Il filo ininterrotto del Tabasco, fiammeggiante tradizione americana

Mentre si abbandona uno dei centri della cultura Cajun a Lafayette dirigendosi verso Vermilion Bay, nella parte meridionale della Louisiana, diventerà possibile scorgerlo chiaramente: il profilo bulboso di un luogo del potere, collina o “isola” che dir si voglia, dove il Sud ebbe a giovarsi lungamente di due fondamentali risorse attraverso i secoli della sua identità culturalmente distinta. Per prima cosa il sale stesso, elemento costituente del diapiro (o cupola) geologica sopra cui sorge la comunità di Avery Island, un tempo sito di una delle più importanti miniere nordamericane di questa preziosa sostanza. E in secondo luogo, non necessariamente in ordine di rilevanza, la maggiore coltivazione tra i confini degli Stati Uniti della particolare pianta nota come Capsicum frutescens, generalmente associata allo stato del Messico meridionale denominato Tabasco, così come figura il nome del vegetale stesso. E non sarebbe certo inappropriato chiedersi, a tal proposito, perché qui venga coltivata in modo intensivo proprio tale varietà del genus cui appartiene l’intera varietà del più apprezzato condimento piccante della storia, laddove tali frutti, piccoli e difficili da amministrare, risultano così drammaticamente inefficienti rispetto alle alternative generalmente soggette alla produzione industriale dei nostri giorni. E non soltanto questo: poiché nei giorni prefissati sarà possibile osservare un rito particolarmente significativo. Del singolo padrone e presidente della tenuta, poiché è di questo che stiamo effettivamente parlando, che s’inoltra tra i filari coltivati come il prototipico Uomo del Monte, con in mano un particolare bastoncino di gradazione cromatica (le petit baton rouge) al fine di determinare quali frutti siano degni di essere inviati, con il loro prezioso contenuto di semi, presso le distanti piantagioni sudamericane della compagnia. Giungendo ad annodare, attorno a quelli ritenuti degni, un pezzo di spago che potremmo definire “il filo della conoscenza” cui faranno seguito le gesta attente dei suoi stimati sottoposti, mentre il resto dei peperoncini finiranno tritati e sotto sale, all’interno dei barili di seconda mano procurati dalla fiorente industria del whisky locale.
Ed è forse il fatto più stupefacente che un simile rituale non derivi in alcun modo dal contesto post-moderno dei nostri imprevedibili giorni, costituendo piuttosto l’eredità diretta di un singolo uomo vissuto attorno all’epoca della guerra civile americana (1861-1865) benché la sua effettiva identità resti tuttora largamente incerta. Secondo l’attuale entità societaria depositaria del relativo, nonché prezioso nome di mercato, giustamente definito quello de “l’unica salsa hot che la gente chiede per nome” sarebbe stato proprio il leggendario fondatore Edmund McIlhenny, banchiere di discendenza irlandese e scozzese, i cui nonni erano immigrati per cercar l’America durante gli anni in cui il puritanesimo veniva perseguito in patria, a scoprire il valore nascosto di una simile combinazione straordinariamente semplice, della pianta precedentemente importata, assieme ad una certa quantità di sale ed aceto. Benché la moderna analisi storiografica, nei fatti, abbia rintracciato un probabile predecessore in tale sforzo nella figura del colonnello (termine onorifico) locale Maunsel White, proprietario di 191 schiavi (!) che tuttavia si disse sempre contrario a un simile commercio (!!) benché lieto d’investire le copiose entrate delle proprie piantagioni nella messa in atto di festeggiamenti dalla straordinaria opulenza, durante il quale serviva ai propri ospiti una prima versione della salsa che ancor oggi tutti conosciamo. Ospiti tra i quali avrebbe figurato, per l’appunto, l’amico anch’esso parte della società più benestante dell’intero stato del Bayou.

