In un vortice di fuoco e vapore, l’antica scavatrice continua il suo lavoro

Possiede un fascino possente, non vero? Una prestanza polmonare, ed un pulsante, perspicace senso di palese funzionalità: il vaporum. Una forma d’energia tra le più antiche note all’homo super-super-sapiens, specie cui dovremmo appartenere, almeno in linea di principio, fin dalle primissime propaggini della Rivoluzione. Industriale, qual’altra… Quel momento della storia in cui il calore, in quanto tale, diventò veicolo di una feconda via trasformativa. Da uno stato all’altro della materia e a seguir da questo, fuori dalla stasi e dentro il movimento, per cambiare o per risolvere una qualche problematica questione. Per esempio, postuliamo: che in un lu-ungo continente verticale, esista un istmo (si fa per dire) largo “appena” 82 Km. E che se soltanto qui potessero passare, navi e imbarcazioni (oppur che altro) Finalmente! Non dovremmo più sentir parlare di un Passaggio su a Nord-Ovest, o il tremendo frullatore di fasciame e marinai che eravamo soliti chiamare Capo Horn; ma purtroppo un uomo, indipendentemente dalla sua ottima forma fisica, difficilmente può spostare più di nove piedi cubici di terra nel corso di una singola sessione di lavoro. Laddove certe macchine, certi magnifici apparati, già nel 1904, potevano arrivare fino a a 300. Questa non è dunque la storia, consumata in mezzo alla brughiera inglese, di quei primi investitori di una simile tecnologia; bensì l’epica battaglia, combattuta a colpi di carbone, fuoco e aspettative, che venne combattuta all’apice di tale Era: tra noialtri, esseri umani, e la natura, intesa come stato pre-esistente delle cose.
Ma la Bucyrus di Milwaukee, sussidiaria dell’odierna CAT (nonché fornitrice di 77 delle 102 scavatrici usate per portare a termine la più grande opera d’ingegneria della storia) non poteva certo immaginare di scavare un canale a Panama, oppur le fondamenta di un enorme grattacielo newyorkese ad ogni volgere di luna nuova. Ecco quindi che tra i suoi concorrenti di mercato, a partir dal 1910, si palesò la Ball Engine Co. di Erie, Pennsylvania, specializzata nella produzione di un diverso tipo di pala meccanica, più piccolo e compatto. Una letterale Smart-Car dell’epoca vigente: nondimeno, totalmente in grado di assolvere ai suoi compiti di volta in volta determinati. Questo esemplare del modello Tipo “A” con doppi pistoni, risalente all’anno 2015, è stato ad esempio acquistato nel 2012 dalla Compagnia Ferroviaria canadese di Statfold Barn, proprio al fine di venir esposto dinamicamente nel corso di fiere e riunioni a tema, mentre svolge un’opera che ancora appare, totalmente, in grado di portare a termine dall’A alla Z. Come qui dimostrato dalla squadra estremamente ridotta di manovratore e fuochista, laddove esemplari più massicci della stessa macchina tendevano a richiedere 5 o 6 membri dell’equipaggio, anche soltanto per entrare nel proficuo mood operativo. Già perché il carbone non si spala da solo, così come l’acqua non raggiunge il serbatoio in modo automatico, o i complessi comandi relativi all’instradamento di tutta quella potenza si manovrano con una letterale mano sola. Ancorché molteplici passaggi di miglioramento avessero trovato la realizzazione, da quel primo esempio risalente al 1839 di pala meccanica, costruita dal giovane inventore di Pelham – Massachusetts William Otis. Poco prima che morisse, a soli 26 anni, in circostanze che la storia sembrerebbe aver dimenticato…

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La sublime arte del cambio da trasportatore a 18 marce

