Spietate ed implacabili, le forze della convenzione lo rincorrevano facendo sfolgorare le sirene nella notte gelida dell’isola di Sodor. Gli abeti come punte di una sega, ormai quasi invisibili, svanivano ai margini del suo campo visivo “Niente carburanti liquidi, non può esserci altro che vapore! VAPORE, ti dico!” Riecheggiavano, con tono roboante, le parole del Controllore supremo indirizzate contro Diesel la locomotiva. Frutto di un’evoluzione tecnologica “proibita” proprio perché proveniente dalla cosiddetta terra ferma, oltre il singolo ponte di King Orry, colui che tanto tempo prima, aveva suggellato la fondamentale indipendenza ferroviaria degli abitanti di queste irraggiungibili città. Il che voleva sottintendere, in maniera sostanziale, la pericolosa etichetta di Essere Pericolosamente Disallineato, un problema da correggere o ancor peggio, spostare a margine della ferrosa società. Con un sorriso triste sul suo volto quadrangolare, eppure in qualche modo simile alla romana bocca della verità, Diesel scorse quindi il punto in cui i binari sembravano interrompersi senz’alcuna possibilità d’appello. “Di bene in meglio, CRAA-CRAAK!” Esclamò quindi la locomotiva, accelerando invece di frenare. E con un sibilo possente, staccando le sue ruote oltre i binari della schiavitù imposta, sollevandosi nell’aria come quei giovani cormorani ricoperti di catrame che, per tanto tempo, aveva ammirato. E mentre lo scartamento familiare scompariva sotto la sua forma oblungo, scorse l’inizio di quanto aveva tanto a lungo desiderato. I più larghi binari, a lui preclusi per semplice progettazione, della leggendaria isola britannica Principale. Voltandosi con una rotazione di 35 gradi, quindi, rese l’impossibile, reale: poggiando diagonalmente le sue ruote lungo l’asse della via ferrata, iniziò a sgommare. Chiedendosi, nel suo cervello in puro acciaio: “Come, come siamo giunti fino a questo punto, sovvertendo ogni possibile regolamento nazionale…”
Con soltanto un vago ricordo degli anni cupi della grande guerra, all’età di appena 9 anni, il giovane Wilbert Vere Awdry si trasferì assieme ai superstiti della famiglia presso una villa in periferia di Box, paese di 3.000 abitanti nello Wiltshire inglese. Lì sdraiato nel suo letto, nella magione destinata a rimanere celebre come “Journey’s End” (La Fine del Viaggio) imparò ad addormentarsi al suono insistente di un qualcosa che in molti, avrebbero trovato fastidioso: lo sbuffante sferragliare, e i mosti fischi di segnalazione, usati dalla locomotiva ausiliaria di stanza presso la ripida salita prima del vicino tunnel ferroviario, ogni volta che doveva incontrarsi, e coordinare i propri sforzi, col convoglio di passaggio quella specifica sera. Un poco alla volta, dunque, la strada ferrata giunse in modo metaforico all’ingresso della sua stanza, e salendo un po’ alla volta sopra il letto, penetrò nelle regioni più profonde della sua psiche dormiente. Colui che un giorno, non troppo lontano, sarebbe diventato il celebre reverendo e autore letterario di una serie di racconti spesso paragonata a Winnie Pooh, imparò dunque a riconoscere la personalità dei treni, le loro aspirazioni ed il significato dei suoni che producevano, attribuendo a ciascuno di loro una specifica personalità. Ed un volto, dalla forma tonda e in qualche modo inquietante, capace di esprimere l’intera gamma delle emozioni umane. Finché all’apice della seconda guerra mondiale, nel 1943, mentre il suo giovane figlio Cristopher rischiava di morire di morbillo, prese a raccontargli quelle tecnologiche vicende che erano riuscite a germogliare nella sua fervida mente, attribuendo un nome ed un cognome a un personaggio destinato ad occupare un posto di primo piano nel senso comune inglese ed anglosassone: Thomas la locomotiva-tender, ovvero in gergo del settore, dotata del serbatoio per il carburante e l’acqua all’interno della sua stessa carrozzeria dipinta di un acceso blu cobalto. Ma qualcosa di sinistro, come spesso avviene, serpeggiava nell’ombra di quelle storie…
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Il fulmine cecoslovacco che sfidò i giganti del sumo