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Finalmente dimostrato l’ottimo connubio tra kabuki e Star Wars

Si tratta di una di quelle notizie in grado di suscitare un immediato senso del dubbio, subito seguito dallo scetticismo inerente nel venire a patti con tali balzane idee. Almeno fino a quando, come avvenuto solamente poche settimane fa, la Disney stessa non fa il nome di colui che dopo tutto, avrà il compito di sostenere sul palcoscenico la pièce: niente meno che il solo ed unico Ichikawa Ebizō (in effetti l’undicesimo, ma comunque l’unico al momento) forse il più celebre attore vivente dell’altra forma tradizionale di drammaturgia giapponese, dopo i rigidi formalismi dell’ancor più antico teatro Nō. Nome degno di essere ereditato, attraverso i quattro secoli di una simile forma d’arte, di volta in volta dal secondo più importante e rappresentativo volto in qualità di yagō (屋号 – nome della casa o nome ereditario) come voleva l’usanza di tante arti e mestieri di questo paese. Destinato questa volta ad interpretare niente meno che il samurai Kairennosuke (魁連之助 ) sostanziale reinterpretazione del “cattivo” della più recente trilogia, attraverso i tre momenti più drammatici della sua esistenza d’individuo e guerriero: l’uccisione spietata del padre Hanzo (半蔵 – Han Solo) la ribellione contro il malefico maestro Sunonaku (敷能 – Snoke) ed infine la battaglia col fantasma di Ruku (琉空 – Luke) sul pianeta di sale, Crait. Un annuncio ai margini del quale, in aggiunta alla curiosa traslitterazione dei nomi, in realtà finalizzata a poterli rendere attraverso l’impiego d’ideogrammi piuttosto che l’usuale alfabeto sillabico katakana, colpiva la scelta di dividere la trama in atti cronologicamente così distanti, così lontano dal linguaggio cinematografico ma totalmente in linea col formato di tanti celebri drammi del teatro kabuki. Così dopo il completamento di una lotteria segreta, così come misterioso sarebbe rimasto fino all’ultimo momento il luogo dello spettacolo, destinato ad essere inscenato soltanto una volta e per un gruppo di fortunati spettatori a poche settimane dall’uscita nelle sale del prossimo film, la rappresentazione sarebbe stata successivamente proposta in streaming per un pubblico globale, affinché tutti potessero stupirsi, o in qualche modo rimanere colpiti, dalla strana ma efficace commistione d’influenze tanto (apparentemente) distanti.
Ichikawa Ebizō XI stesso, quarantunenne al secolo Takatoshi Horikoshi e figlio di un altro gigante del kabuki contemporaneo, Ichikawa Danjūrō XII, è il centro assoluto di ciascuna delle tre scene, con l’impressionante kimono nero dai risvolti rossi che allude all’armatura di Kylo e un’interessante katana, dotata dell’essenziale elemento cruciforme allusivo all’arma del personaggio da lui interpretato. Mentre al posto della maschera indossata da costui, egli stringe nell’altra mano la tesa di un ampio cappello nero, dal riconoscibile mon (emblema) geometrico, usato a più riprese come ausilio drammatico, scudo o schermo che accentua, piuttosto che nascondere le sue espressioni. Ma è l’effettivo pathos dei momenti, accompagnato da quel senso di un corposo melodramma che da sempre è una parte inscindibile della saga di Star Wars, esattamente come della trama di tanti drammi kabuki, a portare fino alle più estreme, nonché desiderabili conseguenze una tale espressione della rinomata creatività nazionale, così trasformata in mezzo che apparentemente riesce a completare il ponte tra due culture tanto diverse, ma simili nei sentimenti e talune idee di partenza. Nonostante nel procedere della vicenda, alcuni cambiamenti di storia dovessero necessariamente essere introdotti…

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Il prestigio e la potenza del makhila, arma da passeggio del popolo basco

