Sembra un giocattolo. La bacchetta di Harry Potter. Una sorta di fidget spinner, l’oggetto che una volta stretto tra i palmi delle mani, viene fatta roteare velocemente, prima di prendere il volo come un elicotterino. Oppure un’ammazzazanzare che avendo preso una folata di vento, si è rigirato in parte su se stesso, formando l’accenno di una spirale. Eppure, se voi foste stati uomini o donne di Beopseongpo, villaggio costiero nella provincia di Jeollanam-do durante la media dinastia Joseon (XV-XVI secolo) l’avreste tenuto in alta considerazione, come strumento principale della vostra serenità economica e il ruolo sociale ereditato. L’attrezzo dei pescatori appartenenti al popolo, che non avevano paura di immergersi nei fiumi o salire su una zattera, entrambe prassi che un nobile o un funzionario non avrebbero mai neppure pensato di fare allora. Ma c’è un detto in Corea: “In autunno, anche i ricchi scendono a lavorare nei campi.” Ed è così che attraverso i secoli, l’attrezzo da pesca gyunji è stato sdoganato come prezioso patrimonio culturale, simbolo di una tradizione tipica di questa penisola che sembra ormai strano dirlo, ma un tempo fu saldamente unita. Chiunque abbia studiato i paesi dell’Estremo Oriente, ben conosce questo problema: in mancanza di specifici approfondimenti, la terra al di là dei Picchi del Diamante viene a malapena menzionata, come “Una via di mezzo tra Cina e Giappone” oppure il tramite passivo di arti, mestieri e religioni dal continente verso l’agognato arcipelago del Sol Levante. Niente potrebbe essere più errato. Poiché le genti di origine siberiana da cui discese questa nazione avevano una loro visione del mondo, una diversa scala di valori e un particolare metodo di approcciarsi ai problemi. Attraverso le epoche, questo metodo diede i suoi frutti nei più diversi campi dello scibile e le attività umane. Uno di questi, fu la pesca tradizionale Gyeonji.
Nessuno potrebbe mettere in dubbio che Jung-Hoon Park, il pescatore mostrato ed intervistato dal sempre ineccepibile canale Great Big Story, sia un abile rappresentante di questa categoria operativa. Mentre una volta immerso nel fiume di Hadong. nell’omonima contea dell’estremo meridione, prepara il campo per la pesca secondo i precisi passaggi previsti dalla tradizione. In primo luogo, pianta nel basso fondale il bastone da passeggio soo jang dae, dal quale fuoriesce un lungo filo da pesca. Al quale è stato legato un sacchetto di pietre chiamato salmang, il cui ruolo è quello di agire da punto di ancoraggio, ma non solo. Alcuni pescatori vi attaccano infatti il retino per contenere i pesci o le esche, mentre altri ancora, inseriscono al suo interno una certa quantità di mangime per pesci, che in breve tempo verrà trasportato dalla corrente al livello del fondale. Questa tecnica dell’esca granulare, usata altrove più che altro per gli squali, è considerata molto importante nel Gyeonji coreano, al punto il pescatore ne rilascerà dell’altra direttamente dalla sua mano, mentre si appresta a lasciar scivolare nell’acqua la lenza principale, anch’essa dotata di un qualcosa di finalizzato ad attrarre il pesce, come un verme o una mosca artificiale (sono previste entrambe le alternative). Non c’è lancio in questa disciplina, che prevede invece che l’amo venga allontanato dalla semplice corrente. La strana “canna” del resto, se così vogliamo chiamarla con i suoi circa 30-40 cm di lunghezza, è troppo corta per fungere a tale scopo. Non c’è nient’altro, tuttavia, che non possa fare: la gyunji è infatti maneggevole, straordinariamente resistente, e può svolgere anche la mansione del mulinello. Tutto ciò che Jung-Hoon deve in effetti fare, nel momento in cui la carpa di fiume puntualmente abbocca, è iniziare ad attorcigliare il filo attorno alla caratteristica testa dell’oggetto, affinché lo spazio di manovra del pesce risulti sempre minore. Per poi coglierlo, alla fine, mediante il retino. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ci sono stringenti limiti alla dimensione massima della preda catturata con questo sistema. L’attrezzo viene infatti realizzato in resistente bambù, o nel mondo moderno grafite o altri metalli dall’alto grado di resistenza, al punto di piegarsi durante l’impiego, per poi tornare sempre, immancabilmente, alla sua forma originaria. Mentre durante l’inverno, grazie al suo alto grado di maneggevolezza, diventa l’ideale per pescare i piccoli pesci bingeoh attraverso il ghiaccio, che secondo la tradizione vengono mangiati crudi con il condimento di un impasto rossastro al peperoncino. Una soluzione talmente pratica che verrebbe in effetti da chiedersi come mai, non facciamo anche noi così…
