri, la disgregazione degli organi… Con conseguenze fin troppo facili da intuire. Si stima che a seguito di quelle due fatidiche date, 6 e 9 agosto, sarebbero morte all’incirca 246.000 persone, di cui molte in modo orribile e inumano. E talmente shockante fu una tale presa di coscienza, così empatica la reazione dei potenti, che la decisione fu immediata ed unanime: l’unico modo per tenere il mondo al sicuro era…Costruire PIÙ bombe. Affinché ci fosse la certezza, per chiunque avesse nuovamente sfoderato quella spada, che ad ogni azione corrispondesse una reazione Uguale e Contraria, fino all’estinzione reciproca dei presupposti battaglieri. Su tali presupposti prese così l’origine, nel 1946, l’ufficio sovietico KB-11, dedito alla ricerca d’impieghi bellici per il fenomeno della fissione nucleare. RDS-1, 2, 3…Fino al 37: questi furono i codici operativi dati, tra gli anni ’40 e ’50, alla lunga serie di test effettuati con successo dal più grande paese comunista, culminanti con la detonazione del 30 ottobre 1961, della cosiddetta Bomba dello Zar, un gigantesco ordigno all’idrogeno da oltre 50 megatoni, il singolo strumento più potente mai costruito sul pianeta Terra. Fatto decollare dalla remota penisola di Kola, a bordo di un aereo che dovette rinunciare, per riuscire in qualche modo a contenerlo, a chiudere le porte della propria stiva, a ulteriore conferma della sua suprema inutilità. E che venne fatto cadere verso il suolo tramite l’impiego un paracadute ritardante, affinché non mietesse anche colui che era stato chiamato a sganciarlo in mezzo al nulla, per la maggiore gloria percepita della Madre Patria, il pilota Andrei Durnovtsev. L’esplosione fu così terribile che l’intero villaggio preventivamente evacquato di Severny, sito a 55 Km dal punto colpito, venne letteralmente raso al suolo, mentre anche a centinaia di chilometri, tetti furono divelti, porte scardinate, finestre facilmente infrante. Non che gli osservatori all’altra parte degli oceani, nel frattempo, fossero disposti a starsene da parte.
Fu un sentiero fatto di scoperte, progressivi balzi in avanti nel progresso della tecnica. Utilissime e complesse sperimentazioni. Benché apparve ben presto evidente che qualunque bomba atomica, non importa quanto piccola o grande, sarebbe bastata per dare fuoco alle polveri, costringendo alle temute ritorsioni di reciproco annientamento. L’unico modo per avere un maggior peso nei rapporti internazionali, dunque, diventava disporre di un vantaggio evidente nei propri presupposti distruttivi. Ovvero, bisognava togliere le bombe ai nemici. Si, ma come? La risposta fu tanto semplice da poter apparire, dal nostro punto di vista ormai remoto, quasi infantile: trovarsi d’accordo per iscritto. Il “Trattato sulla messa al bando parziale dei test” [nucleari, ovviamente] venne stipulato a Mosca nel 1963, poiché trovava almeno in linea di principio, il suo principale promotore e sostenitore proprio nel premier Nikita Chruščёv, gli storici ipotizzano, per prendere tempo e raggiungere il nemico americano, a quei tempi sensibilmente più avanti sul sentiero della ricerca e sviluppo. Entrambe le superpotenze presenti al summit, tuttavia, si trovarono d’accordo in un fatto estremamente rilevante: che qualsiasi commissione di supervisione internazionale, o reciproca ispezione, sarebbe stata terreno fertile per lo spionaggio, e che dunque i rispettivi dipartimenti tecnici dovessero regolarsi autonomamente sulla base della propria coscienza. Non è magnifico, tutto ciò? Se non altro, ciò fu utile a spostare i siti dei test in luoghi sotterranei, salvando le comunità periferiche dei due paesi, che a più riprese erano state colpite da venti carichi di particelle mortifere, quando non proprio dall’onda d’urto delle bombe di prove, come nel caso già citato della Bomba Zar.

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