I rari territori tramandati dai cetacei con il muso di un più grosso delfino

Raramente si ha l’impressione di trovarsi innanzi a un effettivo “anello mancante”, inteso come la creatura che risiede nell’intercapedine biologica tra due categorie di forme di vita. Come la iena, feliforme che assomiglia in tutto e per tutto a un canide, o la famiglia dei “topi” macroscelidi, la cui proboscide tradisce l’effettiva appartenenza alla stessa famiglia degli elefanti. Volendo dunque ritrovare situazioni simili nel mondo degli abissi, sarebbe senz’altro difficile non ritrovarsi a citare i mammiferi marini appartenenti alla genìa dei Ziphiidae tra cui gli esempi più imponenti del genere Berardius, balene nella stazza la cui caratteristica forma del rostro ed il melone soprastante, l’organo di locazione simile a uno sferoide bulboso, parrebbero in tutto e per tutto accomunarli al gruppo di quei danzanti e giocosi spiriti affini all’uomo, gli odontoceti. Creature nate sulla terraferma intere Ere geologiche a questa parte, successivamente portate ad evolversi per migrare oltre le coste e nel grande azzurro luogo che si estende oltre lo sguardo dei quadrupedi abitanti del nostro mondo. Il che potrebbe anche essere vero, per quanto ne sappiamo, in merito a questi fratelli dalle dimensioni maggiori, capaci di raggiungere agevolmente i 10 metri di estensione nel caso del gruppo suddetto, anche soprannominato delle balene con il becco giganti. Con il corpo egualmente affusolato ma più tozzo dei delfini, con due vistose scanalature sotto la gola e dotato di una piccola pinna dorsale nella parte posteriore della schiena e due controparti pettorali, ritraibili fino al punto di scomparire letteralmente favorendo le prestazioni idrodinamiche dell’animale. Durante i suoi vertiginosi tuffi a profondità di 800-1.200 metri, per andare alla ricerca delle fonti di cibo preferite, che includono pesci abissali e seppie giganti. Giacché siamo nel caso specifico di fronte a un predatore percettivo e sempre pronto a rintracciare le sue prede, in maniera totalmente opposta allo stereotipo della balena che trangugia passivamente grandi masse di plankton, lasciandosi trasportare sonnecchiando dalla corrente. Donandoci l’impressione di un animale d’altra parte non meno pelagico, ovvero affine ai grandi spazi aperti dell’oceano, proprio in funzione dei suoi frequenti movimenti lungo l’asse perpendicolare all’orientamento dei fondali distanti. Il che potrebbe anche essere vero nella maggior parte dei casi, ma non sempre e non del tutto, come accidentalmente scoperto nel corso di uno studio pubblicato all’inizio di marzo sulla rivista Animal Behaviour, da O.A. Filatova ed altri studiosi dell’Università della Danimarca Meridionale. Come risultanza di una spedizione presso le isole del Commodoro, a largo della Kamčatka russa, originariamente organizzata per raccogliere dati in merito a orche, balenottere e misticeti. Ma che si sarebbe trovata a fare i conti con l’imprevedibile scoperta di una certa quantità di gruppi autonomi, per un totale di 186 individui appartenenti alla specie della balena di Baird (Berardius bairdii) evidentemente abituati a vivere in prossimità della costa, con profondità marine non superiori ai 300 metri. Un’abitudine del tutto priva di precedenti per questi animali e che potrebbe, almeno in linea di principio, derivare dalla trasmissione generazionale di una letterale tradizione locale…

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Lo scavo di Serse che aprì una falsa rotta verso l’immortalità persiana

