Bianco e nero, opposti che si attraggono. Nell’epoca della creatività artificiale, ossimoro tra i più possenti giunti ad acquisire rilevanza nel momento contemporaneo, sempre più diffuso tende ad essere l’accostamento tra un qualcosa di mondano, ludico o popolare, con i grandi nomi dell’alta moda internazionale. Così che la macchina, il computer che ogni cosa macina e risputa in base agli input ricevuti dai famelici utilizzatori, ne gestisca l’indice delle computazioni, generando l’ambiziosa gestalt di un modello in grado di affascinare. Particolarmente diffuso in quel particolare mondo delle immagini, risulta essere il cosiddetto influsso di Balenciaga. Cristóbal, per essere più precisi, diventato nell’immaginario collettivo il principale testimonial di un approccio alla bellezza formale ed elegante, distinto, sofisticato. Per non parlare modelli dall’imponenza e prestanza fisica superiore alla media. Perciò prendete adesso, come esempio, la figura iconica di un cebu cappuccino, la riconoscibile scimmietta platirrina dello Honduras e del Brasile. Chiedendone la mescolanza col suddetto approccio digitale alla combustione dei confini tra i settori dello scibile, cosa è comparso? Oh, ne sono certo. Niente di così diverso… Da questo! Pithecia pithecia o saki dalla faccia bianca, fatti avanti! Originario del Brasile, la Guyana, il Suriname ed il Venezuela, questo primate della cima della giungla non più lungo di 70 cm può essere riconosciuto a distanza, per la sua affinità a vivere ad oltre 20 metri d’altezza, dormendo acciambellato sui rami come un gatto. E nel caso dei maschi adulti, un’impressionante livrea completamente nera con il volto circondato da una maschera dal candore lampante. Laddove ulteriori tratti, comuni ad ambo i generi dalla pronunciata diversità cromatica, includono la lunga coda ricoperta da una folta peluria, tenuta normalmente pendula in quanto priva di alcun tipo di muscolatura prensile per aggrapparsi alla canopia. E un manto dalla peluria tanto fitta da indurre l’impressione di una provenienza dalle alte montagne o i recessi più gelidi della Terra del Fuego. Il che non corrisponde d’altra parte a verità ecologica, lasciando intendere quanto possa essere, talvolta, imprevedibile l’evoluzione degli animali. In tale aspetto ma non altri, visto il modo in cui l’amico è solito nutrirsi, muoversi ed organizzarsi la giornata. Creatura relativamente piccola e per questo vittima di un ampio ventaglio possibili di predatori, il saki è molto poco incline a scendere al livello del suolo, eventualità comunque scongiurata da una dieta composta quasi esclusivamente di frutti e semi. Fonti di fibre tanto resistenti, nella loro frequente accezione sudamericana, da richiedere l’impiego di una dentatura tanto aguzza da lasciar pensare a un pipistrello vampiro, mentre sgranocchiano in maniera fragorosa la scorza impenetrabile di cose come lo sprenciolo, più comunemente detto noce brasiliana. Il che non può prescindere del tutto, ad ogni modo, l’occasionale assunzione di proteine, ingurgitate grazie alla cattura ed assunzione di grossi insetti, piccoli mammiferi e pulcini, agguantati con una voracità e spietatezza che potrebbero sembrare quasi umane. Per non parlare dell’occasionale e già sopracitato chirottero, catturato con tutta la sua famiglia mentre dorme negli alberi all’interno della sua tana…
Presenza certe volte imprescindibile, altre poco diffusa, in funzione della progressiva riduzione del proprio areale, la scimmia saki può essere frequentemente sentita, ancor prima che identificata grazie al proprio aspetto assai distintivo. Questo per la propensione di tutti gli esemplari adulti a difendere il proprio territorio, spesso effettuando duetti ululanti con il proprio partner, a cui restano legati per tutta la vita. Una monogamia, quest’ultima, dall’origine incerta per molti studiosi, ma che potrebbe anche essere una conseguenza della quantità di esemplari minori rimasti allo stato brado. Così come la tendenza di un animale nonostante tutto socievole ed incline alla collaborazione a viaggiare o spostarsi in gruppi di non più di 3 o 4 esemplari, di genere misto, saltando agilmente da un albero all’altro anche per diversi chilometri fino al tramonto del sole. In cerca di cibo o l’ideale terra promessa, priva dei pericoli che dovettero essere affrontati dai rispettivi genitori. Questo perché con la sua massa di appena 1,5 Kg, la saki tende purtroppo a costituire la preda ideale di carnivori come il puma, l’ocelot, il giaguaro, il boa dalla coda rossa e vari mustelidi di grande dimensioni, tra cui l’eira barbara dell’Amazzonia meridionale. Ma il suo principale nemico resta, per ovvie ragioni, individuabile nell’aquila arpia (Harpia harpyja) uno dei rapaci più grandi al mondo, facilmente in grado di sollevare un esemplare di scimmia per poi farlo a pezzi nella confortevolezza del proprio stesso nido. Un destino qualche volta difficile da evitare e che ha insegnato attraverso le generazioni queste scimmie a tacere e restare immobili non appena ne venisse avvistata una, contrariamente ai gridi di avvertimento che sono solite lanciarsi in comuni situazioni di pericolo, proprio per l’impossibilità di reagire nei confronti di un attacco proveniente dal cielo. Mentre in caso di avversari meno rapidi o terribili, non è inaudito che le saki più imponenti scelgano di collaborare, lanciandosi tutte assieme in un combattimento che talvolta riesce a ricacciare indietro l’affamato avversario. Ciò detto ed in considerazione della loro indole schiva ma mansueta, queste scimmie cadono frequentemente preda dei cacciatori locali tradizionali, appartenenti a varie tribù che ne hanno fatto un cibo molto amato attraverso le pregresse generazioni. E non dimostrano, allo stato attuale delle cose, alcun intento di adattarsi alla moderna sensibilità ecologica in materia. Mentre a loro si aggiungono, con il passar del tempo, i contrabbandieri abusivi per il mercato degli animali da compagnia, per la malaugurata valenza memetica delle qualità esteriori e interessanti comportamenti di questi scaltri, carismatici saltatori dell’universo clorofilliano.
Un modo per capire, assieme a tanti altri, l’importanza dell’apporto artificiale o digitalizzato nell’odierna civiltà del possesso e del controllo di ogni cosa che ci affascina, o in qualche modo coinvolge la nostra fervida immaginazione. Giacché se fosse in qualsivoglia modo possibile, allo stato attuale della tecnologia, creare un automa perfettamente indistinguibile di questa o quella specie naturale, non potremmo forse rimuoverla dal novero dei tipici soggetti del mercato degli status symbol viventi? Il che non può esulare, in alcun modo concepibile, dall’apporto d’elaborazione e perfezionamento che viene incapsulato dallo strumento informatico delle reti neurali. O intelligenza artificiale, come siamo soliti chiamarla al giorno d’oggi, mentre l’impieghiamo unicamente ai fini d’intrattenimento delle nostre inconcludenti peregrinazioni. Il che non può né deve necessariamente ridurre in alcun modo il potenziale di quei sistemi. Qualcuno disse un tempo ormai remoto che Internet era una serie di tubi… E nei tubi “Ci sono milioni di gatti” risposero gli utenti sghignazzando come iene del Serengeti. Ma dovremmo ignorare forse che sono proprio quei felini, miagolando incessantemente, a far girare gli sferraglianti ingranaggi della società contemporanea?