Desolata Jan Mayen, l’isola del vulcano più settentrionale al mondo

Terra nullius è l’espressione giuridica utilizzata in campo geografico, al fine di riferirsi a territori al di fuori dell’amministrazione di qualsivoglia entità nazionale esistente. Potenzialmente riconducibile all’epoca dell’Antica Roma, questo concetto diventò parte della dottrina dell’esplorazione implementata a partire dal XVI secolo, quando navi battenti le bandiere degli imperi europei iniziarono a piantarne le rispettive copie in ogni isola gli capitasse a tiro nella vastità dei maggiori oceani terrestri. Luoghi come il pescoso arcipelago delle Svalbard, destinate a diventare una base per la caccia alle balene artiche già nel 1611, sotto il controllo congiunto di olandesi, norvegesi, inglesi, francesi… Laddove di suo conto, la non altrettanto remota ed ancor meno accogliente striscia di terra di 55 Km con annesso massiccio vulcanico ad una delle estremità, destinata ad essere chiamata Jan Mayen fu a partire da quattro anni dopo controllata esclusivamente dalla Noordsche Compagnie, l’azienda di stato dei Paesi Bassi che tentava ormai da tempo d’istituire un monopolio di fatto nei commerci del grande Nord. Questo per la quasi totale assenza di fonti di cibo, alberi o altre amenità potenzialmente utili all’insediamento umano entro l’estendersi delle sue coste di origine vulcanica, antistanti un entroterra ricoperto di ghiacciai e scarne distese ricoperte d’erba. Così come dopo la sua scoperta sarebbe stata registrata ufficialmente nel 1614 sul diario di bordo delle due navi Orangienboom e Gouden Cath, quest’ultima capitanata dall’esploratore Jan Jacobszoon May van Schellinkhout, dal cui nome e cognome ricevette il battesimo toponomastico, aprendo un’epoca di appoggio e rifornimento navale destinata a durare fino al 1638. Non che il luogo mancasse di una potenziale scoperta ed utilizzo mai acclarato da parte dei popoli vichinghi durante il Medioevo, venendo talvolta incluso nei filologi tra i luoghi toccati nel grande viaggio di San Brandano, l’ecclesiastico irlandese che proprio qui avrebbe udito un “grande boato tra la nebbia” degno di essere associato all’ingresso dell’Oltretomba, oltre cui sarebbe passato per continuare la sua ricerca del Paradiso Terrestre. Associazione, quest’ultima particolarmente interessante vista la natura vulcanica di tale luogo dominato dall’ombra conica del Beerenberg, uno stratovulcano assolutamente attivo e per cui si stima un’episodio eruttivo in media 75-170 anni (l’ultimo registrato nel 1986). Con tutti i sommovimenti tellurici che tendono immancabilmente a derivarne. Successivamente abbandonata per il calo drastico della quantità di balene catturate che ad un certo punto avevano giustificato la presenza stagionale di fino a 300 uomini, fino alla morte per scorbuto di un’intero equipaggio tra gli ultimi rimasti a fare la guardia all’installazione per timore di ritorsioni o atti di pirateria, l’isola di fatto disabitata per oltre due secoli e mezzo avrebbe trovato una seconda popolazione temporanea nei cacciatori di origine norvegese. Che all’inizio del Novecento scoprirono e sfruttarono estensivamente la nutrita popolazione di volpi artiche, le cui pelli venivano vendute a caro prezzo una volta fatto ritorno in patria. Attività difficilmente sostenibile e che nel giro di appena un paio di generazioni, avrebbe portato all’inevitabile estinzione della popolazione locale di tali creature assieme a quella di qualsiasi animale terrestre avesse mai abitato queste sfortunate sponde…

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Parlando dei clatrati, ovvero la prigione cristallina che trattiene sotto il mare l’ultimo respiro della Terra