Orologiaio ricostruisce la misteriosa macchina di Anticitera
La precisa percezione dello scorrere del tempo è uno dei più preziosi tesori che l’umanità possa aspirare a possedere e ciò è vero adesso, come un paio di migliaia di anni fa. Immaginate di essere un greco dell’epoca ellenistica, tra uno e due secoli prima della nascita di Cristo. E che qualcuno vi chieda, all’improvviso, quando saranno le prossime Olimpiadi. Rispondereste subito, giusto? Che cosa ci vuole, a tenere conto di un periodo di quattro anni? Già, che cosa ci vuole… Basta contare i giorni l’uno dopo l’altro, tracciando altrettanti segni su una parete sul retro del tempio, diciamo di Zeus. Fatta eccezione per il piccolo problema di che cosa accadrebbe, se soltanto un giorno il sacerdote mancasse l’appuntamento con tale sacro dovere. E questo senza neppure tenere conto del problema di quegli altri del tempio di Apollo, che notoriamente tengono il loro personale conto, il quale potrebbe risultare addirittura… Diverso. E adesso immaginate di essere, in quell’epoca remota, un uomo di scienza. Presso cui i potenti si recavano, ordinatamente, per conoscere la verità. Ora, potrebbe sembrare strano parlare di un tale concetto, in un’epoca in cui il metodo sperimentale era conosciuto solamente in maniera superficiale, attraverso alcuni degli scritti del grande Aristotele, che l’aveva impiegato in alcuni celebri frangenti. Ma non servono ulteriori 10 secoli di cultura per comprendere, commentare e interpretare l’Universo. Sopratutto non servono, per tradurre le proprie osservazioni tramite l’impiego della tecnologia. Basta girare la manovella di un astrolabio, seguendo con lo sguardo il moto delle sue lancette. E il più antico di tutti gli astrolabi giunti fino a noi, è molto più antico di quanto si potrebbe essere propensi a credere. Per quanto ne sappiamo, non è detto che sia stato il primo.
La scoperta risale al 1900 esatto, quando un gruppo di pescatori di spugne greci, tuffandosi a largo dell’isola di Anticitera (vedi titolo) si trovarono di fronte a un qualcosa di decisamente inaspettato: il relitto di una nave romana, con tanto di scheletri dei defunti, monete, gioielli, statue e un assortimento di altri oggetti preziosi. Si trattava, secondo una delle teorie più accreditate, di un carico di bottino sottratto dal regno del Ponto, che stava venendo riportato verso la capitale per celebrare il trionfo del generale Lucio Licinio Murena su re Mitridate VI. Compresa la palese importanza della scoperta, quindi, iniziarono subito a recuperare i reperti, non mancando poi di avvisare il museo nazionale di Atene, che immediatamente completò l’operazione e trasportò nel suo centro di studio ed analisi l’incredibile contenuto della nave. Per due anni interi, quindi, continuò il lavoro di restauro, mentre in un angolo del vasto repertorio restava, a prendere polvere, quella che sembrava in effetti essere una semplice roccia, recuperata per chissà quale motivo. Finché nel 1902, l’archeologo Valerios Stais non fece notare che c’erano tracce di legno semi-fossilizzato e un ingranaggio di bronzo dentro. “Impossibile!” Convennero istantaneamente i colleghi. “Qualcuno vuole prendersi gioco di noi. Come è possibile che attorno al 100 a.C, fosse stata costruita una macchina la cui complessità non avrebbe avuto pari nel mondo fino al 1400, 1500 del primo Rinascimento?” Rifiutandosi di accettare una simile assurda ipotesi, gli studiosi abbandonarono ogni proposito di approfondimento. Tuttavia, l’oggetto esisteva, mentre una spiegazione, no. A gettare nuova benzina sul fuoco della comprensione ci avrebbe perciò pensato l’archeologo Derek J. de Solla Price, soltanto nel 1951, quando stilò alcuni spunti di analisi, ma soprattutto 20 anni dopo, con l’invenzione della macchina ai raggi X. Perché fu allora che Price, assieme al tecnico Charalampos Karakalos, realizzarono uno schema preciso degli 82 frammenti in cui era stata suddivisa la macchina, iniziando a comprendere la sua vera, spropositata complessità.
