L’anfibio avvelenato che pugnala con le costole il palato dei suoi nemici

La giovane vipera d’acqua natricina percorreva il ciglio dello stagno alluvionale facendo saettare in modo regolare la sua lingua alla ricerca di un preciso odore. Mentre l’organo olfattivo situato sul palato della sua bocca, pulsando ritmicamente, filtrava e catalogava ogni genere di traccia potenziale di una fonte di cibo. Di tanto in tanto, il serpentello non più lungo di 30 cm sollevava la testa, scrutando in ogni direzione nella speranza di scorgere un qualche tipo di suggestivo movimento. Lungo ed alto, con la coda sottile, oppure piatto, largo, coda spessa e muso a punta. Quasi come il… Suo. “Topo, lucertola delle mie brame” sembrava dire, non sapendo oppur non ricordando per mera convenienza operativa, che il suo secondo pasto preferito apparteneva nella pratica realtà dei fatti ad un tipo di categoria biologica ben distinta. Che ne vede l’origine, diversamente da quei sauri, unicamente dentro l’acqua in cui continua a vivere per buona parte della sua esistenza. Soprattutto lì, nella parte meridionale della Spagna, dove il clima arido avrebbe presto seccato e crepato la sua lucida pelle. Ora questo indiretto discendente dello scaglioso responsabile sinuoso del peccato originale, almeno in parte possedeva una cognizione istintiva del problema potenziale costituito da un esponente di questa specifica categoria. Ovvero il modo in cui per morderlo, occorresse sempre prestare una specifica attenzione a non serrare troppo presto le fauci, pena conseguenze deleterie di una qualche tipologia non propriamente chiara. Eppure di lì a poco, avvistato il pasto zampettante lungo circa la metà della sua intera estensione, si precipitò saettante oltre il paio di metri che lo separavano dalla creatura. Quindi spalancò le mandibole, inghiottendone la testa prima che potesse in alcun modo reagire. Ma mentre iniziava a stringere quell’intorpidito essere con appena la forza di divincolarsi inutilmente, avvertì improvvisamente un sapore terribile seguito da un lancinante dolore. Il suo organo di Jacobson, facente funzione delle narici nei mammiferi dalla forma più imponente, era stato letteralmente perforato da parte a parte, e barbigli acuminati procedevano in direzione del suo cervello!
Di sicuro, può succedere. Nel territorio relativamente vasto, ma egualmente soggetto a problematiche d’inquinamento e mutazione climatica, abitato dalle tre specie che compongono il genere Pleurodeles alias Gallipato, alternativamente detto della salamandra dai fianchi bitorzoluti. Famose per una strategia difensiva capace di renderle letteralmente impervie ad un’ampia varietà d’aggressioni, oltre che vagamente simili al supereroe dei fumetti ed il cinema Wolverine, coi suoi artigli retrattili incorporati direttamente nello scheletro di adamantio. Il che, unito alle naturali capacità di rigenerazione possedute da questa categoria d’animali, rende oggettivamente possibile un qualche tipo d’ispirazione per gli autori della Marvel che nel 1974 lo introdussero nelle complesse narrative di genere, come rivale e successivamente amico dell’Incredibile Hulk. Con una singola, strategica differenza: quella di essere più preda che predatore, trovando quindi la collocazione ideale per la sua arma di autodifesa non all’estremità degli arti, bensì in corrispondenza del dorso che costituiva il bersaglio ideale per chiunque fosse intenzionato a fagocitarne l’invitante forma nuotatrice. Mentre le sue ossa si preparano a cambiare forma, dando luogo alla più inquietante metodologia dell’ultima risorsa, ovvero la perforazione della propria stessa pelle…

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Il comportamento asociale del mini-cervo con le zampe più sottili di un ragno

