L’incredibile funzionamento dei calcolatori a manovella

Millionaire Machine

L’entusiasmo di uno scienziato è qualcosa di fantastico ed estremamente contagioso. Quest’uomo scarmigliato è Clifford Stoll, astronomo, matematico e imprenditore nel campo della produzione di strumenti per la chimica, che nel 1986 aveva aiutato l’FBI a catturare il famoso hacker Markus Hess, un individuo che si rivelò poi essere un’agente del KGB inviato ad operare negli Stati Uniti. Di questi ultimi tempi, la sua mente con una lunga e variegata carriera alle spalle appare concentrata su una singola questione: i numeri e tutto quello vi ruota, in modo estremamente letterale, attorno. Ragione che l’ha portato, nel contesto di questo significativo e affascinante segmento, a partecipare al popolare canale di YouTube Numberphile, portando all’attenzione delle telecamere quello che appare senz’altro come il suo strumento di calcolo preferito: la Millionaire Machine, prodotta dal 1893 al 1935, nelle fabbriche svizzere di Hans W. Egli, su progetto dell’ingegnere Otto Steiger. Un impressionante giocattolo, all’epoca corrente, perché pressoché inutile, per non dire estremamente poco pratico, di fronte al tripudio di dispositivi, nelle nostre tasche o case, in grado di effettuare un qualsivoglia calcolo con zero sforzi e ancora meno attese. Ma anche una vera e propria meraviglia tecnologica, quale il mondo non aveva visto prima, e che probabilmente non avremo modo di conoscere mai più.
È una questione semplicemente fondamentale, che potrebbe definirsi alla base del concetto stesso della matematica; la suprema scienza, dalle infinite applicazioni, che si trova riconfermata nell’osservazione di ogni aspetto della mente umana e il mondo naturale: ciò che a noi può spesso apparire complesso, innaturale, una tremenda forzatura, è in realtà intessuto nel telaio stesso del nostro universo, presente nel funzionamento logico di ogni singolo fattore. Pensa, per esempio: una comune addizione. Se io prendo un abaco, ed inizio a spostare le sue sfere da una parte all’altra, curandomi di riportare le decine al punto giusto, in realtà non sto facendo altro che mettere in ordine una serie di semplici oggetti, secondo un metodo studiato da generazioni. Eppure, mi sembra di possedere la chiave dell’Alfa e dell’Omega della creazione… Perché naturalmente, è tutto collegato, sulle diverse scale della logica e del tempo. L’unica difficoltà e riuscire a comprenderlo e acquisire gli strumenti delle idee. Una direzione in cui, meravigliosamente spesso, possono condurci guide come i personaggi fino a qui citati, o perché no, le loro opere maestre, invenzioni destinate ad influenzare il corso stesso del pensiero umano. Individui affini al grande filosofo naturale Gottfried Wilhelm Leibniz (1646 – 1716) che oltre a coltivare una rivalità a distanza con il suo collega Isaac Newton, su chi avesse in effetti rivelato per primo al mondo la realtà dell’analisi matematica, aveva prodotto nel 1694 una favolosa macchina, definita Stepped Reckoner (il calcolatore a gradini) per via del particolare cilindro rotativo che era alla base del suo arcano funzionamento. Ma prima di vederne nei dettagli il funzionamento, osserviamo ancora per un attimo questa sua moderna erede svizzera, che continuò a costituire il non-plus-ultra del suo segmento di mercato, almeno fino all’introduzione delle calcolatrici rotative di Odhner, introdotte in Russia nel 1873. La Millionaire fu la prima versione commercialmente di successo, risalente ad “appena” un secolo e mezzo dopo l’invenzione di Leibniz, di un sistema meccanico per tenere i conti in automatico, per di più lungo 66 cm e pesante poco più di 32 Kg. Qualcosa di incredibile, considerata la sua complessità meccanica. E una stazza che difficilmente avrebbe permesso di definirla portatile a tutti gli effetti, benché la mettesse nel reame degli oggetti che potenzialmente potevano essere trasportati, da una stanza all’altra di un ufficio, la fine di risolvere i problemi di calcolo di più persone o dipartimenti. Un vero laptop ante-litteram, potenzialmente affine ai primi personal computer dotati di una batteria. Benché qui, l’intera energia necessaria al funzionamento, fosse fornita dagli stessi muscoli dell’utilizzatore…

