L’opportunità non del tutto sfumata di guidare un camion fuoristrada tra canyon lunari

Raggiunto l’anno 1971 e la quindicesima missione del programma Apollo, nonché quarta destinata a raggiungere la superficie lunare, la NASA su trovò ad affrontare un significativo dilemma. Nonostante nessun geologo fosse materialmente stato sul satellite terrestre ed i campioni di suolo di cui disponevano fossero sostanzialmente insufficienti a farsi un’idea della composizione e natura del suolo, i progettisti si resero effettivamente conto che scendere soltanto dal modulo di atterraggio, potendo muoversi in qualche decina di metri in ogni direzione, non era realmente sufficiente a colmare la carenza di dati disponibili in tal senso. Essi avrebbero perciò dovuto includere, nel carico di volo, un qualche tipo di veicolo semovente, la cui natura e caratteristiche potevano soltanto essere ottimizzate grazie all’uso di una lunga serie d’ipotesi e supposizioni. Quello del cosiddetto rover lunare costituiva, a dire il vero, un concetto dalla lunga storia, rintracciabile fin da scritti e disegni dei tecnici sotto la supervisione di Wernher von Braun, nell’installazione tedesca di Peenemünde. Ben dopo l’esecuzione dell’operazione Paperclip e la conseguente assunzione dei numerosi scienziati di epoca nazista tra le fila del progetto spaziale statunitense, l’intera idea era stata incorporata nel piano per l’esplorazione in varie iterazioni successive, capaci di partire dal fondamentale presupposto che gli astronauti, durante il proprio soggiorno lassù, avrebbero potuto trarre beneficio dall’impiego di un qualche tipo di base semovente. In tal senso il modo in cui venne concepito inizialmente l’automobile spaziale prevedeva un abitacolo pressurizzato, facendo di essa l’equivalente di un moderno camper, veicolo pickup o furgoncino per il trasporto di cose o persone sulla media distanza. Il problema stesso del peso dovuto all’inclusione di una simile risorsa, d’altra parte, risultava essere meno stringente causa l’originale passaggio tenuto in alta considerazione fino al 1968, secondo cui per ciascuna singola missione i razzi Saturn V scagliati oltre l’orbita sarebbero stati due, uno con l’equipaggio e l’altro sormontato come carico dal velivolo LM Truck, un lander a controllo remoto riempito di strumenti, materiali ed almeno un mezzo con ruote per uso e consumo della controparte “umana” allunata auspicabilmente a poche decine di metri di distanza. La prima compagnia contattata per offrire il suo contributo in tal senso sarebbe stata la Bendix Corporation, già fornitrice di strumentazione scientifica impiegata durante le precedenti escursioni extraterrestri, la quale pensò di far ricorso a ciò di cui il programma Apollo già disponeva ed aveva avuto modo di conoscere in precedenza: così nacquero i bizzarri fuoristrada denominati per l’occasione MOLEM e MOCOM. Rispettivamente la versione dotata di ruote di un intero lander per l’allunaggio, oppure la sola sommità di questo, ovvero l’oggetto destinato a ritornare nello spazio che corrispondeva essenzialmente al modulo di comando…

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Saporita stroganina, ovvero strisce soavi di ottimo sashimi siberiano

