Finché giunse l’attimo profetizzato, il singolo momento, l’apocalittica battaglia, il vertice di convergenza delle linee del Destino ed il significato ultimo di questa guerra: Razgriz, la grande bestia dalle ali nere. Un mostro mitologico ed il nome di quella squadriglia. Fra un secolo saranno in pochi a ricordare il vero nome di colui che ci ha salvati. Ma le sue gesta, nelle storie e le leggende di un intero popolo, continueranno a riecheggiare sui rintocchi e negli annali dell’indispensabile realtà. Retorico? Metaforico? Filosofico? Nient’altro che parole, quelle usate per l’appunto in un particolare tipo di racconto, che possiamo ricondurre in linea culturale a una matrice proveniente dai paesi d’Oriente. Quella che riusciamo a ritrovare, pronta per le antologie, nella famosa serie di avventure digitali della Namco, combattute a colpi di mitragliatrici e missili a ricerca sugli schermi di console per videogiochi e PC. E in molti ricordiamo quella sensazione, iperborea e trascinante, di riuscire a disegnare linee acute tra i palazzi di fantastiche metropoli del tutto immaginifiche, all’interno di scenari tanto fantasiosi quanto imprevedibili attraverso quasi 25 anni di titoli ai massimi livelli del proprio genere di riferimento. Che potrà anche non essere realistico nel proprio svolgimento (d’altra parte, quale vero aereo da combattimento può sparare 100 missili nel corso di una singola battaglia?) ma ha sempre avuto la caratteristica paradossalmente sorprendente d’impiegare fusoliere ed ali chiaramente derivate dalla reale tecnologia bellica del nostro mondo. In una letterale interpretazione di creatività post-modern, nella quale un’arma viene valutata unicamente per quello che sembra, ed è in grado di fare. Piuttosto che in funzione delle cupe implicazioni della sua stessa esistenza. Armi come, per l’appunto, il General Dynamics F-16 Fighting Falcon, che qui vediamo sfrecciare a velocità impressionanti poche decine di metri sopra lo skyline di una delle più riconoscibili città statunitensi. Con il piccolo, trascurabile punto di distinzione, di essere riuscito a farlo nel mondo tangibile del nostro stesso Universo.
Perfetta unità di mente, intento e preparazione tecnica pregressa, oltre i limiti più chiaramente concepibili da chi si limita a guardare in alto, puntando il dito tra le nubi rarefatte. Verso l’incredibile sagoma a forma di freccia del Maggiore John “Rain” Waters, membro della squadra di dimostrazione delle Forze Aeree statunitensi, all’interno della cabina di comando del velivolo che maggiormente s’identifica con l’immagine prototipica del suo corpo d’armata, che ufficialmente vede il proprio soprannome accomunato a quello del rapace volatile per eccellenza, ma che in molti preferiscono associare alla forma ed all’immagine della Vipera, sia in senso biologico che (inaspettatamente) per l’ispirazione diretta ed acclarata dal telefilm di fantascienza Battlestar Galactica del 1978, i cui caccia spaziali usati dagli umani contro i propri rivali robotici assomigliavano vagamente all’aereo appena entrato effettivamente in servizio. E di acqua ne sarebbe passata molta, così come l’entropica misurazione delle orbite e i tragitti planetari, fino al momento qui documentato, dell’aprile del 2021 in cui possiamo prender atto di una simile sequenza straordinaria, nel corso dello show “Air & Sea” capace di costituire il momento culmine dell’annuale week-end del Memorial Day, finalizzato a commemorare i militari americani caduti nelle loro molte battaglie. In apparenza prelevata in modo pressoché diretto da un episodio ludico della sopracitata epopea, per come sembra violare a più riprese le presunte norme della ragionevolezza nel volare sopra le aree densamente popolate. Forse proprio grazie alla particolare dislocazione geografica, con tali vaste aree marittime, della notevole città di Miami…
