La ragione delle frecce di cemento nei deserti americani

Abbandonate nella polvere, come geoglifi di una civiltà ormai perduta. Totalmente spoglie, ricoperte di crepe, mentre la sporadica vegetazione minaccia di sopraffarle, cancellandole infine dall’esistenza. Eppure ancora solide, diritte e chiare, come il giorno in cui l’operaio senza nome, per l’ordine di un’autorità ignota, aveva disposto l’attenta colata nel suolo stesso della tangibile esistenza. La tentazione, come avviene per quanto concerne gli ubiqui e “inspiegabili” cerchi nel grano, sarebbe di associarle all’opera di qualche civiltà aliena, passata temporaneamente di lì. Ma ce ne sono, semplicemente, troppe perché basti evocare l’opera di costoro. Diventa importante, a questo punto, orientarsi alla ricerca di un perché.
Si potrebbe affermare che la solidità funzionale e burocratica dei primi Stati Uniti abbia potuto beneficiare in egual misura di due cose: l’estensione delle infrastrutture di collegamento, sia pubbliche che private, come la ferrovia, e la rapidità di spostamento delle mochila, caratteristiche borse marroni da sella, ricolme di corrispondenza indirizzata da un lato all’altro del più verticale dei continenti. Oggetti associati, in maniera indissolubile, a una particolare razza di cavalli non più alti di un metro e mezzo e ai loro instancabili cavalieri, proprio per questo soprannominati “Pony Express”. Le cui imprese, ampiamente celebrate nel vasto e ininterrotto romanzo americano, furono alla base di molte vittorie, sia sociali che in campo bellico, particolarmente durante la guerra di secessione tra le forze dei Confederati e quelle dell’Unione. Già, perché non c’è altro mestiere, a parte quello delle armi, che tragga un beneficio maggiore nella comunicazione rapida ed efficiente. Il che ha sempre costituito, nel corso della storia umana prima dell’epoca contemporanea, un potente incentivo ad approntare un servizio postale dall’elevato grado di affidabilità e persino l’invenzione del telegrafo, inerentemente facile da intercettare, non poté mai sovrascrivere realmente l’utilità nello spostamento fisico delle buste con gli ordini e i dispacci. Gli inizi del XX secolo, quindi, furono un’epoca di grandi cambiamenti. Il 17 dicembre del 1903, Orville e Wilbur Wright prendono il volo a Kitty Hawk, con il loro Flyer destinato a lasciare un segno indelebile nel sentiero stesso del Progresso. Esattamente 11 anni dopo, come molti avevano previsto, scoppia la grande guerra. E il popolo della nazione, per la prima volta impegnato in uno sforzo bellico nei territori d’Oltreoceano, non può fare a meno di chiedersi se esista una maniera più rapida per movimentare i materiali necessari all’industria, o far giungere i propri messaggi ai familiari distanti. Fu così che il 15 maggio 1918, con decreto del presidente Thomas Woodrow Wilson in persona, venne inaugurato il primo servizio per il trasferimento aereo di messaggi lungo l’asse Washington–Philadelphia–New York. Ci vollero ulteriori due anni perché la rete si ampliasse fino alla costa Ovest, riuscendo ad includere anche la fiorente metropoli di San Francisco. Ma il servizio presentava non pochi problemi rispetto alle alternative. Per una questione semplicemente matematica: a quell’epoca, spiccare il volo con pratici biplani significava non soltanto rischiare costantemente la propria vita, ma anche sapere bene che ogni qual volta il tempo peggiorasse anche in maniera minima, o calasse puntualmente la notte, occorreva trovare prontamente un luogo dove sostare. Il che aveva portato, anche in condizioni ideali, all’allungarsi dei tempi di consegna potenziali, con un totale di ben 72 ore, necessarie in media affinché l’equivalente delle prototipiche borse mochila potesse compiere l’intero tragitto da un lato all’altro della nazione, laddove il sistema moderno mediante l’impiego di treni, con Pony Express attraverso i sentieri più accidentati, ne impiegava appena 108. Non certo una differenza sufficiente a giustificare il rischio, la spesa e lo sforzo necessario ad approntare in via logistica il complicato meccanismo della posta aerea. Tanto che si diceva che il nuovo capo dello stato, il presidente Warren G. Harding, stesse minacciando di tagliare i finanziamenti e far chiudere definitivamente il servizio.
Da ormai quasi una decade, tuttavia, era stato fondato un organo deputato allo studio di quello che il volo a motore avrebbe potuto fare per le istituzioni, definito National Advisory Committee for Aeronautics (NACA, ma forse voi lo conoscete meglio per ciò che sarebbe diventato in seguito: la NASA) gestalt di fervide menti le quali, all’inizio del 1923, si fecero rappresentare presso il Congresso con un’idea. “E se costruissimo una serie di torri illuminate, con ausili di navigazione annessi, in grado di guidare i piloti lungo le vie postali più trafficate? E se queste conducessero, senza falla, ad una serie di piste di atterraggio, sempre a disposizione anche di notte, ogni volta in cui fosse necessario atterrare per fare rifornimento?” E l’idea piacque. Al punto da ricevere, nel giro di poco tempo, il via libera dei lavori. Fu quasi un riproporsi dell’antico sforzo collettivo degli uomini di frontiera, per estendere la strada ferrata fino alle regioni più estreme del West…