Quando si pensa all’ora di un fenomeno estintivo sorgono alla mente due fondamentali tipologie di scenari: il primo è un’Apocalisse dalle origini esterne, ovvero l’impatto di un meteorite, oppure l’emissione di raggi gamma da parte di una distante Supernova, o ancora l’anomalia gravitazionale dovuta a un’improvviso passo falso nella danza dei corpi del Sistema Solare. Alternativamente, tra le nostre paure più frequentemente discusse, sussiste la casualità di un fattore di devastazione indotto da una situazione sussistente del nostro stesso pianeta, spesso di origine antropogenica, ma non necessariamente tale: una guerra mondiale, un disastro atomico, l’eruzione di un mega-vulcano. Tutte cause allo stesso modo irrisolvibili, a differenza del graduale, inesorabile riscaldamento terrestre. Un degrado che potrà durare secoli, o millenni, mentre la biodiversità dei continenti continuerà a soffrire, le risorse alimentari diminuiranno e la popolazione umana vedrà compromessa sempre più la qualità della propria esistenza. Ma che cosa succederebbe se tale fenomeno, piuttosto che richiedere generazioni, potesse accelerare al punto di giungere alle sue più gravi conseguenze nel corso di una singola vita umana? A quanti metodi o contromisure potremmo, in ultima battuta, fare ricorso nel tentativo di arginare il disastro? Questa è la tremenda contingenza, teorizzata per la prima volta nel 2003 dal paleoceanografo statunitense James P. Kennett, definita come l’ipotesi della pistola (o cannone) di clatrati, al fine di sottolineare non soltanto la sua assoluta letalità, ma il modo in cui potrebbe accadere, in termini geologici, letteralmente da un momento all’altro e senza nessun tipo di preavviso. Come, secondo lui e colleghi, potrebbe essere successo esattamente 251,9 milioni di anni fa per la grande estinzione del Permiano-Triassico, il più grave evento di questo tipo nella storia di questa Terra, che portò alla scomparsa di oltre il 57% delle famiglie biologiche esistenti. O ancora, su scala inferiore, durante il massimo del Paleocene-Eocene, quando la media di temperature su scala globale aumentò di circa 8 gradi, causando entro 1.000 anni la dipartita del 35-50% delle creature delle acque profonde, mentre si verificava una sostanziale riduzione nelle dimensioni dei mammiferi sulla terraferma. E tutto questo a causa della compromissione incontrovertibile di un delicato equilibrio tra temperatura e pressione, necessario al mantenimento dello status quo implicitamente favorevole alla nostra e altrui sopravvivenza. Il che ci porta, per l’appunto, alla descrizione di cosa sia esattamente un clatrato (o idrato gassoso) e la maniera in cui la sua eventuale cessazione dell’esistenza possa costituire un essenziale punto di non ritorno, causando l’effetto a cascata che conduce inesorabilmente alla perdizione. Suscitando il dubbio, effettivo ed innegabile, che sia davvero possibile fare qualcosa per evitarlo…

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Sospeso momentaneamente in un barattolo l’eterno conflitto tra gli angeli e le farfalle di mare

Serafini, cherubini e troni. Dominazioni, virtù e potestà. Principati ed arcangeli. Qualifiche attribuite dagli uomini ai presunti livelli successivi di creature, o invero emanazioni più o meno tangibili, dell’Altissimo intelletto che ha creato ed in una qualche misura non del tutto ponderabile, tutt’ora guida e sorveglia l’Universo. Esseri benevoli o in ogni caso non pernicioso, per quanto dotati del tipo di poteri sufficienti a danneggiare o devastare l’intera civiltà degli effimeri individui terrestri. Forse per questo, nella Bibbia, l’espressione che più spesso scaturisce dalle loro labbra è solita configurarsi come “Non abbiate paura” ovvero proprio quell’affermazione che, nella stragrande maggioranza dei casi, dovrebbe costituire l’inizio di un senso di terrore imprescindibile e continuativo nel tempo. Perché se un messaggero divino dovesse d’un tratto decidere, per propria o esterna iniziativa, che è giunto il momento di dare la caccia a qualcosa o qualcuno, c’è molto poco che la nostra odierna tecnologia o fondamentale essenza potrebbero servire per tentare d’inficiare una simile nefasta inclinazione. Volendo a questo punto connotare un tale esperimento teorico con la realtà tangibile dei fatti, basterà pensare momentaneamente al destino della lumaca di mare planktonica Limacina helicina o farfalla di mare, poco meno di mezzo centimetro di creatura incluso il guscio e le ali, condannata a vivere in condizioni che potremmo agevolmente definire come precarie. Vista la facilità con cui viene fagocitata da salmoni, balene, foche ed uccelli, ma anche e soprattutto un altro tipo di gasteropodi, il cui fato è intrecciato indissolubilmente al loro, in quanto governato da pregressi processi evolutivi che li hanno resi capaci di nutrirsi esclusivamente di tali piccole, fluttuanti creature. Essi stessi evanescenti e non più grandi di 2 cm, sebbene distribuiti in una forma verticale senza guscio e dall’aspetto vagamente angelico, che li identifica rapidamente come spp. Clione/Clionoidea o Hydromyloidea, a patto di disporre di una fonte di luce adeguata. Del tipo raramente presente, a dire il vero, nel particolare ambiente di provenienza di entrambi, che ne colloca una vasta maggioranza a profondità di fino 500 metri negli abissi dell’Artico e dei mari del Nord, dove da tempo immemore, competono perseguendo la propria esclusiva sopravvivenza. Entrambe carnivore, ed altrettanto inclini a fagocitare esponenti della giovani della lumaca più piccola (rendendo effettivamente la L. helicina un chiaro esempio di cannibale opportunista) sebbene sia soprattutto la seconda a dare spettacolo, nel momento in cui si approccia a un esponente della controparte più piccola altrettanto incline a fluttuare nella colonna verticale marina. Quando ribaltandosi letteralmente tra il dentro ed il fuori, estende i suoi quattro tentacoli per afferrare il guscio della cugina. Per poi procedere, mediante l’utilizzo di uno strumento anatomico noto come cono boccale, ad agganciare il mollusco all’interno mediante l’uso di appositi uncini. E risucchiarne via, letteralmente, ogni fluido nutritivo contenuto all’interno. “Non abbiate paura.” …Indeed!