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Basta un video a dimostrare la svettante grazia del Cervino

Cervino

Tra le prime immagini, ce n’è una particolarmente significativa: un piccolo cairn, o cumulo di pietre, costruito da qualcuno per marcare il suo passaggio, in prossimità di uno dei molti sentieri alpini che circondano quel grande picco solitario. La struttura messa in posizione dalla mano umana, senza l’uso di cemento o pozzolana ma soltanto grazie a un certo grado di equilibrio, si staglia su un fondale azzurro cielo, tra le nubi vorticanti tipiche dello spartiacque principale alpino. Quando a un tratto, d’improvviso, dalla foschia emerge una famosa sagoma, che s’innalza netta contro il nulla; è netta eppure frastagliata; la sua punta pende da una parte; nel complesso è come una piramide, o la lama del coltello. Ma è allora che, per un gioco della prospettiva, avviene l’imprevisto e l’impossibile. Perché le due cose, il macro e il micro, l’incommensurabile maestosità della natura e il giocoso gesto di un passante occasionale, vengono inquadrate l’una innanzi all’altra, in una giustapposizione che dimostra la loro apparente somiglianza. E sarebbe davvero difficile da biasimare, chiunque si sia messo, in un pomeriggio d’estate, a raccogliere ed ammonticchiare tutti quei macigni, andando a modificare artificialmente un paesaggio immutato da millenni. Perché è assolutamente condivisibile un simile gesto, di chi vedendo il bello smisurato, tenta di ridurlo a dimensioni comprensibili, per gioco e accrescimento spirituale. Poi di lì a poco, l’inquadratura si allarga: di cairns, qui ce ne sono almeno una dozzina, nient’altro che una minima parte di quelli disposti lungo i sentieri usati per raggiungere una vetta tale, estremamente tecnica e complessa, che nonostante questo viene annoverata tra le più celebri ed iconiche dell’alpinismo internazionale. Vivere l’esperienza, respirare quell’aria rarefatta, piantando la propria piccozza lungo le fessure in pietra metamorfica del brullo monte, fino all’esperienza del trionfo finale, a seguito del quale si alzano le braccia verso il cielo! Sicuri per un attimo di essere in cima al mondo, nonostante la logica ci dica di essere soltanto sulla sesta delle montagne delle Alpi per altezza, ad appena 4478 metri dal livello del mare. Già, ma come sarebbe mai possibile descrivere una tale sensazione a chi non l’ha mai provata…Offrire, tramite uno schermo digitale, uno scorcio credibile di cosa voglia dire superare totalmente il senso di vertigine, per concludere un pellegrinaggio verso il cielo?
L’ultimo a provarci, con questo video realizzato la scorsa estate ma diffuso tra il grande pubblico del web esattamente un giorno fa, è stato Tyler Fairbank della Light Owl Productions di New York City, fotografo e regista viaggiatore, che si è messo in mostra all’improvviso col rilascio in rapida sequenza di due video, questo, intitolato semplicemente Matterhorn dal nome del versante svizzero della montagna ed uno ambientato in Sud Africa, tra elefanti, giraffe e tutto il resto dell’allegra compagnia bestiale (SAFARI South Africa – è anch’esso molto bello). L’approccio di queste sue creazioni è molto interessante, proprio perché potrebbe dirsi la versione registica del gesto del costruttore di quel cumulo di pietre non a caso evidenziato, che in qualche maniera riduceva ciò che aveva intenzione di onorare, non certo per sminuirlo, bensì allo scopo di creare una feconda giustapposizione. Il che significa, in una creazione artistica orientata sul montaggio progressivo, come per l’appunto è un qualunque video, rimpicciolire l’asse del tempo, creando quella che viene comunemente definita una sequenza di time-lapse. Ma qui in effetti, viene compiuto pure il passo successivo…

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Gli ondeggianti ponti della Svizzera sospesa

