Che tipo di auto elettrica può costare meno di uno smartphone?

Estasiato non inizia neanche a descrivere l’atteggiamento di Jason Torchinsky, recensore del celebre blog automobilistico Jalopnik, mentre si gode il contenuto del grosso pacco da lui finalmente ricevuto dopo circa un mese l’ordine piazzato, per un capriccio del momento ed appena 930 dollari, sulle pagine del sito Alibaba, vero e proprio punto di riferimento di chiunque abbia un qualche tipo d’interesse nei confronti del nuovo mercato spesso sorprendente dei cosiddetti prodotti Made-in-China. Arricchitosi proprio in questi ultimi tempi di una nuova categoria merceologica, quella degli LSEV o Low Speed Electric Vehicles: mezzi di trasporto molto economici, prevedibilmente lenti e facili da guidare, particolarmente apprezzati nel loro paese di provenienza e non soltanto da chi abbia il bisogno di spostarsi senza avere la patente. Quelli che nelle metropoli della grande superpotenza asiatica sono soprannominati 老头乐 (lao tou le – il divertimento degli anziani) possiedono infatti una predisposizione particolarmente meritoria: la capacità di essere immatricolati, senza eccessive lungaggini, spese o la vincita di una vera e propria lotteria, per circolare nelle città di classe 1, 2 e 3, dove lo smog è l’unica cosa più pesante del traffico, nonostante strade dall’ampiezza e lunghezza inimmaginabili per gli abitanti di un grande centro europeo. Ecco dunque tali arterie arricchirsi, secondo una concezione urbanistica tipica di quelle parti, di apposite corsie laterali, ove gli abitanti del quartiere possono spostarsi per brevi trasferte, come casa-supermercato o casa-scuola nel caso debbano accompagnare figli/nipotini, perfette per un tipo di vetture dalla velocità limitata (qualche volta artificialmente, certe altre per mere ragioni di potenza) ai circa 30-40 Km/h. Ciò che emerge dall’improbabile e quasi surreale serie di articoli del sito americano, tuttavia, è la sorprendente qualità e ricchezza di optional del nuovo acquisto di Torchinsky, piccolo veicolo regolamentato come fosse un triciclo a motore con “una ruota addizionale” denominato Changli Nemeca, il cui aspetto complessivo può essere riassunto come quello del mezzo di Topolino o una versione effettivamente guidabile su strada della Little Tikes, l’automobile giocattolo tipicamente gialla e rossa integrata nei carrelli della spesa di alcuni dei maggiori supermercati al mondo. Poiché almeno ad un’analisi superficiale, non manca semplicemente nulla alla compatta quattro-ruote d’Asia adibita al trasporto ideale di due persone al massimo, in configurazione avanti-dietro all’interno di una sorprendentemente solida struttura in metallo. Benché le caratteristiche di sicurezza, effettivamente, non possano competere con quelle di un vero e proprio autoveicolo e le stesse doti prestazionali diventino maggiormente limitanti tanto più si tenta di scalare un qualche tipo di salita o collina, dove la Nemeca può essere facilmente superata almeno per brevi tratti, come dimostrato anche nel video, da un bambino in corsa. Mentre la stessa autonomia, data la dimensione necessariamente ridotta delle batterie, non supera i 120-150 Km totali. Ma i punti negativi, come esplicitamente vantato dal nuovo proprietario, finiscono qui essendo controbilanciati da un livello di rifiniture, per il prezzo risibile, decisamente superiori alle aspettative: a partire dalla dotazione di autoradio con lettore MP3, il riscaldamento e il sistema di ventilazione montato sul tetto. Per non parlare dell’improbabile telecamera per il parcheggio con visuale posteriore, certamente apprezzata in modo particolare dagli ideali clienti senior per cui è stato concepito in patria questo tipo di prodotto. E poi, c’è il discorso estetico; che sebbene possa anche non piacere, a seconda dei propri gusti e storia personale, risulta dotato di un certo fascino spiritoso e quasi naïf che non potrà fare a meno di far sollevare, in senso positivo, una considerevole quantità di sopraccigli lungo il corso delle proprie (rilassanti) avventure stradali…

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Erone di Alessandria e il compressore per pneumatici alimentato con la pompa da giardino