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Avete mai visto una foca della Juventus fare il tifo nel gelido mare dei Ciukci?

Zebra, zebra, nobile animale! Poiché conosce i meriti delle ore trascorse sotto il cielo aperto, interpretando le precise traiettorie di un pallone. Altrimenti come spiegheresti l’equina alternanza cupa e chiara, che quasi direttamente si richiama alla livrea di una delle più importanti squadre di pallone della più famosa penisola europea? Ma se una zebra fosse nata là, dove il mare stesso si ricopre di uno spesso strato di ghiaccio, di sicuro non avrebbe quattro zoccoli ed una criniera. Dovendo tuffarsi ad ogni volgere del vespro, trarrebbe giovamento da un corpo idrodinamico. E grossi occhi membranosi, l’ideale per vedere sott’acqua. Avrebbe pinne, al posto delle zampe, e senza erba nel raggio di un migliaio di chilometri non potrebbe fare altro che mangiare pesce a profusione. Eppure ancora tiferebbe, nel profondo del suo cuore adesso ricoperto da strati di grasso sovrapposti, per lo stesso emblema che fu il sacro simbolo dei propri genitori. Il suo spirito, l’essenza e personalità. Soprattutto se appartenente a una particolare specie, raramente fotografata, quasi mai trattata nei documentari, che per questo in pochi riconoscono quando gli capita d’incontrarla nella più vasta antologia di animali mai concepita: il mondo virtuale del web. Il che è piuttosto strano, dopo tutto, poiché nel mondo adesso esistono all’incirca 183.000, forse più del doppio di Histriophoca fasciata o foche dal nastro (ribbon seal) suddivise pressoché equamente tra i gelidi recessi del mare di Bering e di Okhotsk. Riferendosi direttamente alle loro specifiche residenze nei mesi d’inverno, laddove al progressivo liquefarsi delle proprie piattaforme scintillanti, esse rincorrono il bordo dei ghiacci fino a quello spazio estremamente nordico della geografica intercapedine tra l’Alaska e la penisola siberiana identificata con l’appellativo del suo popoli (i Ciukci) così vicino alla bagnata sommità del pianeta Terra. Il cui “nastro” può essere chiamato una metafora, nella misura in cui si riferisce alla gradevole alternanza di strisce nere e bianche, che circondano il pesante corpo dell’animale, intercalate da altrettanti cerchi neri su di una pelliccia marrone scuro. In quella che potremmo anche definire, abbandonando i richiami sportivi, una foca al caffellatte o cioccolato e vaniglia, nella tipica disposizione alimentare ed affamata della nostra gente dei continenti emersi. Di un’avidità conforme, a dire il vero, a quello stesso approccio al commercio di pellicce che portò famosamente tra gli anni ’60 ed ’80 dello scorso secolo alla creazione di un nuovo tipo di sport, simile al baseball ma in cui le mazze venivano impiegate con trasporto all’indirizzo dei fragili crani neonati di creature bianche come la neve. Perfettamente mimetizzate grazie alla loro preziosa pelliccia da una vasta varietà di predatori, ma purtroppo non quello più pericoloso di tutti: l’uomo. Sebbene sia legittimo affermare, in forza di una serie di fortuite circostanze, che il grosso del prezzo sia stato pagato dalla specie esteriormente simile della foca con la sella (harp seal) con la sua singola macchia nera sopra il dorso, ma una disposizione maggiormente socievole e soprattutto l’insolita abitudine di abbandonare i proprio piccoli altrettanto candidi ed inermi soltanto 10 giorni dopo la nascita. Affinché la natura facesse il suo corso, oppure l’anima spietata del commercio di pellicce pregiate…

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