Turisti scovano le astronavi sovietiche perdute
Ci vuole coraggio. Occorre fegato, per mettersi alla guida di un SUV al fine di inoltrarsi parecchie centinaia di Km nelle steppe desertiche del Kazakhistan, verso il brullo sito in bilico tra il fiume Syr Daya e il grande lago in via di prosciugamento del mare di Aral. Per eludere nella notte le pattuglie e sconfinare in una delle più vaste zone militarizzate al mondo parcheggiando, infine, a ridosso delle trappole trinciapneumatici, proseguendo a piedi nella notte dell’Asia centrale soltanto per raggiungere un vastissimo, cubico edificio. E tentando di non far rumore, strisciare fino a un’apertura nelle pareti rovinate, giù per una scala dismessa, finché la propria torcia non illumina di lato lo spropositato oggetto di cui si era alla ricerca. Un grosso aereo, lungo 36 metri e pesante a vuoto 42 tonnellate, dalla forma tutt’altro che aerodinamica almeno per quanto sappiamo del volo convenzionale. Questo perché è stato concepito, guarda caso, per qualcosa di totalmente diverso: raggiungere l’orbita terrestre ed iniziare a percorrerla, una volta ogni 40 minuti circa, alla velocità media di circa 28.000 Km/h. In un luogo in cui l’aria non esiste e quindi, ovviamente, neppure la resistenza dinamica dovuta alla sua densità. L’avete visto? Vi ricorda nulla? Se fossimo a Cape Canaveral, non esitereste neanche un secondo nel chiamarlo per nome: “È lo Space Shuttle, non lo dimenticheremo mai…” Ma qui siamo nell’ex Unione Sovietica, e questa cosa ormai ricoperta di ruggine si chiama Buran (tempesta di neve). Loro sono, invece, gli spedizionisti avventurieri del canale Exploring the Unbeaten Path, praticanti olandesi di quell’attività largamente abusiva che prende il nome di Urbex, e spesso consiste nell’insinuarsi all’interno della proprietà privata per prendere atto di un qualcosa di straordinario. Ma personalmente ritengo che mai, nella storia di quest’ambito, si sia giunti ad una simile faccia tosta, e la capacità di rischiare la propria libertà futura con una simile leggerezza. Il gruppo dei tre turisti sembra imitare in effetti, in diversi momenti, le tecniche delle spie dell’epoca della guerra fredda, mentre si nascondono nei recessi del torreggiante hangar, ascoltando suoni lontani e i movimenti delle guardie dell’installazione. Che pur essendo attualmente abbandonata, fa pur sempre parte del cosmodromo di Baikonur, ancora attivamente impiegato perché è l’unico luogo, dotato di rampa di lancio, con latitudine sufficientemente elevata per inviare gli astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). E c’è poi anche il piccolo dettaglio che ad oggi, successivamente al ritiro degli Shuttle americani nel 2011, le navicelle Soyuz custodite nei dintorni di questo luogo sono l’unico veicolo esistente in grado di trasportare esseri umani nell’orbita del pianeta terra. A tal punto, è stato ridotto il budget del leggendario programma spaziale statunitense! Ma se Atene piange, come si dice, Sparta non ride. O per meglio dire, parti di Sparta cadono in rovina per il disuso e l’assenza di manutenzione. Parti costate, a loro tempo, 20 miliardi di rubli (oltre 71 miliardi di dollari) giungendo a contribuire in modo significativo al collasso sociale ed economico dell’Unione Sovietica, avvenuto nel 1991. E dire che all’epoca, erano sembrate COSÌ necessarie…
La comitiva è piuttosto bene assortita: c’è quello prudente, che accetta di buon grado di fare il palo nei momenti più delicati dell’esplorazione, verificando l’eventuale arrivo dei soldati richiamati dal rumore degli ospiti inattesi. C’è il tecnico audio-video, dotato di telecamere e drone d’ordinanza, fermamente intenzionato a documentare ogni minuto di questa irripetibile esperienza. Mentre il terzo uomo, scorpioni tatuati sul petto, si capisce subito essere lo scavezzacollo di ogni situazione, l’arrampicatore di strutture dismesse e remoti pertugi trovati di volta in volta ai margini delle circostanze scoperte. Se questo fosse un cartone animato, mancherebbe soltanto la figura comica del grosso e codardo Scooby Doo. Ma stiamo assistendo ad una situazione, ed un pericolo, assolutamente reale, nel preciso momento in cui i tre raggiungono una stanza senza finestre al primo piano dell’hangar e decidono di passare lì la notte, in attesa di un’alba che, come nel romanzo Rama di Arthur C. Clarke (l’autore di Odissea nello Spazio) illumini all’improvviso l’incredibile aspetto del luogo in cui sono giunti, dopo un lungo e pericoloso viaggio nell’infinito. Proprio mentre dietro la prima astronave, incredibilmente, si profila la sagoma in controluce di qualcosa di straordinario: una seconda, esteriormente del tutto identica a lei…