Il muso pulsante, le orecchie tonde puntate verso l’alto, gli occhi tondeggianti spalancati ad osservare quietamente l’orizzonte. Per qualche secondo, sufficiente ad identificare la sfuggente gobba e la testa cuneiforme dell’intruso, che sporgevano di poco sopra il debole declivio oltre la macchia di banani sul confine dei campi. Un breve sguardo, seguìto da una piroetta all’indirizzo della sua compagna di qualche settimana, bastò al piccolo mammifero per chiarire la sua posizione: “È una questione di rispetto, capisci? Questo territorio è appartenuto a mio padre, ed ancor prima suo padre e il padre di suo…” (Pare che taluni piccoli ungulati, talvolta, possano alquanto ripetitivi nei loro discorsi) Quindi scalpitando con aspettativa simile ad un rullo di tamburi tra lo strato di foglie ai limiti del sottobosco, il cervo-topo dalla schiena maculata cominciò ad avanzare zig-zagando, certo di riuscire in questo modo a giudicare la distanza di quell’ospite indesiderato. Una, due, tre volte fece la spola orientandosi col sole prossimo al tramonto, quando la disposizione prospettica del territorio gli permise, finalmente, di scrutare negli occhi di colui che aveva osato praticare il più terribile dei tabù: lo sconfinamento. L’avversario lo aspettava con la testa bassa, la bocca semi-aperta a masticare quello che sembrava essere una foglia già piuttosto malmessa per l’effetto del recente temporale estivo. Dopo un attimo in cui il tempo sembrò restare fermo, con i due intenti a scrutarsi da vicino nel più assoluto stato d’immobilità, l’avversario provenuto non si sa da dove spalancò del tutto la mandibola prognata, rivelando con palese orgoglio le sue temibili armi: un paio di pugnali d’avorio non più lunghi dell’ultima falange di un dito mignolo umano. Ma più che sufficienti a infliggere ferite quando serrati con forza sul dorso del nemico di turno. “Poco importa” pensò il padrone di casa. E dopo aver fatto lo stesso, iniziò a caricare, mirando con la luce della luna rimasta ormai ad illuminare pallida la sua missione. La sua natura era, d’altra parte, era quella di un essere del tutto solitario. E nessuno, in alcun caso, avrebbe mai potuto penetrare senza invito oltre le mura invisibili della sua vasta magione…
Tragulidi o traguli, compatti ruminanti, artiodattili dalla grandezza sotto-dimensionata, jarini pandi in lingua telugu, che significa cervo-maiale. Sarukuman in tamil, ovvero “cerbiatti del mucchietto di foglie”. O più comunemente definiti dalla comunità internazionale come “caprette” usando il termine francese, ovvero chevrotain. Quel tipo di animali che tendono ad essere ignorati dalle moltitudini, ed invero in parte anche dai naturalisti e biologi, semplicemente perché vivono ai margini del consorzio umano, senza particolari aspetti giudicati interessanti nel proprio stile di vita o comportamentale. Essendo a tutti gli effetti dei normali ruminanti, fatta eccezione per la massa corporea raramente capace, negli esemplari più imponenti, di superare quella di un barboncino frisé

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Da diavolo con le tenaglie, una libellula predatrice: abracadabra

Ascalafo, figlio di Acheronte e della ninfa Gorgira, era un antico demone che credeva fermamente nella giustizia. O quanto meno, nel suo diritto ad assolvere al compito che gli era stato assegnato dal suo signore Ade, di far la guardia al frutteto degli alberi di Melograno che crescevano da tempo immemore di fronte al fiume Stige. Quello che non gli riusciva particolarmente bene, tuttavia, era curarsi in modo particolare dei suoi interessi, agendo secondo gradi di cautela commisurati alle specifiche circostanze di ciascun caso. Così quando vide, secondo un’importante leggenda, la principessa rapita Persefone che coglieva uno dei sacri frutti, nutrendosi dei suoi semi deliziosi, andò immediatamente a riferirlo al suo datore di lavoro nonché spasimante non corrisposto di lei, che per punizione decise di prolungare di un anno la prigionia che le aveva ingiustamente imposto nel suo regno tenebroso. Non considerando, per sua grande sfortuna, chi fosse esattamente la madre della diretta interessata: niente meno che Demetra, Dea del raccolto e delle metamorfosi. La cui rabbia non conosceva alcun tipo di confine: per molti mesi, dunque, nessuna pianta poté più dare i suoi frutti sulla Terra. Terribili carestie sconvolsero il mondo. E sul presuntuoso Ascalafo, malcapitato, fu posta una pesantissima pietra che l’avrebbe schiacciato per tutto il tempo necessario a pentirsi. Quindi, una volta tornato libero, Demetra lo trasformò in un gufo. Di questa leggenda parla estensivamente il poeta Ovidio, sebbene per ovvie ragioni manchi di descrivere esattamente l’aspetto naturalistico del “pennuto”. Che a conti fatti avrebbe anche potuto non essere un uccello e molti la pensano in questo modo, quando si considera il nome scientifico di questa famiglia d’insetti: spesso chiamati Ascalaphidae, ovvero le mosche gufo.
Che poi gufi non sono e dopo tutto neanche mosche, bensì puri appartenenti alla divisione degli insetti neurotteri, caratterizzati da quattro ali ricoperte di venature, avendo mandibole masticatrici e la propensione a modificare completamente il loro aspetto al raggiungimento dell’età adulta. Da una forma larvale, inteso come biologico punto di partenza, che potremmo definire al tempo stesso preistorico, mitologico e conforme all’aspetto orrorifico di un imbattibile boss videoludico della serie Dark Souls/Elden Ring. Piatto e largo, al di sotto del centimetro di lunghezza (per fortuna) occupato dal suo dorso finemente ornato ed irsuto, capace di assomigliare a un fine merletto artigianale, una caratteristica graziosa fortemente controbilanciata dalla forma inquietante del suo apparato nutrizionale: una bocca malefica composta dal paio di tenaglie acuminate, del tutto simili a quelle del più frequentemente discusso Myrmeleontidae, il cosiddetto formicaleone. Dal quale secondo alcuni (Machado et al, 2018) potrebbe derivare dal punto di vista evolutivo, sebbene le specifiche convenzioni tassonomiche del complesso mondo degli insetti abbia portato a classificarlo semplicemente in una famiglia del tutto distinta. Pur costituendo anch’egli nel corso del suo stadio giovanile un esperto catturatore di sfortunati artropodi di passaggio, le sue imboscate partono da condizioni molto più semplici e dirette. Niente cono dantesco di sabbia, all’interno del quale formiche o altri “ospiti” scivolano inesorabilmente finendone intrappolati. Lui semplicemente aspetta immobile, qualche volta coperto di rametti o detriti, e quando giunge il momento, CLACK! Ghermisce. Finisce. Ed orribilmente, rapisce…

