Uno sguardo indietro verso il ponte d’acciaio più pesante delle isole inglesi

Era un pomeriggio uggioso del 1887 quando Sir Benjamin Baker, due anni dopo l’inizio del progetto più importante della sua carriera, salì presso la cattedra della grande aula ad emiciclo del palazzo neoclassico di Albemarle Street, nel quartiere londinese di Mayfair. Dal grande manifesto posto sopra un cavalletto e preventivamente coperto mediante il classico telo nero della suspense, molti dei presenti membri della Royal Institution avevano già intuito il tipo di lezione che aveva intenzione di tenere, sebbene fosse difficile immaginare effettivamente fino che punto avesse intenzione di violare la regola non scritta di questo tipo di contesti accademici, evitando l’uso prosaico di metafore particolarmente ardite ma sfruttando unicamente proporzioni matematiche asservite all’organizzazione dei concetti latenti. Ogni vago sospetto ed elucubrazione, ad ogni modo, furono chiariti nel momento in cui, dopo una breve cappello introduttivo sul concetto del ponte dell’insenatura di Forth e quello che avrebbe potuto significare per la Gran Bretagna, chiese al suo assistente di scoprire la grande fotografia esplicativa: un’immagine che ritraeva tre uomini seduti, due dei quali su altrettante sedie e sopra manici di scopa in posizione obliqua, in opposizione a quelli usati per sostenere dei mucchi di mattoni facenti funzione di contrappeso. In opposizione a quelli posti ad incontrarsi nel punto centrale, assieme a un asse sopra cui era situato in equilibrio il terzo uomo, mantenuto in posizione per la fisica vigente da un enseble così surrealista. Seguì spiegazione probabilmente lunga ed elaborata, che esulando dallo spettro rilevante del presente articolo, possiamo agevolmente riassumere nella frase “Uguale in linea di principio. Ma più grande.”
Molto, molto più grande: con i suoi esattamente 2.467 metri di lunghezza, con 642 di avanzo rispetto al precedente ponte record di Brooklyn a New York, che essendo stato completato soltanto 4 anni prima aveva dimostrato al mondo la fattibilità, e l’efficienza di una sovrastruttura costruita primariamente nell’acciaio dell’epoca moderna, creato grazie al processo Bressemer brevettato nel 1856. Lo stesso portato ad apparentemente valido coronamento in questa terra di Scozia, per inciso, nel 1878 con l’inaugurazione del ponte simile sul golfo di Tay, ugualmente utile a velocizzare ed aumentare l’efficienza del trasferimento di merci verso settentrione, evitando di dover girare attorno a due delle più rilevanti interruzioni paesaggistiche sulla costa orientale britannica. Era questa, tuttavia, un’epoca di grandi cambiamenti e sperimentazioni, che avrebbe a breve portato ad esempio la Francia al di là della Manica alla costruzione dell’iconica Torre Eiffel, un’altra formidabile dimostrazione della superiorità del ferro dall’alto contenuto di carbonio a quello prodotto dalle forge tradizionali. Che molto poteva sopportare, sebbene avesse limiti ancora non del tutto noti. Almeno fino a quella drammatica notte del 28 dicembre 1879, quando per un tragico errore dei calcoli infrastrutturali, proprio il viadotto di Tay cedette in modo catastrofico sotto il peso di un treno passeggeri, portando alla morte di 75 di loro. Fu per questo con un vago senso di trepidante attesa, oltre che oggettiva curiosità, che i presenti alla prima dimostrazione tecnica di cosa Baker e il principale collega, anch’egli “Sir” John Fowler avessero intenzione di fare, per allontanare il più possibile l’ipotesi che un frangente simile potesse verificarsi ancora. Difficile immaginare effettivamente in quanti, nell’insigne riunione, potessero effettivamente immaginare fino a che punto fossero intenzionati ad arrivare…

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La strana posizione newyorchese dell’ultimo “fagiolo” riflettente di Anish Kapoor