costa
i360, la strana torre panoramica sulla costa meridionale d’Inghilterra
Nove pali possono essere ammirati con la bassa marea lungo la spiaggia di Brighton, nella storica contea inglese del Sussex, presso la città architettonicamente interessante di Bristelmestune, oggi più frequentemente indentificata con la semplificazione etimologica di Brighton. Otto sono dei costrutti arrugginiti, dell’altezza approssimativa di tre metri e mezzo, svettanti come zanne solitarie di un massiccio dinosauro ormai polverizzato dal tempo. Il nono sale invece un po’ più in alto, arrivando a misurare con la sua ombra, dal mattino a sera, i più remoti confini visibili del lungo mare. Per quei 162 metri, distribuiti in soli 4 di diametro, tali da farne una delle torri più alte e sottili al mondo. Ma chi fosse naturalmente, e comprensibilmente incline a scambiare da lontano una simile colonna per un’antenna utile alle radiocomunicazioni intercontinentali dovrà ben presto ricredersi, allo spuntare da oltre l’orizzonte di una grande capsula che ne risale il verticale percorso, il cui aspetto sfolgorante sotto la luce dell’astro solare può indicare solo un materiale: vetro, trasparente e inusitato, soprattutto in tali circostanze frutto del più estremo ingegno della società umana. L’avevate mai vista prima? Non è particolarmente nota all’estero. Il che in un certo senso, può indicare la condizione poco desiderabile di un fallimento comunicativo. Già perché la linfa e le vicissitudini di un così atipico punto di riferimento, possono individuarsi unicamente nella quantità di turisti che decidano di visitarlo ogni giorno, settimana e col trascorrere dei mesi. E quest’ultimo anno appesantito dalla pandemia, sotto un simile punto di vista, non dev’essere di certo risultato un aiuto.
Ecco, perciò, l’ultimo video promozionale con indicazioni sulla sicurezza del contagio, pubblicato dalla West Pier Trust, associazione culturale e amministrativa incaricata di curare la promozione dell’i360, risposta dell’Inghilterra Meridionale al grande successo comunicativo e d’immagine della ruota panoramica London Eye. Monumento londinese che avvicina l’estetica della capitale a quella di un colossale Luna Park. E se vogliamo ampliare i confini di quell’area fino alle acque vorticose del canale, non potremo che scorgere quest’altra concessione ad un simile quadro sorprendente, con quel tipo di attrazione che generalmente sale, sale e sale verso il cielo; per poi ricadere, con velocità inquietante, verso il compatto suolo in silenziosa attesa. Ed è tutto esattamente uguale tranne questa specifica modalità d’impiego (difficilmente scalabile senza indesiderabili implicazioni strutturali) nella creazione opera proprio di quello stesso studio architettonico Marks Barfield, responsabile anche del sopracitato monumento sulla riva su del Tamigi. Così due hostess della British Airways, sponsor di una simile improbabile meraviglia, accolgono il pubblico all’interno dell’ufo trasparente con la forma di una grande cipolla, prima d’indicare la collocazione già delimitata dagli “spicchi”, ciascuno corrispondente ad uno dei pannelli che compongono la forma della navicella. Che puntualmente, la concludersi del giro della durata di circa 30-35 minuti, vengono accuratamente disinfettati dal personale operativo dell’attrazione. Certo, nonostante tali ineccepibili linee guida, risulta difficile immaginare per il 2020 e 2021 una quantità di visite anche soltanto prossime alle 800.000 annue, ritenute neccessarie a partire dal completamento nell’aprile del 2016 per riuscire a giustificare l’investimento pregresso di 46,2 milioni di sterline.