Carasc Bridge

Si può giungere alla stessa teoria in maniera indipendente, ma in determinati casi, una soluzione può essere talmente inaspettata nella sua semplicità, nonché ansiogena per chi la sperimenta per la prima volta, che non sono in molti a scegliere di dargli una forma materiale. E non a caso esistono, nell’intera storia dell’umanità montanara, soltanto due civilizzazioni che abbiano costruito questo tipo di ponte nei loro territori, per lo meno prima che la globalizzazione facesse di noi tutti un grande, operoso melting pot: i popoli andini dell’America precolombiana da una parte (XVI sec. ca.) il Tibet coévo alla dinastia cinese degli Han (220 a.C.) dall’altra. Entrambi mondi che ricorsero al ponte sospeso, soprattutto, per un’esigenza imprescindibile. Perché spostarsi non è facile, ma non può esserci davvero aggregazione, un senso di fondamentale appartenenza, a meno le strade non s’irradino a partire da una capitale, come il mozzo della ruota che fa muovere il passaggio del progresso. Anche se i suoi raggi sono morbidi ed oscillano nel vento; anche se una persona con le braccia allargate per reggersi alle funi di sostegno, lo sguardo dritto innanzi a sé, non può che percepire il vuoto, sotto la sua mano destra, ed il vuoto, sotto quella sinistra. Mentre gli uccelli sfrecciano in quell’ambito del tutto vuoto, inconsapevoli degli uomini che ne hanno fatto una sgradita circostanza. Il ponte Carasc, che unisce con una sottile striscia lunga 270 metri i due comuni di Carasso e Sementina, è una visione che può far venire le vertigini, e non soltanto per l’aspettativa che già cresce al pensiero di percorrerlo da un lato all’altro. Pur trattandosi di un elemento architettonico moderno e quindi per definizione universale, è impossibile mancare di considerarlo in qualche modo, concettuale se non pratico, la manifestazione massima di un oggetto fuori dal contesto. Due soli punti di sostegno, a limitare drasticamente l’impatto ambientale, da cui partono 6 cavi di metallo, dal diametro di 36 mm, i cui due inferiori, perfettamente paralleli, trasformati in una lunga piattaforma dalla disposizione concatenata di ben 728 assi di larice, un legno particolarmente resistente e spesso usato per costruire case di montagna. Nell’intera storia d’Europa, prima del suo completamento, nulla di paragonabile era mai esistito fuori dalla Svizzera, e anche lì, non prima del 2004, con la costruzione del primo dei due Triftbrücke (ponti del ghiacciaio del Trift) lungo “appena” 101 metri. Questo perché lo stesso concetto di trovarsi a camminare, sospesi nel vuoto a 70-130 metri, come discendenti dell’antica Roma non ci appartiene e non ci apparterrà mai. Il che determina dal punto di vista filosofico la funzione di questo edificio, fatto di spazi vuoti ancor prima che materiali: affascinare l’occhio degli spettatori, colpire la mente di chi ne apprende l’esistenza. Facendo nascere in lui, idealmente, un bisogno irresistibile di fare l’esperienza di attraversamento. Sperimentare il flusso dell’adrenalina, almeno per una volta, grazie all’impiego di un sistema che non solo appare relativamente accessibile, ma è ancor più sicuro che guidare lungo i tornanti che permettono di avvicinarsi all’obiettivo, ovvero la chiesa medievale di San Barnárd, con affreschi databili al remoto 1400. Dal nuovo all’antico quindi, con lo scopo di abbreviare un ripido percorso, conducendo chi lo voglia fino ai luoghi dell’antico paese sul monte, storicamente inaccessibili assieme ad un simile importante monumento. Così, è indubbio che il ponte sia principalmente un’attrazione per turisti, ma rappresenta anche una parte della nuova Svizzera, che all’improvviso ha rilevato la ricchezza duratura di quei luoghi, in cui un tempo i minatori trascorrevano dure giornate, e che dopo l’esaurimento del carbone del Ticino furono lasciati nell’incuria, fino al degradarsi dei vecchi metodi di accesso, sentieri riconquistati dalla furia dell’inarrestabile vegetazione.