Il sassofono che alberga dentro a un cuore di locomotiva
Una bella cosa che non tutti sanno. Perché non tutti, purtroppo, hanno avuto modo di ascoltarla specie in Italia, benché un certo numero di locomotive Siemens ES 64 U2 soprannominate Taurus, prodotte dal principale consorzio dei trasporti europeo, siano state adattate alle linee di tensione da 3 kV, potendo così circolare anche entro i confini della penisola nostrana. E non è certo questo l’unico treno, tra l’altro, a produrre musica quando inizia a percorrere il suo tragitto, anche se nel caso di questo video vi sono alcuni fattori di contesto piuttosto inusuali. Si tratta comunque di una caratteristica insita nel concetto stesso di motore elettrico, esemplificata in qualche variabile maniera da innumerevoli tipologie di locomotive. Quasi nessuna delle quali, del resto, riesce a farlo con la stessa limpida chiarezza di quello che è stato chiamato, non a caso, espresso “Do re mi fa sol” per la sua innata propensione a deliziare i passeggeri col ronzante suono che sembra a tutti gli effetti ricordare, per timbro e intonazione, lo strumento a fiato tipico del jazz. Che nel caso mostrato non soltanto produce una scala musicale, ma sembra ripeterla a più velocità parallele che si rincorrono a vicenda, come nell’intro di un brano sperimentale preso in prestito dall’ambito della musica electro swing. Ciò è probabilmente dovuto alla poca trazione delle ruote a causa della pioggia, e l’attivazione progressiva di un controllo automatico, che ne regola in maniera indipendente la velocità. Del resto, se andiamo ad approfondire, nulla di tutto questo è in alcun modo intenzionale. La locomotiva non è dotata in effetti di altoparlanti, né alcuna modalità speciale da novelli direttori d’orchestra, che il conduttore sarebbe tenuto ad attivare quando si trova in prossimità della stazione. È tutto endemico e automatico, ovvero il prodotto del motore stesso, per l”effetto delle sue specifiche modalità di funzionamento. Prendete ora in considerazione una locomotiva elettrica. Non a propulsione ibrida, con generatori a diesel che ricaricano la batterie, ma proprio alimentata da due o più pantografi sul tetto, attraverso lo sfruttamento dei cavi della luce posizionati sopra la ferrovia. Essa sarà naturalmente più silenziosa rispetto a un treno convenzionale, nel complesso, eppure capace di accelerare a ritmi estremamente sostenuti, senza la necessità d’impiegare rapporti della trasmissione o altre problematiche diavolerie. Se alimentato semplicemente al massimo del suo potenziale, dunque, il treno potrebbe finire per sviluppare una spinta in avanti anche TROPPO repentina, con conseguenti problemi per i passeggeri, ed il sempre presente pericolo di danneggiare le ruote. Ed è qui, che entra in gioco il variatore elettronico di velocità (nella nomenclatura internazionale basata sull’inglese, VFD).
Un dispositivo che modifica il ritmo, il che significa, essenzialmente, produrre un qualche tipo di musica, grazie alla vibrazione indotta nelle parti più o meno metalliche dell’apparecchio d’impiego. La cui natura va tra l’altro specificata, perché ovviamente il concetto di VFD non è esclusivo delle ferrovie, ma si trova anzi miniaturizzato ed incorporato in quasi ogni apparecchio meccanico basato sulla potenza dell’alta tensione: trapani, pompe, ascensori, giostre per bambini… E chi più ne ha, più ne metta. Poiché questo è in effetti l’unico modo, per “dosare” l’elettricità. Il demone che spesso viene paragonato, in funzione di alcune caratteristiche della sua distribuzione, allo scorrere dell’acqua all’interno di un sistema di tubi. In un paragone non sempre corretto, poiché non esiste, in quest’ambito, alcun concetto paragonabile a quello della pressione: l’elettricità può essere soltanto accesa, oppure spenta. Come fare, dunque, a non lasciar distruggere il buon vecchio choo choo? Semplice, occorre trasformare la corrente alternata in continua, modularla secondo il bisogno, quindi ritrasformarla prima che raggiunga la bobina del motore trifase della locomotiva. Vediamo come, esattamente.