L’i350, con un nome che imita lo schema e discende chiaramente dal successo, all’epoca insuperabile, dell’azienda americana Apple, che cinque anni fa pareva dominare incontrastata il mondo dei device tecnologici su scala pressoché globale, costituisce dunque la dimostrazione di quali confini sia possibile oltrepassare, e con quanti approcci tecnologici finalizzati all’obiettivo, sia possibile riuscire a conseguire un qualche cosa di davvero sorprendente. In un contesto urbano e storico, quello di Brighton, già tutt’altro che privo di luoghi e strutture caratteristiche pregresse…
Primosten, l’isolotto con la forma di un pesce sulla costa della Croazia medievale
Attraverso i lunghi e complicati anni dell’antichità guerreggiante, molte furono le soluzioni ricercate per proteggere gli insediamenti dall’invasione, e conseguente conquista, da parte di collettività ostili. Così rovina degli eserciti, furono di volta in volta le alte mura, i fossati o le scoscese pareti di collina in cima alle quali intere generazioni di agglomerati urbani furono laboriosamente edificate, nella speranzosa consapevolezza che anche una semplice milizia di arcieri e combattenti all’arma bianca avrebbe potuto respingere una forza molto più numerosa. Mentre comparabilmente più difficile da sfruttare risultava essere, di suo conto, l’uso di quel territorio che risulta invalicabile per sua esplicita definizione. Per lo meno da parte di un’armata di terra dotata di mezzi per lo più convenzionali: sto parlando del mare salmastro e qualche volta tempestoso, ambiente adatto per lo più a pesci, crostacei ed altri esseri nettamente distinti dalla genìa militare umana. Ed ecco, se cercaste la conferma nettamente chiara ed altrettanto tangibile di un simile teorema, l’esempio pressoché perfetto all’altro lato dello stretto Mar Adriatico; la cittadina dell’ex-Jugoslavia che eravamo soliti chiamare per qualche ragione Capocesto (da Caput Cistae) ma che i suoi abitanti battezzarono fin da qualche anno dopo l’epoca della remota fondazione attorno al XV secolo, Primošten. Dal verbo in lingua locale primostiti che significa “gettare un tramite” su qualcosa, come il passaggio pedonabile costituito da quell’utile ponte levatoio, che al sopraggiungere di una situazione di crisi poteva essere immediatamente fatto scomparire, trasformando il piccolo borgo in una letterale fortezza particolarmente difficile da espugnare.
Per un’attenzione nei confronti della sicurezza che possiamo facilmente individuare, nella necessità da parte dei suoi primi abitanti di nascondersi e prosperare lontano da una civiltà ostile. Narra infatti il sito ufficiale della cittadina, gestito direttamente dall’amministrazione comunale, di come queste genti in cerca di rivalsa fossero dei seguaci della problematica eresia del Bogomilismo, che credendo nell’esistenza di due figli del Signore, Michael e Sataniel, attribuivano il mondo sensibile all’opera del secondo, princìpio malvagio dell’esistenza. Il che aveva generato non pochi conflitti con la chiesa ortodossa della Bulgaria e zone limitrofe, portando ad una piccola diaspora dalla quale sarebbe nata, secondo alcune interpretazioni, la corrente catara del pensiero cristiano. Avendo più volte ricevuto la protezione della locale nobiltà di Sebenico, soprattutto durante gli anni dell’invasione turca tra il XV e il XVI secolo, la popolazione dell’isolotto a forma di pesce crebbe esponenzialmente a partire dalle circa 80 famiglie del primo insediamento. Con il tempo, e un successivo lungo periodo di dominio da parte della Serenissima Repubblica veneziana, la situazione religiosa di Primosten si sarebbe normalizzata, portando alla costruzione della chiesa a San Giorgio che costituisce tutt’ora la più antica testimonianza storica dell’isolotto, assieme alla porta e le mura costruite mediante tecniche d’importazione italiana. Il cui pinnacolo tutt’ora si erge, al centro della piccola collina circondata dalle acque oggi collegata alla terraferma mediante l’impiego di un istmo artificiale, anche perché i circa 2.800 abitanti del paese hanno da tempo costruito abitazioni sulla costa stessa, in maniera molto più conveniente per continuare a gestire i propri allevamenti e campi. Accentuando