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Il buco nella testa dei 43 presidenti

C’è una diffusa credenza popolare, soprattutto nei grandi Stati Uniti d’America, secondo cui il mondo sarebbe segretamente guidato dai rettiliani. Questa razza aliena dotata della capacità di farsi piccola e rinchiudersi all’interno di corpi umani artificiali, da pilotare quindi come una sorta di robot biologici dal notevole fascino e capacità di persuasione. I quali più volte, nel corso della nostra storia recente, sarebbero riusciti a giungere ai massimi vertici delle classi dirigenti di questo pianeta. Una simile teoria, naturalmente, non è mai stata dimostrata: sono troppo furbi, questi esseri provenienti dall’altro lato della stella di Betelgeuse. E se vi dicessi che adesso, invece, delle lucertole vivono letteralmente nella testa di alcune delle più grandi figure storiche del succitato paese? Striscianti, lucidi piccoli animali, amanti di due cose, sopra ogni altra: i luoghi caldi ed arrampicarsi. Fin dentro l’oscura scatola del cranio…
Spunta sulla destra percorrendo l’Interstatale 64, partendo dall’estrema punta della penisola della Virginia così come fecero i primi coloni all’epoca di Pocahontas, e verso la città di Richmond che poggia su sette colli, un po’ come un altro luogo celebre d’Italia. E le somiglianze, a conti fatti, non finiscono lì. A prima vista, da lontano, può sembrare un cimitero: un’alta quantità di oggetti, o forse sarebbe più giusto dire strutture, dall’altezza unitaria di fino a 6 metri, con una base larga ed una cupola in cima ricoperta da un’accenno di chioma, un po’ come fossero delle… Teste. Ed è palese che il materiale di cui sono fatte dovrebbe sembrare marmo, in una sorta di omaggio all’arte neoclassica che tanto spazio aveva avuto in questo Nuovo Mondo, durante il periodo medio della sua breve storia. Ma man mano che ci si avvicina, gradualmente, emerge chiaro che si tratta di un ben meno pregevole, ma pur sempre funzionale cemento. Emergono, inoltre, i difetti: laggiù manca un naso. Qui, un pezzo di mento. Molte figure riportano una crepa sul retro all’altezza della nuca, mentre una in particolare, dalla riconoscibile barba senza baffi, la fronte ampia, i lineamenti nodosi e forti, è completamente scoperchiata nella sua parte posteriore. Si tratta del presidente Lincoln, ferito in effigie così come il giorno della sua violenta dipartita. Al suo interno è possibile scorgere il vago scintillio la struttura di metallo che sostiene il tutto, ancora non del tutto ricoperta dalla ruggine e la corrosione. Non che ai suoi colleghi, messi ordinatamente in fila dal nuovo proprietario della collezione all’interno di una fattoria di circa un centinaio di acri, sia andata notevolmente meglio: tutti quanti seri e compunti, e tutti altrettanto bucati da una vistosa ed identica presa d’aria, nel punto centrale della sommità della testa, praticata con apparente crudele precisione ed intento dissacratorio verso gli uomini più grandi della Nazione. Niente paura, ragazzi. Si tratta semplicemente del foro praticato per agganciarli uno per uno, tramite l’impiego di una possente gru. Già, ma perché farlo…