Sta sollevando un certo grado d’interesse la notizia secondo cui dallo scorso 31 gennaio i passanti di Leopard Street nel popolato quartiere Tribeca della Grande Mela possono ammirare con i propri occhi uno spettacolo piuttosto insolito: l’oggetto fuori dal contesto di un ovoide dalla forma schiacciata, incastrato ad arte sotto uno degli spigoli del recente, lussuoso ed affascinante palazzo soprannominato la Torre Jenga, a causa della forma sporgente dei suoi balconi ed appartamenti. Ad arte perché si tratta, per l’appunto, di un’opera del celebre artista di origini indiane naturalizzato britannico Anish Kapoor, già autore rinomato della simile struttura posizionata in mezzo al verdeggiante Millennium Park, nella sponsorizzata AT&T Plaza di Chicago, ad oltre 1.200 Km di distanza. Creando una sorta di linea di collegamento ideale tra le due grandi città americane, ciascuna dotata delle proprie attrazioni e monumenti, ed ora entrambe abilitate a far riflettere la gente sulla propria posizione e ruolo nell’immensa struttura dell’Universo, tramite la loro immagine riflessa nelle distintive forme di tali strutture vagamente ultraterrene. Così come prosegue la tematica di fondo, importantissima per quello che costituisce uno dei creativi dell’epoca post-moderna più pagati ed influenti della nostra Era, di creare una letterale ed efficace Porta del Cielo in acciaio inossidabile, titolo non casualmente attribuito all’originale (“Cloud Gate”) e più famoso esempio in prossimità delle sponde del lago Michigan, qui meramente riproposto ad una stazza sensibilmente più piccola di 40 tonnellate, contro le 100 dell’eponimo ispiratore. Una creazione nondimeno… Impressionante, a suo modo, per la maniera in cui compare all’improvviso mentre si procede sul sentiero urbano, non come pezzo forte di un allestimento visitabile sul tetto di un ristorante, in maniera analoga all’alternativa, bensì incorporato per un vezzo momentaneo nella struttura già notevolmente insolita del palazzo che in larga parte contribuisce a mantenerlo in ombra. Il che non potrebbe essere maggiormente lontano dalla verità, visto l’investimento per averlo effettuato dal costruttore Izak Senbahar pari a 8 milioni di dollari, tra le plurime incertezze dei suoi banchieri e partner d’affari. Nel posizionamento ideale di un luogo i cui appartamenti hanno per inciso un costo unitario che si aggira tra i 3,5 e 50 milioni di dollari e nel quale si è anche trasferito, a partire dal 2017, lo stesso Kapoor. Potendo in tal modo beneficiare di una vista diretta sull’ansiogeno ritardo che ha condizionato il completamento della sua scultura, dovuto principalmente all’insorgere del Covid negli anni passati ma anche l’inerente complessità nel costruire qualcosa di tanto inusuale, già largamente sperimentata dalla stessa compagnia metallurgica Performance Structures Inc, l’originale autrice materiale del “fagiolo” posto al centro metafisico della Città Ventosa. Soltanto per vederlo ribattezzato entro breve tempo dai nativi col suddetto soprannome, originariamente estremamente inviso allo stesso Kapoor fino alla progressiva rassegnazione ed un tardivo senso d’autoironia, dinnanzi al plebiscito popolare che si è già ampiamente ripetuto per la città di New York. Tanto che nel presente ed attuale caso, almeno stando alla stampa generalista, la sua opera non sembrerebbe neanche possedere un titolo ufficiale, essendo già stato denominato dal pubblico e la stampa con l’ancor più dissacrante termine di “mini-bean”. Il quale non sembrerebbe aver fatto molto, in questi primi giorni dalla silenziosa inaugurazione, per incrementare il valore della percezione pubblica di una così distintiva e notevole installazione…

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La singolare ragione per far avvolgere un grattacielo su se stesso a Vancouver

Tra gli esperimenti più importanti condotti da Isaac Newton per formalizzare l’innovazione scientifica dell’analisi matematica, viene spesso citato l’argomento del secchio pieno d’acqua, appeso ad una corda e “caricato” ruotandolo per varie volte in senso antiorario. In modo tale che, al rilascio dello stesso, essa tenda naturalmente a ritornare nella situazione originale, ruotando vorticosamente per qualche tempo nella direzione opposta. Ma non venendo immediatamente seguìto, in tale movimento, dal fluido che lo riempie, il quale adattandosi in maniera inerziale dapprima resta immobile, poi accelera in maniera indipendente fino alla velocità del suo contenitore. Ed infine continua a vorticare, per qualche tempo, anche dopo che quest’ultimo si è fermato. Dal che risulta che “Non è possibile misurare il movimento di un corpo in base a ciò che lo circonda.” Ma piuttosto: “Occorre utilizzare un piano di riferimento assoluto.” Quattro secoli dopo l’artista Rodney Graham, essendo stato chiamato dalla società privata di sviluppo immobiliare Westbank per abbellire e in qualche modo migliorare l’estetica di un importante spazio vuoto della città di Vancouver, avrebbe scelto di richiamarsi al famoso momento nella carriera di uno dei più grandi osservatori del mondo mai vissuti mediante la costruzione di un’insolita opera d’arte: l’imponente lampadario rotante da oltre quattro tonnellate di vetro ed acciaio, appeso sotto le architravi del Granville Street Bridge. Contributo di arte pubblica necessariamente incorporato nell’appalto dato alla compagnia per la costruzione di un suo nuovo, eccezionale edificio. L’ultima creazione dell’architetto danese Bjarke Ingels, che sembra sfidare intenzionalmente la forza di gravità ma effettivamente nasce dal bisogno, molto chiaro ed apprezzabile, di creare spazio sufficiente dove molti avrebbero pensato di poter creare, al massimo, un semplice parco o basse case triangolari. Qualcosa che riesce a presentarsi, in un particolare angolazione dell’iconico skyline della città, come un oggetto asimmetrico ed almeno in apparenza impossibile, per la letterale assenza di una parte della sua struttura inferiore tale da renderlo necessariamente instabile e pronto a cadere. Finché girandogli attorno, non si riesce a comprendere l’effettiva natura del suo segreto: la maniera in cui si configura come la forma geometrica di un prisma che diventa parallelepipedo, guadagnando nel contempo circa la metà dei suoi quasi 4.000 metri quadri di superficie abitabile per ciascun piano. Riuscendo a presentarsi, nelle parole del suo stesso creatore, come un “genio che esce dalla lampada” capace di risolvere, a suo modo, un importante problema logistico cittadino.
Sarà evidente a questo punto come la Vancouver House dell’altezza di 155 metri, completata nel 2020 e vincitrice entro l’anno di svariati premi come “miglior grattacielo”, rappresenti un’interpretazione più moderna dello storico Flatiron Building di New York, il palazzo triangolare situato tra la 23°, la Fifth Avenue e Broadway grazie alla sua forma simile a quella di un cuneo (o ferro da stiro). Laddove l’esigenza nasce in questo caso dal desiderio di massimizzare il valore di un lotto strategicamente collocato in centro, ma poco convenientemente situato nel bezzo del “tridente” costituito dalla carreggiata principale e le due rampe del fondamentale viadotto da cui oggi pende quello stesso lampadario. Arteria che collega attraversando l’omonima “isola” di Granville (in realtà collegata alla terraferma) il distretto finanziario a quello per lo più residenziale e commerciale del Westside. Non senza passare e rendere omaggio, a partire dalla nostra epoca, alla più notevole approssimazione di un tornado scolpito nel cemento…