ulteriormente quella connessione con la vita agreste che per lungo tempo fu il fondamento economico di questa intera regione, portando alla creazione e successiva diffusione del particolare sistema delle vigne di Šibenik, create mediante lo spostamento e successiva settorializzazione del terreno pietroso e infertile della regione, verso l’implementazione di una serie di appezzamenti progressivamente ordinati al fine di trarre il massimo da un suolo tutt’altro che ospitale. Il tutto, a partire dal recente del 2017, sotto la sguardo di una sentinella particolarmente attenta ed immediatamente riconoscibile per il suo distintivo aspetto…
2021: un crollo improvviso minaccia il forte marittimo di Enrico VIII
Una scena particolarmente spiacevole quella che si sarebbe presentata di fronte agli occhi dei primi visitatori della giornata, durante cui sarebbe sopraggiunta l’inevitabile chiusura dell’edificio, le guide dell’associazione Amici del Castello di Hurst e gli addetti della commissione British Heritage, incaricati di ispezionare lo stato dei fatti successivamente alla lunga tempesta verificatosi nel corso della notte dello scorso 26 febbraio 2021. Il giorno in cui l’antico edificio, capace di resistere alle mire espansionistiche di Francia e Sacro Romano Impero, le guerre rivoluzionaria e napoleonica, nonché i grandi conflitti mondiali del ‘900, si era infine arreso al più inesorabile degli avversari: il semplice trascorrere del tempo, coadiuvato dai corsi e ricorsi delle maree, pioggia, neve e grandi ondate, capaci di erodere un poco alla volta la stessa terra e ghiaia sopra cui poggiano le sue fondamenta risalenti al Rinascimento. Nient’altro che quel Hurst Spit, striscia a forma di mezzaluna dalle origini naturali ma collocata strategicamente all’ingresso della grande insenatura nota come Soylent posta a ridosso dell’isola di Wight, che avrebbe potuto concedere a un’ipotetica forza di spedizione navale un passaggio privo di ostacoli fino alle importanti città portuali di Portsmouth e Southampton. Stiamo parlando, in altri termini, di una delle principali porte dell’Inghilterra meridionale, ponendo le basi della costruzione di un bastione destinato a sorgere, tra tutte le epoche possibili, durante il regno di un sovrano dalla vita familiare particolarmente turbolenta.
Era dunque il 23 maggio del 1533 quando il re Enrico VIII d’Inghilterra ottenne dall’arcivescovo di Canterbury l’annullamento del suo matrimonio con Caterina d’Aragona, che si era dimostrata incapace di concedergli un figlio maschio, scatenando una serie di eventi che avrebbero portato al più grande scisma religioso della sua epoca, non prima di mettere l’intero paese diplomaticamente sotto assedio. Non ci volle molto infatti perché Carlo V, nipote dell’ex-regina, cogliesse l’occasione per inviare una serie di minacce all’indirizzo delle isole settentrionali, cogliendo anche l’occasione per allearsi con l’antico nemico francese in preparazione di un’imminente possibile invasione. Nel 1539 quindi il re Tudor, che si era nel frattempo già risposato altre due volte, proclamò un editto utile come deterrente di guerra, chiamato device (strumento) per la fortificazione del Soylent mediante la costruzione di quattro fortezze: Calshot, Cowes Est ed Ovest e al centro di tutto questo, la possente batteria difensiva di Hurst, destinata a raggiungere il completamento dopo tre anni di lavoro nel 1544. Il cosiddetto “castello” aveva tuttavia un’aspetto sensibilmente diverso nel XVI secolo rispetto a quello dei nostri giorni, presentandosi come poco più di una bassa e larga torre, con tre bastioni attorno e 26 pezzi d’artiglieria di varie dimensioni, tra cui saker, culverine, semi-cannoni e bocche di fuoco navali. Il forte si rivelò prevedibilmente molto costoso da gestire, con un capitano, il suo vice, 12 artiglieri, 9 soldati ed un addetto al trasporto delle munizioni, diventando inoltre superfluo alla stipula di una pace duratura con la Francia nel 1558, dando inizio al più lungo periodo di pace tra le due nazioni a memoria d’uomo. Iniziò, quindi, il lungo periodo di declino inframezzato da restauri ed ampliamenti, in questo luogo che la storia semplicemente non poteva accettare di lasciare al suo destino…