La storia del Parco dei Presidenti di Everette H.”Haley” Newman III, un tempo ospitante 43 busti sovradimensionati dei POTUS (Prez. Of The United States) andanti da George Washington a George W. Bush (il figlio) realizzati dallo scultore texano David Adickes è una vera anomalia nel paese che venera letteralmente la sua identità, al punto da raffigurare la bandiera sulla spalla dell’uniforme dei soldati rivolta al contrario, come se “sventolasse nel vento mentre avanzano, senza ritirarsi mai.” C’è in effetti qualcosa di anomalo, nel chiamare cantanti di larga fama per interpretare l’inno al SuperBowl, tra l’esultanza di chi lo conosce a memoria, e poi lasciare che gli spettri del consumismo divorino letteralmente la riproduzione inanimata dei volti che fecero tale Storia, creando l’analogia funzionale di certe scene decadentiste successive alla fine dell’Unione Sovietica, il nemico giurato di tanti anni fa. Crollano le statue, rovesciate al termine di un regime. O crollano le statue, dimenticate perché non rendevano abbastanza. Incredibile, no? Eppure, nel 2004, era sembrata un’ottima idea: costruire una nuova attrazione nel cosiddetto Triangolo Storico, tra Jamestown, la Williamsburg Coloniale e Yorktown. Un’altro di quei “luoghi meravigliosi” che dovrebbero portare gli automobilisti a fermarsi in maniera inattesa, soltanto per poter dire “L’ho visto.” E il tutto fu fatto a regola d’arte, con un investimento di appena una decina di milioni di dollari, un piccolo museo, il negozio di souvenir e cartelli interattivi per ciascun busto, in grado di emettere la voce di questo o quel presidente. C’erano, tuttavia, significativi problemi: in primo luogo la location, preso un motel privo di particolari attrattive, lungo un tratto di strada che non portava ad altri notevoli punto d’interesse. Per non parlare della concorrenza dei veri luoghi storici, disseminati un po’ ovunque nello stato. Fatto sta che nel giro di appena 8 anni, l’imprenditore e committente dell’intera venture turistica determinò che non avrebbe mai recuperato neppure i costi annuali di gestione, tanti pochi erano i turisti. Quindi vendette il terreno ad una compagnia di auto usate, dietro la garanzia che ogni statua sarebbe stata prontamente rimossa. Chiamato quindi il suo buon amico e proprietario di un’impresa di costruzione, Howard Hankins, gli chiese gentilmente di prendere uno schiacciasassi, e farne letteralmente polvere fine per seminare la terra. Ma lui, come potrete facilmente presumere, fece tutt’altro…

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Le torri indistruttibili del Terzo Reich