Orbene tutti sanno, o quanto meno dovrebbero nascondere tra gli alterni cassetti della memoria, che l’aria e l’acqua sono fluidi, benché il primo sia gassoso ed il secondo liquido, pur essendo entrambi contenibili all’interno di una semplice bottiglia. Il che comporta, questo è inevitabile, una fondamentale differenza del loro comportamento: poiché se la prima, stessa trasparente cosa che accogliamo nei nostri polmoni, è per sua natura comprimibile in maniera significativa, la nostra bevanda preferita ha una massa che rimane tale, benché la forma sia soggetta a variazioni infinite. Il che comporta alcune implicazioni degne di nota per quanto concerne l’interazione reciproca, in linea di principio utili a risolvere un ampio ventaglio di problematiche degli umani. Vedi, per esempio, la proposta di Quint, entusiasta titolare dell’omonimo canale, già realizzatore di soluzioni tecniche “fatte a mano” quali il generatore elettrico alimentato con l’acqua della sua grondaia o il proiettore laser per animare la musica dell’autoradio. Preoccupato, in questo caso, dal bisogno di gonfiare periodicamente gli pneumatici del suo veicolo soggetti a una perdita d’aria lenta ma costante, eventualità a seguito della quale deve periodicamente far ricorso al compressore elettrico che tiene in garage, dovendo fare avanti e indietro in maniera poco pratica, o almeno questa è la premessa (un po’ improbabile) della sua idea. Soluzione che potremmo definire a pieno titolo fondata sull’adagio, assai noto, secondo cui la mentalità dell’ingegnere sarebbe pronta a tutto pur di ridurre la fatica necessaria a compiere un’impresa ripetitiva, ivi compreso l’intraprendere una strada che comporti sforzi fisici e mentali ben superiori al bisogno di partenza. Come dimostrare in modo semplice nonché evidente, tramite un palloncino bucato attaccato a una bottiglia, riempita quindi successivamente attraverso il suddetto pertugio, come sia possibile spostare l’aria semplicemente impiegando l’acqua, seguendo in modo parallelo il principio da noi citato in apertura. Il che comporta, nel caso delle ruote, una serie di passaggi ulteriori che se non altro, dimostrano a pieno l’imprevista percorribilità dell’idea, sebbene dal senso di vista pratico essa lasci comprensibilmente a desiderare. Ma dal punto di vista scenografico, invece… Guardate: Quint misura, per prima cosa, il volume effettivo della prima gomma sgonfia per poi calcolare mediante un manometro la pressione complessiva di tre atmosfere. Il che porta ad un totale di incremento necessario, sottratta l’atmosfera nominale del pianeta Terra, di quattro volte le 10 bottiglie da 2 litri di cui dispone per condurre l’esperimento, da lui artisticamente collegate a un’asse di legno dotata di tubicini per costituire un sistema chiuso per l’acqua e l’aria. Un punto di partenza che una volta posto in essere, dovrà condurre dritto all’implementazione del proposito bizzarro, più velocemente di quanto si possa riuscire a dire effetto Coandă…

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Ruggisce ancora il bolide sospeso tra la vita e la Mors

Nella sua forma più pura e non adulterata, la potenza può essere molte cose: carisma, agilità, impatto, velocità, dinamismo. Ma in un certo senso trasversale, essa coinvolge sempre una specifica caratteristica, al di sopra di ogni altra. Sto parlando della la massa ovvero, forza diviso accelerazione, ovvero quanto le regole immutabili della termodinamica possono essere piegate all’implacabile volontà dell’uomo, al fine di raggiungere lo scopo ideale di partenza. Spesso a discapito della presunta ragionevolezza e qualche volta, finendo per pagare il prezzo più alto. Era il 1901, durante la prestigiosa gara europea della Parigi-Berlino, quando il progettista e pilota francese poco più che ventenne Charles-Henri Brasier, al volante di una delle sue ultime creazioni, vide troppo tardi un bambino di 10 anni che stava attraversando la strada, coperto dall’automobile che stava superando in quel momento. Senza alcuna possibilità di frenare in tempo, svoltare bruscamente o gridare al malcapitato, lo investì uccidendolo tragicamente, un’esperienza che l’avrebbe segnato per il resto della sua esistenza. Ciononostante, la gara non venne fermata ed il pilota, riprendendo la gara dopo una pausa di circa mezz’ora, la portò a termine arrivando in quarta posizione. La profezia in latino, a quel punto, si era compiuta: Mors ianua vitae “la Morte è la porta per la vita” mentre lo slogan scelto per l’omonimo marchio automobilistico che prendeva il nome da due fratelli imprenditori, tra i primi a credere e investire nel mondo delle gare competitive, diventava orribile ed inaspettata verità.
Probabilmente non fu proprio quella l’ultima goccia valida per sigillare il vaso di Pandora, data la distanza cronologica da un tale necessario evento, eppure il sacrificio del piccolo Ernest Breyer valse a dare il proprio contributo a un cambiamento che per lungo tempo, la gente aveva atteso. E nel 1906, con la prova di Havana della Cuban Race di febbraio, poi seguìta a primavera dall’introduzione della nuova gara siciliana della Targa Florio, il Club Francese dell’Automobile (ACF) annunciò l’inizio della prima stagione internazionale del nuovo Grand Prix motoristico internazionale, un’iniziativa che avrebbe ben presto fatto la storia dei motori introducendo, inoltre, norme specifiche per la sicurezza di piloti e spettatori. A quei tempi, per inciso, nessun produttore doveva sottostare a particolari leggi e regolamenti, con il solo limite di un minimo di 10 modelli costruiti e il peso massimo di 1.300 Kg, mentre ogni altra soluzione ingegneristica veniva giudicata opportuna. Il che avrebbe portato negli anni successivi ciascun produttore, tra cui Itala, Renault, Rolls Royce e Darracq, a iscrivere una quantità di vetture totalmente diverse tra di loro, spesso guidate da quello stereotipo di “pilota gentiluomo” che nella generazione immediatamente successiva, sarebbe stato attratto dall’universo totalmente nuovo dell’aviazione a motore. In un vero e proprio vortice di soluzioni contrastanti, più o meno efficienti, risulta dunque assai difficile collegare oggi determinati nomi alla loro automobile, anche vista la penuria di testimonianze foto/videografiche in un’epoca in cui lo scritto, ancora, dominava l’informazione. Escluso il caso, certamente raro ma tutt’altro che inusitato, di un esempio che possa esser giunto ragionevolmente integro di questa particolare epoca tecnologica, come il veicolo perfettamente rimesso assieme dopo esser stato tirato fuori dal deposito dove era finito e messo in mostra in questo video, dal celebre restauratore Eddie Berrisford. Una creatura di un’altro tempo, quando ancora i dinosauri mordevano con gli pneumatici le lunghe strade della Terra…

