L’autunno tokyoita che rinasce dall’ottuplice parcheggio della Mazda Mx-Patata

L’attento studioso in trasferta nelle isole giapponesi sarà certamente in grado d’identificare la stagione dai suoni prodotti dalla natura: il richiamo degli uccelli e il frinire degli insetti, il fruscio delle foglie trasportate via dal vento, prima di cadere sulla gente in una cappa dorata. Ma se pure egli si trovasse, per un ipotetico scenario, tra le rumorose strade della più grande città del mondo, sarà un verso soprattutto ad annunciare l’avvento dei mesi più freddi. Una voce, giovane, anziana, maschile o femminile, che s’innalza a pronunciare con trasporto: “Yaki-imo! Yakkimo! Yaki-imo, ishi yakkimo!” Proveniente dalla forma immediatamente riconoscibile, e nello stesso modo incline a muoversi con valida coerenza, di un furgone, carretto o altro veicolo a motore sui sentieri asfaltati della megalopoli in perenne affanno. E conseguente, costante fame collettiva, al punto da beneficiare largamente dall’usanza tipica di questi luoghi, di comprare e consumare il cibo sui marciapiedi. In questa strana circostanza, tuttavia, piuttosto che il comune ausilio a questa tipica regione del commercio, gli avventori inquadrati nel corso del video sembrano sapere e riconoscere a tal fine qualche cosa d’inusitato. La rossa forma vermiglia di una Mazda MX-5, più comunemente detta Eunos o Miata. Così come fiammeggiante si presenta il forno di metallo sul portabagagli nella parte posteriore della piccola auto sportiva, maneggiato con palese competenza da una giovane ragazza del luogo. Cappellino e t-shirt bianca, sguardo concentrato, economia dei gesti. Fino a quando allo scattare di un preciso tempo d’attesa, ella apre lo sportello e tira fuori l’aromatico tesoro, un intero vassoio di quel particolare cibo che in un tempo passato, salvò il suo intero paese: l’Ipomoea batatas di colore viola (Murasaki) più comunemente detta patata dolce giapponese. Una chiara ed apparente contraddizione in termini, a dire il vero, quando si considera la ben nota discendenza di ogni appartenente gastronomico a un tale genere vegetale dall’area geografica del Centro e Sud America, dove furono colonna portante nella dieta dei grandi imperi precolombiani. Prima di essere rapiti, assieme al Solanum tuberosum o “normale” patata dai mercanti colonizzatori, che ne trapiantarono copiose quantità in Europa e successivamente, presso le ambascerie costruite nel vasto e distante Oriente. Il che ci porta ad un’importante e forse contro-intuitiva distinzione, tra due cose che ci sembrano concettualmente simili ma vengono, ad un’approfondita analisi, dai famiglie e storie tassonomiche assai distinte. Questo perché ogni varietà esistente di “batata”, come viene anche chiamato l’ingrediente, è una rappresentante a pieno titolo della famiglia delle Convolvulaceae, generalmente associata alla pianta floreale nota con l’espressione programmatica di bella di giorno. Mentre il più diffuso tubero ipogeo, notevolmente più facile da coltivare, è un appartenente al gruppo delle Solenacee o nightshade, che a quanto pare preferiscono esporre le proprie grazie dopo l’ora del tramonto. Il che non ha impedito, all’operosa specie umana, di confonderle ed utilizzarle entrambe in una vasta varietà di piatti, sebbene sia soltanto la prima delle due delizie, attraverso il corso articolata della storia del comfort food, ad aver raggiunto lo status iconico di cosa pronta da mangiare. Senza ulteriori aromi o condimenti, dopo essere stata semplicemente arrostita sopra il motore di una piccola automobile di tipo roadster a due sedili…

Arrostire una grande quantità di patate allo stesso tempo non è sempre una mansione semplice, sebbene la tecnologia possa aiutare. Vedi questo ingegnoso forno multi-tubo usato dal cuoco di Hong Kong Peng Lei, che ricorda almeno in parte il simile marchingegno coreano dal nome di gun-goguma (군고구마)