In molti hanno avuto modo di sperimentarlo: quando si accetta il compito di prendere un qualcosa di grosso e pesante, assicurarlo saldamente al retro del proprio veicolo e intraprendere un lungo viaggio, soltanto tre sono i fattori da considerare: il ritmo e il regime del proprio motore, la stanchezza fisica che può condizionare la nostra soglia di attenzione e… L’infinità quantità di variabili, contrattempi, imprevisti o situazioni meno che ideali, che possono frapporsi sul sentiero verso la piazzola di scarico del nostro destinatario di giornata. Che possono variare dall’effettiva necessità di deviare dal tragitto predeterminato, per lavori in corso o la chiusura (temporanea?) causa conseguenze di un probabile incidente, alla mera disposizione fisica degli spazi, capace d’includere, in determinati casi, quel tipo di disposizioni oblique che prendono il nome di “salita” o “discesa”. Che già ci condizionano, notoriamente, quando nel corso delle nostre passeggiate o pedalate ci approcciamo alla necessità di consumare un numero maggiore di risorse, al fine di percorrere una distanza niente affatto superiore, ma quando ci si trova appesantiti da 15, 20, 30 tonnellate di un rimorchio attaccato dietro al potentissimo motore, tutto cambia e tende, molto spesso, a peggiorare.
O almeno questa è una delle possibili interpretazioni di quanto qui di preoccupa di dimostrarci Dave, camionista da oltre 35 anni, oggi titolare tra le varie cose di un canale identificato come Smart Trucking, ricco di contenuti rivolti a chiunque si ritrovi, nel mezzo del cammin della sua vita, a desiderare d’intraprendere una simile carriera. Che in quello che costituisce ad oggi il suo video più popolare su YouTube (quasi 900.000 visualizzazioni!) si preoccupa di tradurre in parole una delle faccende che maggiormente tendono ad intimidire, per non dire paralizzare causa senso di transitorio ed istintivo terrore, la maggior parte dei suoi colleghi alle prime armi: il tipico cambio di una motrice stradale di livello 8, sarebbe a dire quello che i non iniziati chiamano “grosso camion” la cui pletora di rapporti, incidentalmente pari al numero di ruote di questi veicoli, risulta l’orgoglio e il simbolo forse meno noti di un’intera categoria sociale. “È molto semplice…” esordisce quindi, in maniera analoga a quanto fatto da altri video bloggers che hanno scelto, a loro modo, di trattare un così spinoso argomento “Basta fare le cose nel giusto ordine, e non saltare nessuno dei passaggi previsti nel manuale d’uso.” Quello fornito, per l’appunto, con il suo camion Peterbilt 379, vero e proprio classico della celebre marca produttrice texana, inciso a lettere di fuoco nella cultura popolare come forma alternativa dell’eroico robot transformer Optimus Prime. Che nell’allestimento situato sotto il suo sedile, presenta la formidabile dotazione del tipico cambio manuale RT-18 della Eaton, marca forse più famosa nel mondo consumer come produttrice di gruppi di continuità per il computer, di ogni possibile foggia o misura. Uno standard dell’industria, quando si tratta di essere sicuri che il regime del proprio motore da oltre 450 cavalli sia corretto per il tipo e l’entità del gradiente che si trova a frapporsi lungo l’estendersi del nostro sentiero. A patto, ovviamente, che il guidatore sappia dimostrarsi all’altezza di una tale “belva”…

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L’allegro tic-tac di una bici liberata dalla sua catena

Gli ambienti delle grandi fiere sono sempre piuttosto rumorosi e l’Eurobike dello scorso settembre, importante occasione mediatica per le principali aziende operative nel settore del ciclismo, non faceva certo eccezione. Eppure chiunque si fosse preso qualche minuto per ascoltare attentamente, avrebbe notato che il costante sovrapporsi di voci indistinte sembrava convergere in un punto preciso, per lasciare improvvisamente il passo a un coro di esclamazioni stupite, seguite da un attimo di silenzio ed ammirazione. E quel luogo era lo stand B3-205, occupato dalla Ceramicspeed, produttrice di un’ampia varietà di componenti per biciclette, tra cui alcuni dei migliori sistemi di trasmissione sul mercato. Ma niente, fino ad oggi, che potesse definirsi simile a questo. Nessuno, del resto, l’aveva mai visto prima: all’altezza degli stinchi dei visitatori, un piatto di metallo gira vorticosamente. Certo: c’è sempre qualcuno che, invitato dagli addetti all’expo, mette in moto i perni per l’attacco dei pedali, ancora privi proprio di questi ultimi per favorire l’apprezzamento esteriore del meccanismo. E che meccanismo! Sul lato destro di un aerodinamico telaio nero-opaco (davvero futuristico) trova infatti posto un ingranaggio a cremagliera, dal quale parte un albero di trasmissione. Mentre in corrispondenza della ruota posteriore, figura un largo piatto di alluminio sfolgorante, ricoperto da una serie di estrusioni simili ai denti di un capodoglio. Per ogni giro quindi si ode un suono ticchettante simile, eppur diverso dalla convenzione. Il quale qui dimostra, per chi è attento a simili dettagli, l’imprevista realtà: questa qui è una bici che non ha catena. È una bici che funziona grazie ai buoni sentimenti o se vogliamo, il desiderio più profondo d’innovazione.
Al che sarebbe lecito osservare come, almeno in apparenza, siano esistiti numerosi approcci simili alla faccenda. Sia nelle ultime decadi che a partire dall’anno 2000, con l’implementazione dei nuovi e più efficienti materiali compositi: dopo tutto, sono molti i vantaggi che è possibile trarre da una simile “liberazione”, tra cui un peso ridotto soprattutto per l’assenza del deragliatore, nessun rischio di catena che salta dal suo binario, meno componenti che possano subire un malfunzionamento. Il tutto al costo, tuttavia, di un punto d’incontro tra la guarnitura delle marce (o cassette in lingua inglese) e il suddetto albero che necessitava d’includere il sistema meccanico della coppia o doppia ruota conica, notoriamente inefficiente a causa della quantità di attrito generato nel corso di ciascuna singola rotazione, nonché dotato di una problematica asimmetria. Ecco dunque il problema risolto dall’iniziativa, o vera e propria rivoluzione, alla base dell’idea di Ceramicspeed… Poiché nel sistema Driven (dovesse trattarsi di un acronimo, non ne conosco il significato) manca del tutto un così grande problema, proprio perché l’ingranaggio in questione è stato sostituito da un innovativo sistema con una corona di cuscinetti a sfera, che riduce i punti di contatto tra i due componenti coinvolti a soltanto due, contro gli otto previsti dalla tradizionale catena. Con un aumento di efficienza nel trasferimento di potenza dai muscoli alla ruota di circa l’1% rispetto ad essa, benché i vantaggi davvero importanti siano, nei fatti, di tutt’altra natura…

