L’imponente attrezzatura usata per forgiare un moderno albero di trasmissione navale

Mai sottovalutare l’incisività di un video nella promozione aziendale, specialmente quando si dispone di una fabbrica che sembra l’officina stessa del Dio Efesto, che arrossò la cima vulcanica dell’Etna nelle notti di lavoro ininterrotto per intere generazioni. Un colpo dopo l’altro, oppure… Sotto la pressione incalcolabile di una possente volontà manifesta. Perché plasmare il metallo non deve per forza richiedere, in maniera inerente, l’applicazione momentanea e ripetuta di una serie d’impatti, scaturiti dalla forza cinetica di un maglio. Quando risultati altrettanto validi possono essere ottenuti, per così dire, con le buone ovvero grazie all’uso del tocco “leggero” di una cara macchina, capace di veicolare una pressione pari o superiore alle 3.000 tonnellate per centimetro quadrato. Appena sufficiente per poter comprimere qualsiasi agglomerato d’atomi, inteso come il reticolo cristallino dell’acciaio riscaldato al calor arancione-rossastro (circa 870 gradi) così da essere perfettamente malleabile, morbido e cedevole dinnanzi al desiderio implicito di raggiungere uno Scopo finale. Ma indurre i semi della trasformazione a germogliare, ricercando il frutto originariamente richiesto dall’ignoto committente, non è sempre facile e per questo la sequenza, accompagnata in questo caso unicamente dai soli effetti sonori, senza musica o commenti fuori luogo, finisce per estendersi oltre i 12 minuti complessivi, offrendo una finestra siderurgica verso una delle industrie più spettacolari ed infuocate dei nostri giorni.
Un passo dopo l’altro, a partire dall’estrazione del billetto (blocco di metallo) ortogonale dalle profondità di una gigantesca fornace, che scopriamo presto appartenere alla compagnia tedesca di Remscheid, Dirostahl, grazie all’impiego di quella che può essere soltanto definita come una grande pinza motorizzata, simile a un muletto fuoriuscito dalla cinematografia della serie Terminator. Il cui passaggio, fino alla matrice di compressione, viene doverosamente seguito dalle telecamere, mentre il fluido che alimenta i macchinari si concentra nei condotti sovrastanti al macchinario principale dell’intera operazione. Ed è all’arrivo di un segnale del tutto inaudibile, sopra il frastuono dei motori e gli ingranaggi, che la cosa attentamente surriscaldata inizia ad essere premuta e poi girata, premuta e poi girata per un certo numero di volte. Ciascuna corrispondente alla creazione di una singola sfaccettatura del componente desiderato, che nel contempo continua imprescindibilmente ad allungarsi. È questo l’effettivo inizio, un colpo alla volta, di un procedimento in cui le tolleranze sono minime, così come le occasioni di distrarsi dall’esecuzione di un copione ben collaudato. Perché non è di sicuro facile creare un pezzo del peso di almeno 35 tonnellate, che dovrà ruotare vorticosamente a circa 250 giri al minuto…

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La millenaria tradizione in bilico sul filo del coltello tibetano