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Torna libero a San Valentino il rarissimo cinghiale non più grande di un bulldog francese

Elefanti, rinoceronti, bufali della giungla. In mezzo all’erba nella terra dei giganti, alle pendici dei più alti monti del pianeta Terra, qualcosa di minuscolo agita il pesante strato di vegetazione. L’abitante che grugnisce, la creatura onnivora del sottobosco, un parente non così lontano del suino selvatico frequentemente avvistato sui confini delle grandi capitali europee. Sebbene sia stato spostato nuovamente dopo più di 100 anni nella classificazione originaria del 1847, all’interno di un suo genere distinto creato dal naturalista ed etnologo inglese Hodgson, il cui nome in lingua latina riesce ad essere già un programma: Porcula, ovvero “il piccolo maiale” silvania, “della foresta”. Appena 25 cm d’altezza: quasi la realizzazione accidentale del perfetto sogno, tanto a lungo perseguito, di una creaturina casalinga degna in linea di principio di essere affiancata a cane, gatto ed altri esseri considerati affini, per la naturale inclinazione a conoscere e comprendere gli spazi degli umani. Se non fosse per il trascurabile dettaglio, in realtà difficile da superare, degli appena 100-250 esemplari rimasti liberi allo stato brado, tali da farne anche il detentore di un record molto meno desiderabile: quello del singolo suino più raro attualmente in bilico sul baratro dell’estinzione. Avendo dato luogo, nel corso degli ultimi 25 anni, ad una delle iniziative di conservazione più stratificate e complesse di tutta l’India, centralizzata primariamente nel Parco Nazionale di Manas dello stato di Assam, con un possibile (teorico) sconfinamento in Bhutan. Questione particolarmente difficile da confermare, vista la natura schiva e scaltra di questo animale, forse massimizzata attraverso i molti secoli di caccia condotta ai danni della sua linea di sangue, così gradevolmente commestibile e purtroppo totalmente indifesa. Questione di per se ancor meno problematica della costante riduzione del suo habitat, dovuta all’allevamento locale di bovini ed altri armenti, seguìta dall’incendio sistematico d’intere aree ricoperte dalla succitata erba Imperata cylindrica, della poco praticabile altezza di 60 cm. Ampiamente sufficiente per nascondere, d’altronde, le frequenti peregrinazioni dei gruppetti familiari di 4 o 5 esemplari di queste creature onnivore, ciascuno in grado di mantenere il controllo di un territorio di fino 25 ettari, all’interno del quale costruiscono il proprio “nido”. Una vera e propria cupola creata con l’erba intrecciata, dentro cui la femmina si ritira all’inizio della stagione dei monsoni, per mettere al mondo un numero variabile tra i 3 ed i 6 piccoli generalmente una singola volta l’anno. In una quantità purtroppo insufficiente, per far fronte alla potente pressione che grava quotidianamente sulla sopravvivenza di questa specie, per non parlare della predazione naturale ad opera di tigri, pitoni e corvi, mentre manguste e gatti risultano ampiamente sufficienti all’eliminazione sistematica della prole…

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