Silt, l’albergo in un cappello incorporato nei frangiflutti marini del Belgio

Alla fine di marzo sulla costa delle Fiandre occidentali, presso la spiaggia antistante il comune di 20.000 abitanti di Middelkerke, luci e fantastici colori hanno mutato le ombre sul principio di una sera da ricordare. Creature misteriose che marciavano sul lungomare, scoppi pirotecnici, uomini sui trampoli e mangiafuoco. E tutto sotto la struttura atipica di un oggetto dalla forma di un cilindro svasato inverso, ricoperto dall’involucro tondeggiante di un reticolo romboidale. Da ogni punto di vista rilevante, un Monumento, tranne quello dell’impiego quotidiano, capace di renderlo una cosa Utile creata in base a linee guida attentamente pianificate. Chiamato Silt (“Sedimenti” nelle lingue olandese o inglese) l’edificio di sei piani e mezzo è il frutto per così dire collaterale di due anni di lavoro ininterrotto, sulla base di un progetto fortemente voluto dall’amministrazione locale principalmente finalizzato a proteggere i palazzi a ridosso del bagnasciuga dalle rare, ma spesso devastanti tempeste meteorologiche del Mare del Nord. Quando l’occasionale onda anomala, inserendosi tra gli edifici, era solita accerchiare e spingere contro le porte, bussando come il simbolo devastatore di un’antico mutamento delle stagioni. Ed a cui la gente di qui adesso sembra dire: “Mai più!” Grazie all’integrazione, in un tratto di strada diventato adesso simile ad una banchina, di un tipo di struttura longilinea sopraelevata, costruita con materiali inamovibili come cemento, acciaio e vetro rinforzato. Al che parrebbe totalmente lecito, aver scelto di voler donare un ulteriore scopo dell’esistenza, essendo la barriera stessa cava nella sua parte interna, ed ospitando in questo modo una grande sala per gli eventi, le conferenze, le mostre artistiche di zona (un rendering promozionale, ad esempio, mostra qui esposto uno degli animali eolici creati dal famoso artista olandese, Theo Jansen). Il che sarebbe già notevole a suo modo, anche senza entrare nel merito della simmetrica torre sovrastante, edificio ad uso misto contenente le due tipologie di spazi tradizionalmente interconnessi, di stanze d’albergo ed il grande tempio dedicato alla Dea della fortuna, più comunemente detto casinò dei nostri tempi contemporanei. Ove spendere le proprie risorse pecuniarie, mentre si contempla di tanto in tanto il moto reiterato delle onde ben visibile dalle finestre panoramiche, attentamente distribuite in modo da massimizzare l’accesso a ritagli di cielo nonostante la solida struttura in legno che costituisce la scorza esterna dell’edificio. Questo perché ZJA, lo studio architettonico di Amsterdam fondato da Zwarts e Janma nel 1990, ha posto in essere per le presenti circostanze un edificio non soltanto iconico nel proprio aspetto, ma esso stesso straordinariamente solido e capace di resistere alle sollecitazioni esterne di catastrofi dalla portata generazionale come le cosiddette tempeste da “una volta ogni mille anni”. Con buona pace dei dirimpettai pre-esistenti del lungomare, per cui si erge a costituire una barriera indiscutibile anche agli sguardi, un tempo in grado di scrutare senza ostruzioni fisiche fino alle ombre fantasmagoriche della distante costa inglese…

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L’impresa del francese che tentò di avvicinare il volo dei paleotteri ai disegni di Leonardo da Vinci