Impettito sopra la sua sella, il paladino Orlando guardò ancora una volta in direzione della foresta, lungo la tortuosa strada discendente del passo di Roncisvalle. Una mano sopra il pomolo della sua spada, Durlindana, e l’altra sollevata per proteggersi dal sole, con il guanto d’armatura posto a catturare quel riflesso fastidioso ed insistente: “Mio saggio e fedele Oliviero, compagno d’infinite battaglie, cosa vedi all’orizzonte?” La coppia di paladini finemente equipaggiati, con gli alti cimieri rappresentativi della loro nazione e accompagnati dai vessilli dell’Impero Franco e almeno una mezza dozzina di attendenti ciascuno, stavano tornando in quel momento dalla Spagna sotto il giogo degli infedeli, con numerosi ostaggi ed i preziosi tesori delle città di Guernica e Saragozza. Incaricati da Carlo Magno di sovrintendere alla retroguardia, potevano contare unicamente su una quantità di truppe alquanto limitata e per di più, del tutto priva d’esperienza. “Se i miei occhi non m’ingannano, fratello mio, ciò che vedo muoversi tra gli alberi sono persone. Molte decine, o forse centinaia, probabilmente armate.” Per un attimo senza parole, Orlando sembrò meditare sull’effettiva portata della situazione e la necessità di ritornare a uccidere, per la maggiore gloria della Cristianità: “Dannazione… Siamo stati ingannati dal nostro stesso fratello d’armi Gamo, inviato a stringere accordi di pace! Ancora una volta le truppe dell’emiro Baligante, incapace di accettare la sua sconfitta, ci assalgono senza quartiere. Stammi vicino Oliviero, combattiamo!” Ma esattamente proprio mentre il famoso eroe pronunciava simili parole coraggiose, una nube oscurò per qualche attimo la luce del meriggio. Mentre l’aspetto degli aggressori, d’un tratto, diventava palese: quelli non erano dei veri arcieri, bensì cacciatori. E lì non v’erano lanceri, ma dei contadini con le falci alzate verso il cielo. Mentre al posto degli spadaccini, comparivano pastori, ciascuno armato di uno strano arnese lungo e affusolato, con il pomolo simile a uno scintillante melograno. Adesso la mano sinistra di Rolando, quasi involontariamente, si era spostata al proprio fianco, da cui pendeva il leggendario corno d’Olifante. L’unico strumento che, dando l’allarme, avrebbe avuto modo di salvarli…
Esistono diverse interpretazioni attraverso le tradizioni della storiografia del fatto d’armi svoltosi nel 778 d.C, in occasione del quale le truppe della prima vera nazione europea furono assalite, si dice a tradimento, durante la loro ritirata strategica dalle terre in mano agli arabi di al-Andalus. Accantonando momentaneamente tuttavia il resoconto semi-leggendario che compare nel poema in versi della Chanson de Roland, mirato ad equiparare l’uomo d’armi che muore per ciò in cui crede al martire cristiano diventato santo, oggi l’interpretazione moderna di una tale circostanza vede le retroguardie dei franchi sconfitte da un qualcosa (o qualcuno) che semplicemente, non avrebbero mai potuto prevedere. Proprio mentre varcavano gli alti passi montani della catena dei Pirenei, Orlando e gli altri avevano, in parole povere, incontrato i baschi.
Probabilmente ne avrete sentito parlare: di come questo popolo, da sempre in grado di preservare la propria indipendenza culturale (se non talvolta, quella politica) tra le zone rurali situate tra Francia e Spagna, talmente diverso dai propri vicini che qualcuno ha addirittura ipotizzato che potesse discendere dalla nazione perduta di Atlantide. O in maniera solo lievemente più scientifica, dall’uomo di Cro-Magnon stesso, attraverso una linea ereditaria tutt’altro che indoeuropea. Casistica esemplificata dalla lingua estremamente distintiva dell’euskara, dalle tradizioni religiose legate al culto ctonio di divinità del tutto ignote altrove ed una ricca selezione di esclusive tradizioni sociali, culinarie, architettoniche ed artigianali. Di cui forse il makhila, bastone, simbolo di prestigio e al tempo stessa arma in caso di necessità, costituisce oggi uno degli orpelli maggiormente riconoscibili e rappresentativi. Specie quando si considera come, in casi particolari, anche soltanto un singolo esemplare di tali oggetti possa raggiungere il costo di 1.000 o più euro…