L’introduzione della patata (dolce o meno) in Estremo Oriente è dunque associata al periodo coloniale spagnolo, tra il XVI e XVII secolo, dalle capienti stive dei poderosi galeoni europei inviati verso l’arcipelago delle Filippine e in un momento successivo, le più occidentali propaggini del singolo paese più chiuso e riservato al mondo. Nel periodo in cui i mercanti “barbari” potevano vedere il Giappone soltanto nel porto di Nagasaki, sotto l’attenta supervisione delle autorità shogunali, mentre la loro lingua veniva parlata solamente da un’elite ereditaria con il beneplacito del potere centrale, nacque un uomo che avrebbe portato ad una prima timida apertura di quell’invalicabile muraglia di diffidenza. Il suo nome era Aoki Konyō e la qualifica, guadagnata grazie ad un’approfondita educazione tipica della classe privilegiata dei samurai, quella di esperto filosofo naturale nonché studioso del Confucianesimo con pieno accesso alla prestigiosa biblioteca del gigantesco castello di Edo. Fu tuttavia il suo innato spirito d’osservazione, nel 1733, a concedergli l’accesso agli annali di coloro che avrebbero influenzato la vicenda storica di un’Impero. Quando scrivendo un trattato sulla carestia che aveva colpito in quel periodo l’intero territorio nipponico, fu il primo a notare come una certa isola nel mare di Seto sembrasse non aver risentito in alcun modo della grave contingenza: il suo nome era Ōmishima e la semplice ragione, facilmente verificabile da chiunque, rintracciabile nell’aver diversificato l’essenziale strumento agricolo della risaia con coltivazioni di una strana verdura proveniente da Occidente. Il cui nome sarebbe diventato di lì a poco, satsumaimo (薩摩芋) o “[Patata] che si è diffusa in tutto il paese a partire dal feudo di Satsuma” entrando indissolubilmente a far parte di un settore particolarmetne elevato della cultura gastronomica nazionale. Aoki Konyō quindi, nominato dal bakufu (governo centrale) con la notevole qualifica di Supremo Sovrintendente della Satsuma-imo, supervisionò la loro coltivazione presso il giardino botanico di Koishikawa e lo stesso ottavo shogun Tokugawa Yoshimune, che si dice ne apprezzasse in modo significativo il sapore. Ma il fulmine era ormai fuoriuscito dalla proverbiale bottiglia ed in breve tempo, il segreto di questo cibo pregevole diventò di dominio pubblico, facendone pietanza preferita anche di un popolo ormai in pace da generazioni e che viveva nel benessere capace di favorire la rapida diffusione di nuove scoperte. Progressivamente sempre più popolare durante tutto il corso dell’epoca Edo (fino al 1863) ed anche in seguito alla restaurazione del potere imperiale che avrebbe dato il via al periodo storico successivo, la batata iniziò ad essere coltivata in due varietà distinte, nessuna particolarmente simile a quelle che ci capita talvolta di trovare al giorno d’oggi nei nostri supermercati europei. Esse erano e sono tutt’ora la già citata e più famosa yaki-imo (焼芋 – patata cotta, cui si aggiunge spesso la dicitura ishi – 石, su pietra) di colore viola e la beni-imo  (紅芋 patata rossa) proveniente soprattutto dall’isola di Okinawa, ancor più estrema nella propria consistenza farinosa dovuta alla secchezza delle radici. Ma entrambe assai diverse dalla tenera consistenza della varietà di patate dolci dall’interno arancione o bianco frutto dei moderni cultivar prodotti nel Nuovo e Vecchio Mondo, dimostrando a pieno una preferenza distintiva, o forse amore per la tradizione delle genti d’Asia. Così come in Cina e Corea, nel secolo immediatamente successivo, la patata dolce “giapponese” avrebbe avuto un significativo e incomparabile successo tra i sentieri ultra-competitivi del cibo di strada. Ritornando sempre tra le alternative preferite dal pubblico, anche accanto alle più stravaganti e spettacolari invenzioni commestibili dei tempi odierni.

La coltivazione delle patate dolci, qualunque sia la loro varietà, è piuttosto semplice e non richiede accorgimenti particolari. Essa riesce veramente bene, tuttavia, soltanto nei paesi dal clima caldo ed umido, trattandosi di un vegetale di radice che non tollera assolutamente il gelo.

Eternamente fraintesa, da un’associazione che semplicemente non ha luogo ad essere, per non parlare di quella ancor più assurda che la vede definita in lingua inglese yam (in quel caso un igname, o tubero del genere Dioscorea) la “patata” dolce è diventata quindi un apprezzato sinonimo in Giappone di quell’atteso e imprescindibile periodo dell’anno. Quando l’aria inizia a rinfrescarsi ed un’intera categoria d’ambulanti tira fuori dall’autorimessa il proprio principale strumento di lavoro, che sia un carretto, furgoncino o curioso allestimento alternativo di compatto veicolo sportivo.
Della cui operosa pratica, molto probabilmente, lo stesso Aoki Konyō avrebbe avuto ragione d’esser fiero. Lui che nel 1740, assieme al collega botanico Noro Genjō, ricevette il mandato shogunale d’imparare la lingua olandese, rompendo il monopolio degli interpreti ed inaugurando quelli che sarebbero diventati nella decade successiva noti come rangaku (蘭学) o studi olandesi, una nuova e alternativa via d’accesso alla sapienza, che tenesse conto dei notevoli progressi ormai dati per scontati all’altro capo del vasto mondo. Deceduto all’età di 80 anni nel 1769, tuttavia, il celebre studioso non avrebbe mai potuto conoscere di prima mano gli sconvolgimenti politici e sociali che avrebbero portato, quasi un secolo dopo, alla tardiva apertura del Giappone agli interscambi con i grandi potentati d’Occidente. Assieme alla ventata fresca e tutti quei sapori che nessuno, prima di quei giorni, avrebbe mai potuto avvicendarsi ad immaginare.

Lascia un commento