Maestoso, rigido, elegante, l’aereo progettato dagli umani procede sulla rotta attentamente tratteggiata in linea retta, ragionevolmente indisturbato dalle condizioni climatiche, il vento avverso (che in effetti, lo aiuta a sollevarsi!) E abbassa le sue ruote soltanto una volta che ha raggiunto la destinazione opportuna. L’aereo progettato dalla natura, di contro, è imprevedibile ed erratico. Esso compie il suo decollo senza un obiettivo chiaramente definito, ma piuttosto si aggira in linee intersecantisi tra un fiore e l’altro, posandosi ora qui, ora lì. Prima della metà del giorno, il suo addome è già coperto di polline. Mentre dà sfoggio di un eccezionale maneggevolezza in base alle opportune condizioni vigenti. Esso è anche, nella maggior parte dei casi, non più lungo di qualche centimetro. Conveniente, nevvero? È tutta una questione di obiettivi, chiaramente. Eppure non si può affermare che dal punto di vista cosmico, una soluzione sia superiore all’altra. Ed è chiaro che costituirebbe un valore aggiunto di notevole entità, riuscire a coniugare in qualche modo gli aspetti migliori di entrambi i mondi. D’altra parte fin dai primi timidi approcci al distacco controllato da terra, gli antenati degli odierni scienziati ed ingegneri tentarono più volte d’imitare il volo con ali battenti. Vedi l’opera dei medievali Elmer di Malmesbury ed Abbas Ibn Fabbas attorno all’anno Mille, ma senz’altro più famosamente e con importanti strascichi nella cultura popolare Leonardo da Vinci nel 1485, che disegnò e presumibilmente realizzò un efficiente dispositivo rispondente alla definizione di ornitottero, realisticamente in grado di andare molto vicino all’evidente obiettivo di partenza. Tanto che affinché qualcuno riuscisse, effettivamente, a ri-creare un qualcosa paragonabile ci sarebbero voluti altri quattro secoli e venti anni, grazie all’opera di qualcuno che aveva studiato a lungo i presupposti. Prima di approntare, attrezzi e materiali adatti alla mano, il dispositivo più vicino a una libellula mai creato da mani pensanti. Sto parlando in questo caso del modello Dubois-Riout, monoplano svolazzante a creato dalla mente di René Louis Riout, ingegnere francese con l’aiuto del connazionale celebrato con la prima parte del nome. Forse uno sponsor? Chi può dirlo. Fatto sta che tale modello preliminare, dotato di un singolo paio di ali e in grado di spingersi in avanti già nel 1909 in forma di modellino grazie alla deformazione autonoma delle sue ali, fu giudicato degno di ricevere il prestigioso premio attribuito dalla commissione Lépine, creato soltanto 8 anni prima per ricompensare i maggiori inventori e creativi di tutta la Francia. Benché la versione a dimensioni reali dell’apparecchio sarebbe andata distrutta durante una prova di volo nel 1916, d’altronde, ciò non fu giudicato sufficiente a perdersi d’animo da parte del suo creatore, che con il concludersi della grande guerra decise di tentare nuovamente, facendo questa volta le cose più in grande. Il che avrebbe incluso, caso vuole, l’aggiunta di un secondo paio d’ali in parallelo lungo l’estendersi della fusoliera. Ed una coda lunga e sottile, del tutto paragonabile a quella tipicamente mostrata dagli antichi insetti appartenenti all’ordine degli Odonati…

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Pixel, archi ed orti verticali per cambiare il vecchio volto della capitale d’Ecuador

Sul finire della scorsa settimana, in un angolo tra due eleganti boulevard, fronteggiate dal verde ed il profilo di distante montagne sfumate tra la nebbia, è stato inaugurato un interessante edificio. Dalle molte linee curve, con spazi alternativamente pieni ed aperti, esso costituisce una sorta di portale verso le regioni più spaziose e solari del proprio insediamento d’appartenenza. Ed alberi ne dominano e addolciscono il profilo, giustificando almeno in parte il suo nome altisonante: EPIQ, recante la firma di niente meno che il titolare dello studio archistellare BIG, con la sua sede centrale a Copenaghen.
Volendo interrogarsi su quale possa essere la città del Nuovo Mondo con edifici costruiti nel giro degli ultimi cinque anni collegati ai nomi di Carlos Zapata, Moshe Safdie, Phillippe Starck, Bjarke Ingels (BIG) e Ma Yansong (MAD) molti penserebbero subito ai più densamente popolati siti degli Stati Uniti, possibilmente un luogo dalla lunga storia d’urbanizzazione come le tentacolari metropoli di San Francisco o Chicago. Se poi aggiungessimo il dettaglio che si trovano tutti attorno ad un singolo, spazioso parco geometricamente perfetto ben pochi esiterebbero nell’indicare con il dito l’isola di Manhattan, pièce de résistance del centro che risponde allo scherzoso appellativo di Grande Mela. Ma persino un luogo come New York, con l’ampio spazio concesso alle opere sperimentali e i grandi grattacieli degni di cambiare e caratterizzare uno skyline, costituisce un discorso cittadino per lo più finito, dove un tanto significativo cambio del piano regolatore porterebbe a sconvolgimenti semplicemente troppo complicati da amministrare. Ve lo immaginate, di contro, cosa potrebbe significare per un polo abitativo frequentato da milioni di persone ogni giorno veder cambiare di punto in bianco la collocazione di un importante aeroporto? Sollevando come un velo, d’un tratto, i limiti da lungo in tempo imposti all’altezza massima degli edifici, per permettere ai capitalisti di ridisegnare i limiti di cosa sia effettivamente possibile erigere in quel particolare contesto. Questo è ciò che ha davvero avuto modo di verificarsi a partire dal febbraio del 2013 quando l’amministrazione cittadina di Quito, capitale dell’Ecuador, ha finalmente deciso di spostare l’angusto e pericoloso aeroporto di Mariscal Sucre costruito negli anni ’60, dal centro cittadino ad un quartiere periferico dalle superiori caratteristiche in materia di sicurezza. Il che ha creato un vuoto nelle prospettive architettoniche che chiunque, con il giusto capitale da investire, avrebbe potuto industriarsi a riempire e quel qualcuno sarebbe stato, nello specifico, la compagnia di sviluppo immobiliare Uribe Schwarzkopf, con esperienza decennale nel coinvolgere, guidare ed assistere alcuni dei nomi più importanti dell’architettura internazionale. Così come fatto con trasporto evidente a partire dal 2001, nei cui dieci anni successivi può vantare di aver creato 8.240 unità abitative nella sola capitale di appartenenza, per poi cambiare priorità verso la costruzione di una serie di edifici esteriormente e formalmente innovativi. Un letterale cambiamento di paradigma, per ciò che sia possibile edificare a poche centinaia di metri di distanza tra ambientazioni al tempo stesso naturali e poste in essere dall’uomo. Nel singolo paese al mondo con il maggior numero di specie vegetali per chilometro quadrato. E perché non far lo stesso, si saranno chiesti ai vertici, con gli edifici…