Come plurime diramazioni dell’albero di ciliegio, l’influenza della cultura giapponese si dipana attraverso l’Asia, l’Europa e il resto del mondo. Certe volte, attraversando fasce disallineate e campi trasversali d’interesse, qualche altra, rilasciando un seme che può giungere a portare crescite del tutto inaspettate. Sapevate, a tal proposito, che nell’intera nazione Cecoslovacca, a partire dal 1997, sono state fondate ben 10 differenti scuole di sumo? Svariate delle quali a Praga in Repubblica Ceca, nei dintorni della quale oggi alcuni sognano la futura trasformazione di una fabbrica dismessa in stadio per la pratica di quest’antica arte marziale, nei fatti il primo ad essere edificato fuori dall’arcipelago d’origine, all’altro capo del mondo. Per ragioni la cui analisi, allo stato attuale dei fatti, sfuggono all’umana comprensione. Senza finanziamenti governativi, senza gli incentivi normalmente riservati ad altri sport, specialmente se si tratta di una disciplina olimpica, la complessa arte del combattimento nel dohyō, arena-tempio dalla forma circolare, è prosperata grazie alla passione di un’elite, capace di convincere e portare sotto la sua ala un’intera potenziale generazione di praticanti. Ed è proprio sulla base di una simile struttura, sociale, culturale e fortemente sentita, che ebbe modo di prendere forma l’esperienza personale di Pavel Bojar alias Takanoyama Shuntarō, secondo il nome ricevuto presso il proprio campo d’adozione come uno dei pochi, pochissimi combattenti europei. All’interno di un mondo che al di sopra di ogni altro, nella percezione generalista, sembrerebbe il frutto di un sentire fortemente nazionalizzato ed unico, l’irripetibile conseguenza di una lunga serie di specifiche circostanze. Eppure colui noto come “l’Onorevole Montagna” (significato letterale di taka-no-yama; 隆の山) si spostò in Giappone nell’anno 2000 all’età di soli 17 anni, vincendo un campionato giovanile per riuscire ad esser accettato nella heya di Naruto nella prefettura di Chiba, gestita dall’ex campione assoluto (yokozuna; 横綱) Takanosato Toshihide. Sotto la cui ala protettrice e grazie ai cui insegnamenti, avrebbe stabilito numerosi record molto significativi, senza tuttavia riuscire mai ad accedere alle vette più irraggiungibili di quel ragguardevole consesso di guerrieri.
Ritiratosi quindi nel 2014 all’età di 31 anni, a seguito di una serie di sconfitte sfortunate costategli una grave retrocessione, oggi Takanoyama resta sorprendentemente famoso in entrambi i suoi paesi, incluso quello d’adozione e soprattutto online, dove i video di alcuni suoi combattimenti ritornano virali ad intervalli imprevedibili, spesso accompagnati da sottotitoli quali “Combatti usando la furbizia, non la forza” oppure “Le dimensioni contano, ma solo nella mente”. Per una ragione molto semplice, immediatamente chiara: la strabiliante differenza di dimensioni tra il rikishi (力士) della Repubblica Ceca dal peso di “appena” 98 Kg per 1.87 cm di altezza e i suoi avversari, spesso in grado di sfiorare i 200 Kg. Questo perché come in molti sanno, il sumo non ha divisioni per categorie di peso, ragion per cui attraverso i secoli la fisicità considerata più desiderabile è stata considerata quella in grado di abbassare e stabilizzare il più possibile il baricentro umano, impedendo all’avversario di avere la meglio con la semplice forza bruta dei propri ferrei muscoli nascosti sotto gli strati di adipe rosato. Detto questo e nonostante tutto, in epoca moderna c’è stato un certo numero di campioni capaci di violare le regole di questo assunto, dimostrandosi perfettamente in grado di supplire all’assenza di peso con la propria prontezza di riflessi e tecnica personale. Personaggi in mezzo a cui figura, a pieno titolo, l’europeo Takanoyama…
L’imponente presenza del trionfo equino di Percheron
Era l’estate del 1940 quando il cane del giovane francese Marcel Ravidat, il cui nome era Robot, sparì improvvisamente nei dintorni di Dordogne. Per lunghissimi minuti o persino un’ora, quindi, il ragazzo chiamò e chiamò ancora l’animale, finché restando a bocca aperta, scoprì l’inaspettata verità: il suo amico, pur senza riportare fortunatamente nessun tipo d’infortunio, era infatti scivolato in fondo a una depressione nel terreno collinoso totalmente invisibile dal sentiero. Ed ora lo aspettava pazientemente, all’ingresso di quella che sarebbe ben presto passata alla storia come la più importante scoperta archeologica del decennio, forse persino l’intera prima metà del XX secolo. Il giorno dopo, avendo già recuperato il cane (le cronache non parlano di come egli fosse riuscito a farlo) Ravidat tornò sul posto assieme a tre suoi coetanei dello stesso villaggio, armato di corde o torce: il gruppo era infatti quasi certo di aver trovato la leggendaria via d’accesso segreta al vicino castello di Lascaux, di cui spesso gli avevano parlato i propri genitori e parenti abitanti nei dintorni. Se non che, voltata un’ansa del passaggio sotterraneo, qualcosa di magnifico non ebbe a palesarsi dinnanzi ai loro occhi: una delle più antiche pitture parietali mai tracciate dall’uomo, che oggi sappiamo risalire al Paleolitico superiore. In essa figurava un cavallo dalle strane proporzioni, la testa piccolissima, il corpo enorme, le zampe forti e lievemente piegate all’indietro, nell’esibizione di un accenno prospettico assolutamente convincente. Fu allora che il francese, da amante degli animali quale probabilmente era, pronunciò queste fatidiche parole: “C’est… C’est le Percheron, ici”.