Che cosa devono aver provato, gli abitanti comprensibilmente preoccupati di Berlino, Amburgo e Vienna al sorgere del primo mostro grigiastro nel 1940, la vera e propria montagna di cemento concepita per costituire l’equivalente moderno di un’inespugnabile fortezza… C’è un punto, un momento neanche troppo remoto in qualsiasi grande guerra, in cui ogni preconcetto cessa di esistere, lasciando il posto al basilare istinto e ed al bisogno di un grado ragionevole di sicurezza. Credo a tal proposito che in molti, tra la popolazione civile che sperava di essere lasciata in pace, tra gli ebrei segreti e le altre potenziali vittime del regime, persino tra i pochi prigionieri di guerra trasportati fin qui dai più remoti campi di battaglia, si siano silenziosamente congratulati con colui che si era dimostrato in grado di farsi venire l’idea. Senza però sapere, perché non rientrava tra le cognizioni più frequentemente discusse, che quell’individuo altri non era che Hitler in persona. Esistono del resto i disegni, che lui stesso aveva tracciato sulla carta progettuale a guisa di castelli da incubo fuoriusciti direttamente dal Signore degli Anelli, con guglie gotiche sormontate da vertiginosi abbaini, dall’interno dei quali si affacciavano i possenti cannoni posti a difesa delle metropoli più scintillanti dell’intero territorio del Reich. Tre città, come tre coppie di torri, con tre tipi di armi, disposte geometricamente nella forma del quadrato e del cerchio. L’occultista che si nascondeva all’interno dell’uomo più spietato che il mondo abbia fin’ora conosciuto doveva trarre un sinistro piacere in tali corrispondenze numerologiche latrici di un presagio. Ma l’architetto Friedrich Tamms, uno stretto collaboratore di quel Fritz Todt che aveva diretto la creazione della linea Siegried come fortificazione al confine col Belgio, poté seguire soltanto in parte le direttive del Führer, giungendo alla conclusione che l’unico modello possibile per tali strutture fosse quello dell’architettura brutalista, in cui l’estetica si ritrovasse subordinata all’assoluta funzionalità. Ed il risultato possiamo ancora ammirarlo, per così dire, ad Amburgo e Vienna ma non più presso la capitale, dove gli Alleati attorno al 1946 e ’47, a fronte di un dispendio considerevole e svariati tentativi non riusciti di demolizione, finirono per seppellire simili giganti sotto metri cubici di terra, trasformandoli, di fatto, in colline.
Il male può essere sepolto. Ma, come ci insegnò lo stesso Tolkien, mai del tutto eliminato. E lo stesso valeva, a quanto ci è dato di comprendere, per le 16 Flaktürme, o torri contraeree, la massima espressione storica del concetto di una fortezza imprendibile, tanto che la più famosa di esse, quella dello zoo berlinese, poté resistere per quasi un mese al bombardamento dell’artiglieria e dei carri armati sovietici, fermamente intenzionati a mettere la parola fine sulla battaglia decisiva di una guerra che pareva non finire mai. Proprio così: un assedio medievale a tutti gli effetti, nel 1945, con dietro le mura asserragliate svariate migliaia dei membri residui delle SA ed SS, un contingente della gioventù hitleriana, opere d’arte inestimabili tra cui il fregio dell’altare di Zeus sottratto a Pergamo e quantità ancor superiori di civili da sfamare. Essi avevano, sostanzialmente, di tutto un po’: cibo in abbondanza, pozzi ed elettricità indipendenti, recinti sotterranei con bestiame. Ed in effetti la situazione di stallo si sarebbe estesa parecchio nel tempo, se gli ufficiali dell’esercito assediante non si fossero accordati all’interno, per non uccidere sommariamente i militari a capo dell resistenza, in cambio dell’apertura dell’imprendibile castello tedesco. Accordo che in realtà si rivelò essere uno stratagemma, quando i loro colleghi della torre di Humboldthain all’altro capo del fiume Sprea, la notte del primo maggio, approfittarono del cessate il fuoco per fuggire con un intero contingente corazzato con tanto di Tiger ancora in perfetto stato di funzionamento, poco prima che si diffondesse la notizia sulla morte di Hitler e fosse ordinata la resa totale del paese. A quel punto, tutto sembro futile, e la guerra finì.
Se le cose fossero andate diversamente, è probabile che l’unico modo di annientare le torri sarebbe stato affamare i loro abitanti. Poiché non c’era nulla nell’armamentario russo, americano e inglese salvo forse alcuni tipi di bomba sovradimensionata (incluse le atomiche, ma non scherziamo…) che potesse facilmente abbattere delle pareti di cemento spesse tra i 2 e i 3,5 metri, senza considerare l’armamento più terrificante delle Flaktürme, le quattro bocche da fuoco dei cannoni 12,8 cm FlaK 40, in grado di abbattere un bombardiere fino a 15 Km di distanza. Le quali, secondo alcune versioni della storia, all’ultimo furono puntate verso il basso e usate per forare la leggendaria corazzatura dei carri armati russi, trasformata dalla loro impressionante potenza in poco più che semplice carta velina. Wikipedia italiana cita uno studio di F. M. Puddu secondo cui ciò non sarebbe stato possibile, per l’arco di tiro limitato delle armi, mentre la sua controparte in lingua inglese riporta un articolo del War Tourist Magazine pronto a giurare sul verificarsi di questa particolare contingenza. Di certo, se ciò fosse vero, accrescerebbe ulteriormente la leggenda dei mostruosi mastodonti…