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L’attrazione vietnamita del Sukhoi che ha ricevuto l’anima di un motoscafo

Guerra non è sempre o necessariamente il conflitto insanguinato tra ordini o visioni differenti del mondo. Talvolta contrappore la necessità di alcuni e le distinte preferenze operative vuole dir mettere in campo armi, mezzi e sistemi per combattere, al solo fine di mostrare la capacità di farlo. Le forme in più di un caso iconiche create dal bisogno dei paesi alla conservazione della propria identità circostanziale, più che mera e insussistente apparenza. Allorché scrambles (decolla in gran carriera) il demone dalle ali a freccia e il doppio impennaggio di coda, la riconoscibile livrea mimetica nei confronti del cielo, allorché si erge nel futuro prossimo l’eminente occorrenza di quel rombo e quel potere… Dei cieli. Ma se l’elemento dell’etereo è irraggiungibile, così come può capitare in molte circostanze per la gente comune, allorché occorre andare in cerca di una valida sostituzione. E non c’è aria (secondaria) più calzante della mera acqua (bagnata) che costituisce l’intricata ragnatela idrografica di un luogo come questo. Dong Thap, Long An, delta del Mekong. Parte sita in prossimità dell’estrema punta meridionale della penisola, ove spostarsi su uno scafo è l’effettiva equivalenza di una doppia coppia di pneumatici nella stragrande maggioranza delle democrazie automobilistiche d’Occidente. Con la significativa differenza che qui non è la rete dei trasporti ad aver dettato la forma dell’agglomerato, bensì l’esatto opposto (e di che grandezza stiamo parlando? 1,8 milioni di persone in un’area poco superiore ai 3 Km) così come capisce molto bene Hoàng Thanh, il titolare, direttore e probabilmente erede di un particolare tipo di realtà aziendale. Costruttore su misura di piccoli motoscafi ad uso personale; difficile immaginare un ambito più vietnamita di questo. Con una certa indiscutibile passione per la rule of cool, quell’ideale estetico contemporaneo mirato alla riproduzione, ogni qual volta si renda possibile, del parco veicoli capace di ottimizzare o difendere il pianeta umano. Come per l’appunto, il Sukhoi Su-35 alias Flanker-E direttamente dagli hangar più avanzati del famoso bureau di Begovoj, zona settentrionale di Mosca. Che poi non sarebbe in condizioni normali un idrovolante, ma d’altronde qui non è neppure volante. Bensì l’unione soprattutto pratica e sapiente di un diversificato cumulo di rottami, parti di altri battelli, l’immancabile legno di balsa tagliato a misura ed un plurimo quanto accurato strato di doppia verniciatura impermeabilizzante. Il tutto tenuto assieme con quella che la descrizione al video chiama “colla a caldo” benché non sia del tutto chiaro a quale prodotto l’autore stia facendo riferimento. Almeno non quanto il suo numero di telefono e la promessa di accettare ordini per un’opera del tutto simile, alla modica cifra di 90 milioni (di Dong) – 3.640 dollari. Al tempo stesso una cifra importante, ma anche molto meno di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi…

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