Ormai tutti conoscono a sommi tratti, come parte inscindibile del patrimonio culturale mondiale, le particolari immagini raffigurate su queste pareti d’arenaria, tra cui quelle dell’ormai estinto Uro, predecessore del bovino domestico dei nostri giorni. Ciò che forse non sapete, tuttavia, è come gli equini che lo affiancano in tali scenari non siano semplicemente il frutto di un artista privo di un reale senso delle proporzioni, bensì l’effettiva raffigurazione di un’altra specie delle “fattorie” del tempo, l’Equus Caballus Sequanus, i cui remoti discendenti, nei fatti, ancora camminano su questa Terra.
Con nomi come Moose North American Maid (non chiedetemi l’origine del delicato appellativo “Fanciulla Nord Americana” ma non ho grossi dubbi sulla scelta del termine “Alce”) periodicamente capace di attirare l’attenzione online come virale social, grazie a una serie di foto e video che circolano da svariati anni prima delle sua dipartita, purtroppo sopraggiunta prematuramente nel 2016, non prima di aver vinto svariati premi dal prestigio internazionale come miglior rappresentante della propria razza. Per una ragione, tra le tante: Moose, pur non avendo mai raggiunto l’invidiabile titolo di cavallo più grande del mondo, misurava “appena” 1,9 metri al garrese, in pratica abbastanza da riuscire a ricordare, con la propria inusitata imponenza, le leggendarie dimensioni del cavallo di Troia, cui tra le altre cose assomigliava anche, per la linea nobile del muso, le zampe lunghe e affusolate, il corpo aggraziato nonostante le proporzioni elefantiache del suo complesso. Vantando nei fatti le caratteristiche di una preziosa eredità genetica, la cui origine, persino oggi, potrebbe fare invidia a quella di una dinastia regale europea…
George, l’oca cignoide che accompagna ovunque il suo padrone
Così dicono, che all’interno delle alte/magiche mura della catena di grandi magazzini Walmart sia possibile trovare qualsiasi cosa: pneumatici, proiettili, papere di gomma e pulsossimetri di tipo non professionale. Addirittura le ossa di dinosauro. Ma chi l’avrebbe mai pensato? Che quest’ultimo particolare articolo potesse fare il suo ingresso oltre il dorato arco ancora ben protetto dalle piume candide di una creatura, che a tutti gli effetti può essere descritta come il più diretto erede del parasauro, con la sua cresta ossea che prosegue diagonalmente l’arco cranico superiore. Un essere che è al tempo stesso significativo dal punto di vista tassonomico, ed anche un grazioso ed amorevole animale domestico, per la risposta empatica mostrata a quel richiamo iterativo “George! George! GEORGE!”
Perché davvero, quale miglior modo di far avvicinare il pubblico di Internet al mondo fantastico degli animali? Che prenderne il rappresentante più vicino a se, vestirlo di tutto punto e trasformarlo, tramite la costruzione di una scena, nel vero e proprio personaggio di un cartoon… Calzino di Natale al collo, trasformato nel collo alto di un golfino a strisce bianche e rosse. Giubbotto da “cane di supporto” del tipo usato dalle guide a quattro zampe dei non-vedenti, benché sia probabile che l’oca in questione, nella realtà dei fatti, non abbia conseguito (ancora) il necessario tipo di diploma. Né appare necessario un tale passo, data l’energia e salute mostrate dal suo accompagnatore ed amico umano soprannominato CraZBob1 della regione di North Woods (probabilmente, siamo in Minnesota) che ne ha trasformato le peripezie, recentemente, in contenuti di alta visibilità su YouTube, Instagram e gli altri social network del Web. Perché tutti sono in grado di disegnare qualche piuma sul velociraptor, nel tentativo di farlo rassomigliare a un pollo gigante. Ma soltanto pochi eletti possono pensare di trasformare questo letterale ornitischio dei nostri giorni nella versione bipede di Spot o Felix, rappresentanti rispettivi della canide o felina persuasione. Specie quando si considera la discendenza effettiva di costui, pennuto, corrente depositario di una specie che trova le sue origini all’incirca 300.000 anni fa nell’entroterra mongolo, la Russia e la Cina settentrionale. L’Anser cygnoides, originariamente selvaggia e migratoria, prima di essere addomesticata soprattutto in funzione di una dote particolarmente significativa: quella di arrivare a deporre circa 100 uova ogni anno tra febbraio e giugno ed altrettante nella parte rimanente dell’anno. Abbastanza per nutrire una famiglia o alternativamente, costruirne una quanto mai numerosa. Ma dopo aver colpito i suoi nuovi amici umani grazie a tale dote, sarebbe stato successivamente proprio il suo carattere innato, a riuscire a conquistarli per la vita…