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Questa semplice lancetta è l’arma segreta del carpentiere navale

Il compunto visitatore dal casco giallo e la cravatta sottile completò il suo discorso di presentazione, giusto mentre il vecchio Elijah con la camicia a quadri, deposta la sua sega a nastro ai piedi dell’ennesimo pino di Ponderosa situato ai margini della sua “zona”. Quindi quest’ultimo, accarezzandosi la barba, considerò per qualche attimo la strana idea. “Cosa intende esattamente quando afferma, senza fatica?” Giusto, se lo sarebbe dovuto aspettare. L’uomo cominciò di nuovo e DA CAPO ad elencare i punti forti del prodotto che la sua compagnia di trasporto del legname da cinque o sei anni, con sede presso la vicina città di Bridgeport, sembrava fermamente intenzionata a fargli acquistare. “Magnifico, stupendo, eccezionale. Signor taglialegna noi sappiamo riconoscere, dal tipo e dalla quantità di materiali caricati settimanalmente sul camion trasportatore, le figure professionali migliori tra i diversi fornitori della nostra compagnia. Proprio per questo, lei è stato selezionato tra i possibili corrispondenti per il nostro nuovo progetto: introdurre sul mercato una serie di sedie rustiche costruite direttamente sulla scena dell’abbattimento, ciascuna ricavata dal singolo moncone di un tronco…” Si ok, pensò a questo punto il boscaiolo veterano. L’intento iniziale non è totalmente priva di una logica di base: il cosiddetto ciocco, dopo tutto, viene normalmente abbandonato là dove si trova, data l’inefficienza economica di trasformarlo in qualche cosa di diverso. E con l’interesse contemporaneo nei confronti del presunto “artigianato manuale” oggetti di una tale foggia, chi può dirlo, un investimento in tale senso avrebbe anche potuto funzionare. Ma se aveva ben capito la sezione successiva durante le ore di lavoro, sopra il suono ragionevolmente assordante della sega elettrica simbolo del suo mestiere, la parte ridicola veniva solo successivamente. “Quindi, signor Stephenson, le presento l’ultimo modello di scanner tridimensionale.” E qui sollevò, ancora una volta, il bizzarro oggetto simile a una pistola tenuto strettamente nella mano destre. “Guardi qui: basta puntarlo verso il moncone di un tronco…” qui Elijah dovette spostarsi di lato, per lasciar passare l’uomo presso quanto rimaneva dell’abete bianco che aveva, fino a pochi attimi da quel momento, ricevuto tutto il “taglio” delle sue attenzioni “… E premere il grilletto, così. Ora nel giro di pochi secondi, tramite una semplice connessione Bluetooth, il mio cellulare riceverà le misure esatte dell’oggetto, perché io possa preparare la seduta da incastrarvi all’interno per produrre un intrigante oggetto d’arredo.” E qui fece una piccola pausa, forse per riprendere fiato. “Naturalmente, perché possa scrivere il suo nome nell’elenco delle figure professionali interessate, ci sarebbe un piccolo investimento per l’acquisto del macchinario.” Ecco, avevo capito bene, sussurrò tra se e se l’uomo della foresta. Quindi essendo un uomo di poche parole, pensò di rispondere impiegando, piuttosto, i gesti. Del resto quel giorno si sentiva stranamente creativo! Emise quindi un grugnito indecifrabile, che il rappresentante sembrò interpretare come un moderato cenno affermativo, prima di raccogliere l’ascia dal cassone del suo Ford 4×4. Subito seguita, a stretto giro di lancette, da un pezzo di legno lungo e affusolato, probabile scarto da una precedente visita presso la segheria o un cantiere di Bridgeport. Quindi, senza proferir parola, iniziò rapidamente ad intagliare…

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