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Ammirando il preciso veicolo che rovescia fiumi di fuoco in prossimità della fornace

Il giro dei turni si concluse. Ma per quanto un simile scenario fosse atteso, persino inevitabile, nessuno avrebbe mai potuto preparare Harley all’esperienza sul finire della pausa pranzo, di offrire il caffè ai colleghi di lavoro nel bar in piazza poco distante dall’ufficio dove aveva cominciato a lavorare la settimana scorsa. Non per il semplice gesto di pagare il conto, chiaramente, bensì la fondamentale tradizione secondo cui doveva essere il prescelto, di volta in volta, a trasportare il vassoio con cinque tazzine piene fino al tavolo fuori la porta, dove gli altri lo avrebbero ricompensato con una grandine di sentiti e sinceri ringraziamenti. Harry mise quindi la cravatta dentro, poco dopo aver abbottonato ogni singolo bottone della giacca. E con un gran respiro, sollevato il carico fumante, iniziò a spostarsi con un moto lineare ed uniforme. Ora un piede innanzi all’altro, mentre il fluido scuro ondeggiava pericolosamente in prossimità del bordo dei recipienti. Egli si prefigurava molto bene, persino troppo chiaramente, cosa sarebbe potuto accadere in caso di un suo errore in tale contingenza: ogni presupposto di cameratismo rovinato, una carriera stroncata sul nascere, l’annientamento umano e professionale della sua figura ancor prima di aver imparato tutti i loro cognomi. Così quando uno degli avventori in fila alla cassa si spostò improvvisamente di lato, urtandolo distrattamente, spostò agilmente il peso sulla gamba destra, nel disperato tentativo di salvare la giornata. Se si versa… Ci saranno conseguenze. Se si versa, è la fine.
Trasferendo quindi tale contingenza, come può talvolta capitare, all’ambito del tutto quotidiano di un sito di fabbricazione metallurgica dell’industria contemporanea, la faticosa esperienza di Harry può essere individuata in quella del pilota designato del cosiddetto Slag Pot Carrier, un tipo di veicolo dal peso approssimativo di appena 90-140 tonnellate. Almeno finché, nel fondamentale esercizio delle sue funzioni, non si trovi a sollevare l’imponente recipiente refrattario entro cui si trova un tipo particolarmente indigesto di caffè. Per non dire addirittura incandescente. Apocalittico eppure appetitoso, a suo modo. L’efficace risultanza del processo di raffinazione dei metalli più o meno ferrosi, in gergo definito, per l’appunto, slag. In altri termini una cosa inutile, se vogliamo attribuirgli un aggettivo, che può d’altra parte ancora assolvere ad almeno un paio di funzioni. Che includono, procedendo a ritroso nella progressione logica degli eventi, il riciclo come materiale economico per edifici e manto stradale, a seguire dell’esecuzione di un possente, catastrofico spettacolo generalmente molto amato da coloro che lo osservano a distanza di sicurezza.
Potremmo definirlo pirotecnico, in un certo senso. Se non fosse l’assoluto opposto della tecnica, consistendo essenzialmente nella semplice sversatura meccanica della pentola argillosa all’interno di un irto fossato. Che poi diventi gradualmente un pendio, percorso dalle venature laviche di un così diverso tipo di vulcano. Ed infine, il crepaccio delle umane circostanze, tanto estreme quanto inevitabili fino all’ottenimento dell’infuocata corrente…

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