Recentemente trasferito addetto al marketing di azienda mineraria, con sede periferiche nei principali Oblast, intento a camminare sul sentiero che conduce alla fermata del Bus. Nato a Mosca, laureato S. Pietroburgo, si avventura nelle ore mattutine relegando a zone periferiche del proprio vivere la sensazione di essere ormai prossimo al Tartaro o Cocito, luoghi gelidi ove giacciono in attesa i defunti. Siamo a Yakutsk, se riuscite a leggere i cartelli in mezzo al buran, che congela ed assottiglia l’aria, ed il termometro segnava -40 gradi. Una temperatura, a dire il vero, neanche troppo fredda per la media della maggiore città situata ad appena 450 Km dal Circolo Polare Artico. Così avanza, un passo dopo l’altro (la cosa più difficile che abbia mai fatto!) fermandosi a ridosso di ogni muro che gli riesce di trovare, nell’arduo tentativo di esalare quel respiro. Le scuole chiudono talvolta, ma questo non succede per gli adulti, cui si attribuisce un grado più elevato di tolleranza. D’un tratto all’orizzonte, inteso come spazio di uno slargo tra i viali di epoca sovietica, scorge una visione surreale: trattasi di un gruppo di persone, in abiti così pesanti da sembrare orsi delle steppe, radunati attorno a scrigni strabordanti di oblunghi oggetti scintillanti. Non tesori di apparente argento, né carciofi o asparagi come sembrava in un primo momento; trattasi, in effetti, del locale mercato del pesce. L’uomo giunge in mezzo a loro, gli sorridono, scherzano sul clima. Lui risponde con un faticoso senso d’ironia latente ed è allora che l’allegra proprietaria del secondo banco, battendogli su un braccio, gli offre il pezzo rigido di quello che parrebbe sul momento un ricciolo tagliato da un sorbetto. “Prendi, mangia. Scalda dentro.” Ella dice. Lui lo guarda, pensa, stai scherzando? Ma una cosa ha appreso nella prima fase della sua trasferta lungo i mesi dell’autunno siberiano: quando le condizioni climatiche sono estreme, la gente si aiuta a vicenda. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, la ringrazia. Lo stringe con le labbra: è pesce. Nella bocca perde subito rigidità ed inizia a sciogliersi, il sapore è… Ottimo, in realtà. Il sentimento d’incombente apocalisse che lo intrappola in mezzo a pareti di cristallo, lentamente, sembra allontanarsi in mezzo alle propaggini terrene della tormenta…
Строганина, niente meno, stroganina dal verbo strogat che vuole dire: “tagliare [col rasoio]” ed è proprio questo il modo in cui essa viene preparata, fin da prima che il cosacco Pyotr Beketov, spingendosi durante il corso delle proprie esplorazioni fino alle rive del fiume Adan, costruisse la sua prima fortezza in tronchi di legno, per conoscere ed interfacciarsi con le genti oriunde intente principalmente a far tre cose: cacciare animali selvatici, allevare renne, e naturalmente, pescare. Ma se si usa dire che il più prezioso contributo gastronomico dei russi alla cultura siberiana sia stata la vodka, un’altra cosa non può essere negata: esiste soltanto un tipo di cibo, corposo, saporito e al tempo stesso privo di odore, duro ma scioglievole (per citare la pubblicità del cioccolato) che si sposa in modo quasi poetico con la bevanda alcolica simbolo del più esteso paese al mondo. E questo è il pesce surgelato in maniera, per così dire, immediata…

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Osserva i fuochi azzurri nella notte, d’insetti che risplendono come fatui fantasmi

L’approccio logico a fare di tutta l’erba un fascio, tipico eufemismo per semplificare i discorsi, porta a immaginare che possa esistere una singola “versione” di ogni essere, cosa o concetto. Così che specie tipiche, singole classi di creature, diventano rappresentanti di un’intera categoria, annullando differenze spesso significative al mero servizio di un’astrazione. Cos’è una “lucciola”, d’altronde, se non un fuoco fatuo che si aggira fluttuando tra gli oscuri alberi della foresta? Sebbene simili scintille lampeggianti, abbiano un colore diverso, un’agilità maggiore, una frequenza, che in alcun modo corrispondono al comportamento degli accumuli di gas metano che ardono sopra il terreno umido di torbiere o paludi. In ogni caso tranne questo. Altrove, ma non qui: nella zona di Asheville o nella foresta di DuPont, in North Carolina; presso il parco di Rocky Fork State, in Ohio; e innumerevoli altri luoghi citati meno spesso nell’ampia fetta di territorio corrispondente alla definizione generica di Appalachia. Luoghi sufficientemente incontaminati e per questo in grado di mantenere un’appropriata biodiversità animale, che è poi la principale risorsa necessaria perché simili entità possano trovare la ragion d’essere dei loro agili volteggi notturni. Stesso modo in cui gli uccelli risultano maggiormente colorati ove ce ne sono in quantità maggiori, o i fiori diventano più colorati nei paesi principalmente coperti di vegetazione, poiché l’evoluzione tende ad individuare un beneficio nel possesso di un metodo per evitare i fraintendimenti dell’identità di una tipologia tra le presenze adiacenti. Da cui l’impegno singolare della Phausis reticulata, specie di coleottero appartenente alla famiglia delle Lampyridae, anche noto localmente come fantasma azzurro. Per la sua distintiva bioluminescenza, frutto del solito enzima luciferase contenuto nell’addome, ma qui capace di emettere una luce fissa che ricorda quella di un fornello impossibilmente sospeso. tra i segnali delle altre lucciole dal metodo più stereotipico ed intermittente per individuare i propri partner riproduttivi. Affinché gli errori tra i dissimili possano essere evitati. E le generazioni dei fantasmi cerulei, finché possibile, perpetrare il proprio teatrale stile di vita…