Se si legge davvero Erodoto, giungendo a interpretare le parole del padre della storiografia attraverso lo strumento della logica, non è impossibile la percezione di una prospettiva molto più pragmatica di quanto gli scienziati tendano ad attribuire a tali scritti. oggettivamente calibrati sulla base di un bisogno di veicolare sottotesti moralisti ed un messaggio per le generazioni future. Così per il conflitto alle Termopili, idealizzato nella narrativa culturale e folkloristica come il prototipo tra scontro di civiltà contrapposte, egli ci forniva un corollario, troppo spesso trascurato nelle rappresentazioni idealizzate dell’impresa di Re Leonida e i suoi Trecento. Proprio perché fastidiosamente utile a nutrire il dubbio che il Nemico, supremo governante del vasto ed assillante Oriente, fosse caratterizzato da uno spirito fattivo ed ingegnoso, lo stesso attribuito in modo stereotipico agli altri produttori di un valore nel Mondo Antico. Sto parlando, chiaramente, di Serse e della battaglia navale di Capo Artemisio (stesso anno di quel passo leggendario: 480 a.C.) e del percorso per cui tramite la flotta degli Achemenidi raggiunse il golfo Termaico, luogo dove avrebbe conosciuto la sua più acerrima ed irrimediabile sconfitta in parallelo alle forze di terra facenti parte dell’invasione. Nonostante una disparità di forze ancora una volta a vantaggio dell’invasore, per 1.207 scafi contro gli appena 271 della lega Pan-Ellenica, per di più costituite da vascelli più piccoli ma proprio in conseguenza di ciò, capaci di navigare molto agevolmente tra le forti correnti del Mar Egeo. Al punto che sarebbe stato lecito chiedersi come Serse fosse riuscito, esattamente, là dove suo padre Dario aveva fallito, nel doppiare uno dei tratti marini più pericolosi dell’intera regione balcanica, il primo dei tre capi costituenti il “tridente” della penisola Calcidica, sotto l’ombra del monte sacro di Athos. Un luogo costato, 12 anni prima, una buona parte delle 300 navi e 20.000 uomini al comando del generale persiano Mardonios, quando una raffica di vento improvviso li aveva portati ad impattare contro la scogliera, permettendo nelle parole di Erodoto stesso, alle bestie feroci “di portare via i viventi” volendo alludere molto probabilmente all’opera di grandi squali bianchi. Come convincere di nuovo la leadership militare sottoposta all’autorità del Re dei Re che la sola strada per la Grecia fosse nel contempo la migliore immaginabile, nell’interesse della maggior fama delle proprie genti e il fato manifesto che ne guidava le imprese? Così prosegue lo storico di Alicarnasso: scavando un canale capace di aggirare il problema.
Due chilometri di lunghezza per 30 metri di ampiezza, realizzati in un periodo di tre anni circa, facendone effettivamente una delle opere d’ingegneria militare più significative della propria Era. Al pari guarda caso del ponte di barche per attraversare l’Ellesponto per una lunghezza di 1.300 metri circa, anch’esso fatto edificare da Serse ed estensivamente descritto nelle Storie a qualche capitolo di distanza. Ma senza lo stesso problema fondamentale di credibilità immanente. Poiché se un grande canale attraversò per qualche tempo la Calcide, per quale assurda ragione non ve n’è la minima traccia residua? Indagini, in epoca moderna, avrebbero seguìto agli spunti d’analisi risultanti…

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Rasoio marino: i pensieri di una gazza dallo sguardo sottile