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Il camion-talpa e l’altro metodo per costruire un arco

Archlock Zipper Truck

Un centimetro alla volta, emettendo rombi dal motore, il grosso veicolo procede nel suo tunnel largo esattamente quanto lui. Solo che tale spazio, visibilmente, costituisce una virtuale non-esistenza. Giacché la parte posteriore, in effetti, è già coperta dalla terra attentamente compattata. Quella centrale, risulta occupata interamente dalla massa, assai considerevole, del veicolo in questione. E dinnanzi a lui… Non v’è ancora nulla di edificato, solamente il cielo, il Sole, un poco di vegetazione ormai del tutto sradicata. Uomini e ruspe, nel frattempo, lavorano alacremente, tutto attorno alla sua emblematica presenza. Un grosso mattone alla volta, come stessero manovrando dei Lego ipertrofici, costituiscono la parte superiore di una volta a botte. Che dovrà poggiare con l’intero proprio peso, fino alla deposizione di un certo numero di chiavi di volta in ripida successione, sopra il coraggioso quattro-ruote semi-sotterrato. Da qualche parte, nei pressi, un singolo cartello: Lock Block Ltd, questo cantiere è gestito da […] Finché alla fine, chiaramente, l’opera non sia compiuta. E come farà, a quel punto, tale sostegno veicolare ad emergere e scappare via? Ma è semplicissimo! Sgusciando come una mera tartaruga serpentina, grazie all’uso delle innumerevoli, piccole rotelle sul suo dorso. Siamo nell’area di Cascadia, presso la città canadese di Vancover. Dove, in un giorno all’apparenza come gli altri, si rimescolano i rapporti tra le connessioni di una delle strutture più importanti della storia umana…
Facevano bene i Greci, che una volta costruite due colonne, vi sovrapponevano l’elemento classico dell’architrave, il componente singolo a sviluppo orizzontale e largo esattamente o almeno quanto la distanza tra le stesse. Perché era un sistema semplice, che non permetteva di commettere un errore di progettazione. Nonché, concettualmente intuitivo: mi pare ovvio che se posizioni un qualcosa di largo e rigido, sopra lo spazio di una luce chiaramente definita, la struttura complessiva giunga ad acquisire un certo grado di stabilità. Tra l’altro gli antichi ben sapevano, per lo meno da un punto di vista puramente intuitivo, che una forza direzionata verso il basso, come per l’appunto è il peso, tenda naturalmente a propagarsi in parte ai lati. Oggi chiamiamo tale tendenza, il momento meccanico. E cosa c’è di meglio, per agevolare un simile processo, che la forma di una superficie ad U invertita, con due angoli retti nei punti in cui s’incontrano le superfici… Beh, mi pare ovvio che C’È di meglio. E ciò perché la pietra, intesa come materiale di costruzione, ha una notevole resistenza alla pressione verso il suo interno, ma ne vanta una comparabilmente assai inferiore all’incremento delle forze che tendono a modificare la sua forma. Piuttosto che piegarsi, si spezza. E questo non è mai auspicabile, in ingegneria.  L’aspetto spesso trascurato per quanto concerne gli archi, una struttura comunemente viene associata all’urbanistica dei Romani, che ne fecero un uso frequente per i loro grandi anfiteatri ed acquedotti, è che tali elementi decisamente efficienti ma poco utilizzati dai predecessori dell’Egeo non costituivano affatto un’evoluzione successiva del loro concetto dell’architrave, ma piuttosto coesistevano con esso, e in determinate particolari espressioni edilizie, lo precorrevano, persino. Non era affatto infrequente dopo tutto, tra le antiche civiltà della Mesopotamia e dell’Egitto, ritrovare un qualcosa di molto simile a quanto dimostrato dalle ruspe e dal camion della moderna Lock Block Ltd. Benché naturalmente, i mezzi a disposizione avessero un ordine di grandezza decisamente diverso.

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