Poiché ogni popolo è sostanzialmente, almeno in parte, il prodotto culturale del suo ambiente d’appartenenza e ciò è tanto maggiormente vero, quanto più quest’ultimo è dotato di caratteristiche che variano dalle comuni aspettative situazionali. E perciò in quale altro luogo, piuttosto che il letterale tetto geografico del mondo, avrebbe potuto svilupparsi e prendere piede un simile sistema filosofico, lo schema di valori in grado di dare un significato all’esistenza dell’uomo, alle tribolazioni della vita ed il destino che ci aspetta successivamente alla morte? Tra gli svettanti altopiani e le verdi valli del Tibet, circondate da scoscesi picchi montani, contro i quali riecheggiavano da tempo immemore i sutra delle preghiere, ed il suono roboante delle campane buddhiste. Ma se tutto questo è pienamente apprezzabile dal punto di vista filosofico e religioso, altrettanto facilmente possiamo ritrovare simili correlazioni tra gli schemi tecnologici di una particolare civiltà ed il tipo di risorse minerarie su cui gli è concesso fare affidamento, dagli imprescindibili schemi del sistema naturale. Materiali come gli utili metalli, capaci di costituire il fondamento stesso di molti dei processi industriali e militari della storia stessa. Ed è attraverso un chiaro riferimento a tutto questo, che possiamo ritrovare uno degli elementi stessi alla base del mito delle origini del regno montano di Tubo, in cui si narra del divino governante Nyatri Tsenpo, disceso dal cielo stesso mediante l’utilizzo della scala di corda dmu thag, descritta come una sorta di arcobaleno. Così come l’essenziale aspetto di quel particolare fenomeno atmosferico appariva chiaramente sulla lama dell’attrezzo usato per fabbricarla, il cosiddetto coltello di gus. Così all’interno delle cronache, la narrazione procede con i saggi discendenti di quel personaggio che governando le genti del Nepal, avrebbero insegnato loro una serie di utili segreti: la fabbricazione di arco e frecce, di asce e trappole per gli animali. Dei vasi di ceramica. Di scudi ed attrezzi di ferro. Ed infine, il segreto più grande di tutti, quello necessario ad emulare e mettere a frutto lo stesso tipo di potenza posseduto dall’antico capostipite dell’intera dinastia. La prima versione terrestre del coltello si sarebbe quindi concretizzata durante il regno di Zhigung Tsampo, ottavo governante del paese destinato, come i suoi predecessori, a far ritorno nei cieli al momento della sua morte attraverso una corda di luce, il che non avrebbe d’altra parte impedito alle sue spoglie mortali di trovare posto tra i sacri tumuli della valle di Chongye, importante lascito della sua tangibile dinastia, conclusasi secondo gli storici attorno al XIII secolo d.C. Ma non prima che, o almeno così si narra, un gruppo di nove fratelli “dagli occhi piccoli”, che abitavano presso l’irraggiungibile picco montano di Sidor, potessero imparare i segreti della forgiatura celeste, in modo tale da costruire il primo esempio di lama divina, tra i tangibili recessi dell’esistenza. Per poi trasmettere il loro segreto al leggendario fabbro Mitotago della foresta di Gyiyulhozha, capace di costruire un tipo di spada capace di tagliare nove alberi allo stesso tempo.
Tutto ciò benché storicamente parlando e per ovvie ragioni, il coltello tibetano non potesse possedere una simile potenza, pur rappresentando un importante possedimento, dai molti tipi di utilizzo, per coloro che ne resero famosa l’affidabilità e resistenza. Sfruttandone l’affilata lama per un vasto ventaglio di necessità tipiche del vivere rurale, tra cui la caccia, la preparazione della carne, la lavorazione del legno, l’autodifesa. Mentre la spada da guerra, anche un importante simbolo religioso in quanto fondamentale attributo del bodhisattva Manjushri, diventava un oggetto irrinunciabile all’interno della casa dei potenti. Giacché tradizionalmente sia uomini che donne di questo paese erano abituati a muoversi attraverso i giorni armati di un simile implemento di taglio, tradizione destinata a continuare fino all’inizio dell’epoca moderna ed anche in seguito ad essa, per quanto possibile nonostante le severe restrizioni imposte in seguito alle imposizioni normative dei cinesi. La cui stessa esperienza pregressa avrebbe in effetti potuto contribuire, secondo alcune interpretazioni filologiche, all’affermazione della particolare tecnologia metallurgica tibetana durante i commerci effettuati nel corso delle dinastie Ming e Qing, giacché non era insolito che tale oggetto venisse chiamato tradizionalmente coltello degli Han, ovvero in altri termini, il prodotto per antonomasia del vasto ed ingegnoso Regno di Mezzo. Benché i tibetani stessi, come loro esplicita prerogativa, fossero riusciti ad integrare e modificare tale specifico fattore culturale, in un un complesso rito produttivo composto da oltre 20 passaggi distinti, capaci di prolungarsi attraverso un periodo di svariate settimane, se non addirittura mesi nel caso dei pezzi più elaborati ed imponenti…