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Il bullone divino che mantiene l’elicottero in volo

Si dice che il diavolo sia nei dettagli, poiché è nella natura stessa degli esseri umani, affini al principio supremo dell’universo, osservare per sommi capi le cose, tradendo se stessi nelle questioni apparentemente prive d’importanza. Il che è soltanto un altro modo di dire che mentre Dio è triangolare, poiché tende sempre alla realizzazione di un obiettivo, Satana assume la forma di una perfetta circonferenza, in cui ciascun punto insegue se stesso, e nel contempo la quantità totalità dei suoi innumerevoli cloni. Esiste tuttavia un caso, uno solo nel mondo a noi noto, in cui la Grazia suprema risiede all’interno del cerchio. E per comprenderne il senso occorrerà ricorrere, come si usava a quei tempi, alla narrazione di una parabola esplicativa: la storia dell’elicotterista. Egli portava il nome di Thom Jefferson, e verso la fine del 1966, svolgeva con impeto la sua funzione di mitragliere del portello principale, a bordo di un elicottero Bell UH-1 Iroquois, comunemente detto “lo Huey”. Il che lo poneva, geograficamente, nei tenebrosi recessi di una delle più sanguinarie guerre del mondo moderno, quel conflitto vietnamita che a un certo punto diventò di dominio pubblico, accendendo la lampadina della sua colossale inutilità. Ma per tornare a noi, codesto membro dell’esercito era situato, al principio della vicenda, presso l’area di Bong Son vicino An Khe, dove lui, i due piloti e un gruppo di assaltatori erano stati incaricati di scardinare una fortificazione nemica. Così lasciati scivolare a terra i sanguinari marines mediante la fune d’ordinanza, Jefferson si chinò per un attimo per uno strano rumore nella carlinga, quando un proiettile penetrò attraverso la paratia, esattamente dove la sua testa si trovava soltanto un secondo prima. L’elicottero era sotto il fuoco nemico, e in breve tempo le armi automatiche di Charlie, puntate con astio inverecondo, perforarono il serbatoio, il sistema idraulico e alcuni dei servomeccanismi del motore! Faticando immensamente, tuttavia, i piloti mantennero l’uccello in volo, che barcollando in alternanza da una parte e dall’altra, riuscì per fortuna a giungere fino al campo d’atterraggio. Nessuno a bordo riportò alcuna ferita. L’ufficiale meccanico quindi, vedendo la situazione dell’apparato principale, esclamò: “Non è possibile che siate vivi, niente avrebbe potuto volare in queste condizioni.” Quindi Jefferson, arrampicandosi sulla scaletta, andò anche lui ad osservare il punto in cui il rotore dell’elicottero era assicurato al motore. E vide lo scempio causato dai proiettili, mentre un solo bullone, al centro di tutto, rimaneva perfettamente privo di danni evidenti. Alzando lentamente lo sguardo, quindi, si rivolse alla controparte: “Maggiore, lei non capisce. Se l’elicottero è rimasto intero, c’è una sola possibile ragione. Deve averlo aiutato il Figlio di Dio in persona.”
Così nacque secondo la leggenda il termine, spesso utilizzato come metafora nei sermoni degli Stati Uniti (ma COSA non lo è?) di Jesus nut, ovvero “Il bullone di Gesù”. Antonomasia del cosiddetto singolo punto di vulnerabilità, un oggetto talmente piccolo da entrare in una mano e che costituisce tuttavia l’unico responsabile, ovvero il cardine stesso, di quell’intero sistema volante che è l’elicottero, direttamente interconnesso alla vita di tutti coloro che si trovano a bordo. Si potrebbe in effetti dire che il componente in questione sostenga in autonomia le 2-3 tonnellate del mezzo, contro la forza di gravità e mentre esso si trova variabilmente distante dal rifugio sicuro del duro suolo…

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