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Mano ferma e piè leggero sulla strada più pericolosa dell’Est Europa

Foschia e vento, ghiaccio, ghiaia, precarietà. Perfetta identità tra obiettivo e meta, scopo e intento, percorso e destinazione: questo serve, e molto altro, per giustificare la discesa entro il baratro delle profonde possibilità, fino alla porta della storia di un simile luogo. Omalo in Georgia, con la sua fortezza del XIII secolo e le alte torri ricoperte di licheni, usate un tempo come impenetrabili bastioni contro la venuta dei banditi, eserciti nemici o cercatori di fortuna provenienti dai confini del paese. O almeno i pochi, tra di loro, che si dimostrassero abbastanza intraprendenti da poter raggiungere il fondo attraverso una delle quattro gole che circondando il territorio interno della regione di Tusheti: Gometseri, Pirikiti, Chagma e Chanchakhovani. Tutte egualmente ripide, inaccessibili ed accomunate dall’odierna presenza, alquanto utile in linea di principio, di lunghe e serpeggianti strade create per gli autoveicoli dei nostri giorni. Riconoscibili in quanto tali, tra le loro caratteristiche, più che altro dall’occasionale impiego dell’asfalto, materiale utile a evitarne la disgregazione al sopraggiungere di ciascun inverno. Poiché la strettezza, quantità di curve e grado d’inclinazione parrebbero più che altro adatte a muli, ragni o altri animali dalle zampe cariche di un senso di cautela inerente. Mentre al quinto, o sesto tornante s’inizia comprendere l’effettiva natura dei piccoli “santuari” disseminati ad intervalli variabili, croci accompagnate, in ciascun caso, dalla foto e il nome di qualcuno, un’altra vittima chiamata dalle voci del vento e lo scorrere dei torrenti montani. Poiché è consigliabile prestare massima attenzione, mantenersi concentrati per quanto possibile, ma l’imprevisto, a Tusheti, resta sempre in agguato: frane improvvise, crolli dovuti all’escursione termica, l’incontro di autoveicoli incontrati in posizione sfortunata. O il semplice, quanto irrimediabile, guasto meccanico del proprio mezzo nel momento veicolare della verità. Seguìto da… riuscite a immaginarvelo?
La strada dalle multiple diramazioni, che assomiglia al caotico disegno di un bambino capriccioso sulla tela digitale di Google Maps, parte da un’altezza di 3.000 metri e discende fino ai 1.880 di Omalo stessa, capitale dell’intera regione definita come un parco naturale, benché abitata da un totale di appena 37 coraggiosi uomini e donne, di cui soltanto una parte resta in questo luogo per l’intero estendersi dei mesi invernali. La stessa connessione con la civiltà, del resto, viene meno quando il ghiaccio riesce a ricoprire quel sentiero in bilico, identificando l’unico possibile collegamento nel volo di elicotteri, utilizzati occasionalmente al fine di rifornire di vettovaglie questo luogo talvolta dimenticato. In attesa di un miglioramento delle infrastrutture, lungamente promesso, che al momento attuale sembrerebbe sempre più lontano, data l’impossibilità di ottenere il via libera dagli enti di protezione ambientale. Le diverse strade possibili fino a questo nesso di una civiltà inaccessibile quindi, da molti di coloro che la osservano dalle alte vette circostanti, presentano del resto un’ulteriore problematica al momento del ritorno, quando l’ambizioso visitatore dovrà ritrovarsi a percorrerle in salita, ovvero la maniera in cui le prestazioni di un motore automobilistico, normalmente, iniziano a degradarsi al di sopra di una certa altitudine. Richiedendo una pressione sempre più intesa sul pedale dell’acceleratore, il che a sua volta, può costituire la ragione ultima di un catastrofico, inconcepibile disastro. Va da se che per chiunque voglia affrontare una simile sfida, l’impiego di un veicolo 4×4 in ottime condizioni di manutenzione sia pressoché insostituibile allo scopo…

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