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Il ponte olandese creato tramite l’impiego di un sistema robotico di stampa in 3D

L’individuo che cammina lungo i canali di Amsterdam ha molte cose verso cui focalizzare la propria attenzione. Le ordinate file di case tradizionali dalle finestre con infissi bianchi, con forma slanciata, vista sul canale e tetto spiovente. Le piste ciclabili il cui traffico umano sostituisce almeno in parte quello, rumoroso e maleodorante, di migliaia di autoveicoli in viaggio verso destinazioni non sufficientemente distanti. Per non parlare delle tipiche mete del turismo, dei cosiddetti “coffee” shop ed il quartiere a luci rosse De Wallen, sulle cui vetrine convergono gli occhi dei curiosi che talvolta scelgono di diventare dei clienti. Ed è proprio nei dintorni di un simile luogo ragionevolmente unico al mondo, sopra lo spazio riflettente del canale Oudezijds Achterburgwal, che quegli stessi sguardi avranno da oggi l’occasione d’incontrare la forma di una struttura estremamente inaspettata, degna di figurare a pieno titolo all’interno del design fantastico di un mondo videoludico del tutto digitalizzato: trattasi di un ponte, creato grazie all’uso di un singolo tipo di materiale: l’acciaio. La cui struttura quasi aereodinamica, nonostante questo, sembra fluire in modo naturalistico neanche si trattasse di una pianta. Benché risulti essere nei fatti la creazione diretta di quel massimo pilastro dell’industria, creature robotiche massimamente asservite alla volontà e visione pratica dell’uomo. Che non sarebbero neanche state poi così particolari, trattandosi delle tipiche braccia robotiche impiegate, ad esempio, nell’assemblaggio dei sopracitati autoveicoli, se non fosse per l’estrema finalità evidente che è riuscita a realizzarsi tramite movenze precise, frutto di una programmazione del tutto priva di precedenti. E si tratta giustamente di un record del mondo, o per meglio dire la coccarda di chi riesce ad arrivare per primo, attribuita nelle cronache dei nostri tempi a niente meno che l’azienda locale MX3D, famosa per la creazione e messa in opera di un sistema produttivo assolutamente particolare. Facente affidamento su quel software proprietario che viene chiamato sul sito della compagnia Metal XL, non dissimile nell’interfaccia a qualsiasi altro tipo di strumento per la modellazione virtuale di un oggetto in puro 3D. Ma capace d’istruire, al termine della realizzazione a schermo, macchine che diano il proprio contributo tangibile al progetto, invero percorribile, da un numero contemporaneo d’individui che potremmo definire superiore a quello di un’intera piccola piazza cittadina.
Ed è un tipo di ponte, quello che possiamo qui riuscire ad ammirare, del tutto in grado di distinguersi dall’aspetto tipico di una simile infrastruttura urbana, visto l’alto grado di sofisticazione organica dei suoi diversi componenti, ciascuno l’apparente risultanza di precise scelte artistiche da parte dell’artista creatore, quel Joris Laarman (nascita: 1979) già nome principale di mostre internazionali presso luoghi come il MoMA di New York, il V&A di Londra ed il Centre Pompidou di Parigi. Un uomo, una visione, validi strumenti utili per dargli forma. Tridente niente meno che essenziale all’epoca contemporanea dei processi, attraverso cui la semplice ripetizione di una serie di gesti non risulta più essere davvero abbastanza. Ed ogni cosa sembra succedere per via di una ragione, in un rapporto reiterato di cause ed effetti, fin troppo slegati dal bisogno di riuscire a soddisfare le necessità del quotidiano. Il ponte della MX3D del resto, così sorprendentemente privo di un appellativo ufficiale (quasi come se la sua mera esistenza fosse sufficientemente atipica da definirne l’esistenza) lungi dall’essere un’opera del tutto scevra di funzioni addizionali all’esistenza, risulta inoltre caratterizzato da una vera e propria rete sensoriale di sorveglianza, utile alla monitorizzazione in tempo reale delle forze e sollecitazioni attraverso il procedere dei giorni. Al fine di perfezionare ulteriormente, per quanto possibile, le scelte progettuali messe in atto fin dal primo momento della sua ormai remota concezione…