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Il mio nome: Abaco, per mestiere conto storioni. Tutto il resto è caviale

La lunghissima tradizione del popolo di argento e sale ha sempre menzionato il punto di accesso ai luoghi del Ritorno, un restringimento marittimo al culmine del quale, l’acqua cambia condizioni e i molti mangiatori tendono a voltarsi per tornare indietro. Poiché non tutti sono anadromi, ciò a dire in grado di abitare i due diversi mondi, benché risalire il corso di un sistema fluviale presenti nondimeno un rischio inerente; l’incombente civiltà terrestre, un mondo misterioso la cui quotidianità pare necessitare la cattura ed uccisione dei pesci. Grandi e piccoli, antichi o moderni, ciascuno messo a confronto con le aguzze propaggini di un luttuoso destino. Ovvero in ultima analisi, la morte. L’uomo, d’altra parte, non può conoscere al di là di ogni dubbio la quantità effettiva di storioni in natura. Ed ogni tentativo di accampare una stima, non può condizionare più di tanto le effettive decisioni di chi ha il potere di tenerne in alta considerazione il destino inerente. Ancorché le cosi cambino, qualora tale circostanza si verifichi all’interno di mura solide e col tetto di un capanno sulla testa. Il paese è il Vietnam e il luogo, chiaramente, uno stabilimento. Come si desume dal titolo del video, Cá Tầm (vedi fonte su TikTok) che in tale lingua è il nome riferito alla famiglia Acipenseridae, composta dalle 26 specie riconosciute strettamente interconnesse alla preziosa produzione dell’oro globulare color corvino. Uova che noi tutti conosciamo, da gourmand con esperienza collaudata, con il sacro nome di caviale.
Per cui non c’è molto da meravigliarsi per la notevole attenzione in questo caso dedicata, alla comprensibile necessità di assegnare un numero alla produzione, ovvero ben conoscere la quantità di piccoli/avannotti che risiedono all’interno delle vasche dove di conduce a compimento l’idea. Che la riproduzione in cattività non sia soltanto redditizia, ma altrettanto utile alla protezione della specie, purché venga praticata con criterio e gli strumenti adeguati. Entro cui figura l’essenziale macchinario; mai visto nulla di simile? L’addetto alla gestione prende i giovani all’interno di una bacinella. E con fare attento, ne scarica la collettività all’interno di uno scivolo ad imbuto. Sopra di esso, un pratico display a cristalli liquidi capace di mostrare un numero. Che cresce per ciascun paio di pinne, ogni coda e muso corazzato che discende fino al recipiente in fondo alla discesa idrica per poi essere portato nuovamente al punto di partenza dell’intera manovra. In grado di portare l’immaginazione, in modo trasversale, all’immagine di Paperon de’ Paperoni che assegna un numero alle monete d’oro all’interno del suo deposito. Per l’importanza che una tale moltitudine può avere nel prodotto interno di un’azienda dall’importante capitale d’investimento iniziale. Ben poche altre attività nel campo dell’allevamento, hanno d’altronde un costo operativo e complessità di gestione paragonabile a quella che conduce il più prezioso paté sulle fette di chi ama il più sublime (?) gusto dei mari…

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