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Il gioco degli equilibristi da 1.600 tonnellate

Liebherr Balancing Game

Non si può mai sottovalutare lo spontaneo senso di divertimento e meraviglia che deriva dal vedere in prima persona, durante una dimostrazione aziendale, la gru per carichi ultra-pesanti LR 13000, la più potente al mondo della sua classe, con la capacità di elevare a 140 metri ben 1.600 tonnellate, che fa di un fuscello la sua sorella LR11350, a sua volta impegnata nel compito di far allontanare dal terreno la LR1350.1 (“appena” 300 tonnellate di carico massimo, ah ah ah). Ma le cose iniziano a farsi davvero interessanti soltanto qualora quest’ultima, per un vezzo del momento, non se ne stesse lì passivamente, ma piuttosto fosse stata anche lei dotata di un’ulteriore carico da mettere in mostra in mezzo all’aria, ovvero la graziosa LR1100 dal simpatico centinaio di migliaia di Kg alla portata del suo gracile braccino di metallo. Ora, giunti a questo punto molti avrebbero potuto dire: “Adesso basta” Oppure: “Non ce la faccio, andiamo a casa” Ma non così il gruppo Liebherr con sede presso la cittadina svizzera di Bulle, nato dalla mente fervida dell’inventore Hans L, oggi cresciuto fino a una capitale di 816 milioni di euro, sedi in quattro continenti ed oltre 40.000 dipendenti. Perché la ricorsività progressiva delle gru giganti è un’arte, e come tale va portata alle sue estreme conseguenze: il macro nel micro, nel macro e poi alla fine, sotto l’occhio degli spettatori giunti fino in fiera, addirittura la più piccola di quelle gru che tiene col suo gancio la piattaforma, ospitante un fedele modellino di se stessa, scelto fra quelli che l’azienda in genere regala ai suoi clienti più affezionati.
Il fatto è che gli ingegneri vivono su di una scala differente. Tanto che persino quando giocano, guadagnano, e nel farlo smuovono le metaforiche montagne. Questo concetto di trasformare il sollevatore nel carico di un altro e così via, con un notevole ritorno di pubblicità virale, è un’operazione che dev’essere stata studiata a fondo, con calcoli accurati e test simulativi di natura alquanto approfondita. Tutti noi abbiamo visto, a più riprese ed anche negli ultimi giorni in Olanda, l’effetto disastroso di un sollevamento inopportuno, con il conseguente rovinare dell’intero macchinario con il carico sopra ciò che aveva attorno. In tali circostanze, i danni alle cose inanimate sono solamente la parte minore del problema, mentre viene messa in pericolo la stessa incolumità, al minimo, di coloro che hanno il compito di dare l’input dalla solida cabina di comando. Ciò che tutti sanno, quindi, osservando un simile spettacolo, è che la fiducia nei confonti della sua serie di gru cingolate della serie LR è pressoché assoluta non soltanto da parte di coloro che le vendono, ma anche della gente che si trovava lì a guardare un tale esperimento totalmente senza precedenti. Almeno in quell’occasione del 2012 svoltasi presso la fiera dei Customer Days di Ehingen in Germania, qui montata ad arte in un video chiaro ed esauriente. Perché di performance similiari, realizzate a seguire dall’evento, online se ne trovano diverse, a chiara dimostrazione del successo avuto in un settore tanto apparentemente privo di creatività e voglia di distinguersi dal gruppo.
“Ma chi, chi mai potrebbe aprire la via nuova del progresso, se non coloro che hanno un modo di pensare totalmente fuori dagli schemi?” Sembra chiedere a gran voce questa pubblicità della Liebherr, con un velato riferimento all’omonimo fondatore, che riuscì a commercializzare per primo, nell’ormai lontano 1949, una gru a torre che fosse in grado di ripiegarsi su se stessa, ritrovandosi trasformata in autotreno in grado di spostarsi senza ausilii esterni. Escluso forse quello di un trasportatore dei suoi contrappesi, variabilmente titanici sulla base del bisogno di giornata. Per non parlare di tutto quello che venne (subito) dopo…

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