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L’ultima esplosione metallurgica per la catartica creazione di una sfera

Avanti, con cautela, aprite i rubinetti; ora giù con il tritolo, mentre il tempo corre rapido ad esaurimento. A fronte di un’attenta calibrazione dei rapporti di potenza. Ed ora che si alza il muro divisorio, per proteggersi da eventuali frammenti, l’oggetto simile alla rappresentazione informaticamente desueta di un poligono sferoidale. Quindi mentre ogni uomo e donna tra i presenti sembrano per qualche istante trattenere il fiato, allo scadere del cronometro, si ode un tuono sordo provenire dall’interno. Ed uno sbuffo come quello di un cetaceo emerge dalla cima dell’oggetto in qualche modo differente. Ma è soltanto dopo qualche istante, che la realtà inizia a rivelarsi nella cognizione dei presenti: inimitabile ed inconfondibile sul palcoscenico della storia, ESSA è stata plasmata.
Mettete quindi un fabbro del mondo antecedente all’epoca moderna a diretto contatto con un sommergibile o un aeroplano, e difficilmente questi potrà riuscire a comprendere l’intricatezza tecnologica dei rispettivi motori, il funzionamento dei sistemi e lo scopo di simili oggetti spropositati. Ma ciò che riuscirà a colpirne l’immaginazione, senza nessun tipo d’esitazione, sarà l’eccezionale lavorazione metallurgica delle rispettive strutture: cilindri dalle teste smussate, appuntite, affusolate. Lisci come il dorso di una tartaruga e al tempo stesso, eccezionalmente solidi, come il cimiero di un’armatura appena uscito dalla forgia. “Di certo, per riuscire a realizzare un’opera tanto perfetta” esclamerebbe costui: “L’uomo uscito dalla macchina del tempo deve aver impiegato un tempo lungo usando macchinari dall’eccezionale grado di complessità operativa.” Laddove la realtà dei fatti è che, sebbene frutto di un livello tecnologico indubbiamente avanzato, tali oggetti sono spesso la diretta risultanza di un processo rapido e brutale. Per certi versi, addirittura ingenuo, inteso come ingegno funzionale a un obiettivo inge-“nioso”. Far esplodere il progetto dall’interno. In una perversione apparente dell’intento creativo che prende il nome di idroformatura, cionondimeno efficiente come ampiamente dimostrato attraverso i decenni precedentemente trascorsi; nell’accezione qui dimostrata nel corso di un breve video dedicato alla creazione di una sfera di Horton (il tipico serbatoio per i gas a pressione) del tutto paragonabile a quella che permise di creare i titani tecnologici dell’epoca della guerra fredda. Sarebbe a questo punto tuttavia utile applicare l’utile distinguo della terminologia appropriata, secondo cui siamo di fronte non tanto ad un processo di hydroforming di tipo convenzionale, a meno di voler utilizzare un’antonomasia, quanto, piuttosto la sua versione per così dire evoluta, e certamente ancor più spettacolare, dell’hydrobulging, capace di fare a meno dell’impiego di un ponderoso stampo al fine di ottenere la forma desiderata. Che in questo particolare caso dovrà risultare essere SEMPRE quella di una sfera, per la superficie equidistante nei confronti di un singolo punto al centro dell’interessante questione. Un fine, quest’ultimo, praticabile anche “a secco” in determinate circostanze, sfruttando una calibrazione particolarmente precisa della quantità di esplosivo (in genere si tratta di trinitrotoluene, alias TNT) contenuto all’interno. Benché molto più frequente, ed affidabile, risulti essere la formatura mediante riempimento preventivo della quasi-sfera con un pieno d’acqua immessa a pressione, secondo il principio dell’amplificazione della pressione. Un approccio che trasporta la nostra trattazione a molte miglia di distanza, fino alle profondità remote dell’oscuro oceano terrestre…

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