È principalmente un concetto che deriva dall’invenzione del metodo scientifico, l’idea secondo cui l’occhio dell’osservatore non debba modificare la percezione della natura. Ma che dire della percezione della creatura dotata di un occhio che osserva, a sua volta, l’osservatore? Bulbo dell’acquisizione della conoscenza, scuro, grande, lacrimoso che contribuisce al senso generale di un agglomerato di fenotipi, intesi come l’essenza risultante di svariati millenni d’evoluzione. In salita sulla strada che conduce via dal mare e fin sopra le rocce ove risiede, in trono, l’alca. Torda, nello specifico ed è così che recita il suo nome latino (Alca t.) benché presso i suoi luoghi di provenienza, gli indigeni o locali cacciatori preferiscano chiamarla “becco a rasoio” con diretto riferimento alla sua indole carnivora ed il piglio di perfetta tuffatrice tra le onde ricche di tesori guizzanti. Laddove il suo tratto maggiormente distintivo, soprattutto se la si osserva da vicino ed a partire dalla documentazione fotografica dei nostri giorni, resta proprio la livrea della sua testa nera con due strisce sottili. Una verticale sopra il becco e l’altra ad accentuare, come dicevamo le aperture iridate per la percezione della luce. Che sembrano passare in secondo piano, di fronte all’impressione che l’uccello indossi un qualche tipo di occhiale, visore o mascherina oculare. L’effetto estetico, per un volatile dalla forma idrodinamica che ricorda vagamente un pinguino assottigliato, è sorprendente: quasi come se osservando di nascosto egli abbia qualcosa di effettivo da nascondere ed in conseguenza di ciò, risulti essere tre o quattro volte più pericoloso. Il che non è così lontano dall’effettiva realtà dei fatti: come la maggior parte degli altri uccelli della famiglia degli alcidi, ed invero l’intero genere dei caradriformi, il razorbill è un carnivoro che mangia altri carnivori, mangiato a sua volta da carnivori. Il che lo pone nella difficile posizione in bilico di un ingranaggio funzionale al grande sistema interconnesso dell’Atlantico settentrionale, dove si concentrano i suoi territori riproduttivi e principali siti di residenza. Il che non impedisce certe volte in inverno, durante i lunghi tragitti migratori che è incline a percorrere, che scelga di spingersi fino alle parti centrali del Mediterraneo, raggiungendo agevolmente l’Italia, Malta, la Grecia e il Maghreb. Con la comparsa in grande numero documentata ad esempio sulle coste della Toscana negli anni 1885, 1912, 23, 53, 81-82. E nella casistica più recente, tra il novembre ed il dicembre del 2022, con ampia copertura pressoché spontanea ed immediata sui social network. Certo, quanto spesso ti aspetteresti di vedere, a queste latitudini, un pennuto cibernetico che pare fuoriuscito direttamente dal catalogo accessorio del film Tron?

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Il battito cardiaco della cipolla che trasforma le onde in energia di mare

C’è un solo modo per risolvere i problemi della Terra ed è l’avanzamento tecnologico: creare, migliorare, inventare cose in grado di aumentare l’efficienza dei processi. O eliminare un certo tipo di paradigma, come quello che comporta l’estrazione e conseguente combustione intenzionale di enormi quantità di carburante fossile. Che oltre a generare indesiderabile anidride carbonica, presenta la questione niente affatto trascurabile di essere una risorsa in quantità finita. Ovvero prossima all’esaurimento, se prendiamo in considerazione soltanto quei giacimenti già largamente noti e commercialmente utilizzabili con profitto; aspetto, quest’ultimo, niente meno che indispensabile all’interno di una società capitalista e basata sui crismi del mercato globale. Ma il mondo di per se non ragiona né funziona in tale modo, anche ammettendo che una mente immutabile governi processi come il flusso dei venti, la danza dei corpi cosmici ed il ritorno delle maree. Tutti processi, nella fattispecie, utilizzabili come fonti d’energia sostitutiva, a patto di trovare un modo che possa definirsi, a pieno titolo, perfettamente realizzato. E nel suo specifico contesto d’utilizzo, ben pochi potrebbero negare che il CorPower C4, primo esemplare di livello commerciale del generatore prodotto dall’omonima compagnia svedese, abbia messo le proprie aspirazioni in un contesto produttivo. Quello immaginato per la prima volta, in modo per lo più collaterale nel 2011 dal cardiologo Stig Lundbäck, già autore nel 1986 di uno studio scientifico mirato a definire il cuore umano come una pompa dinamica adattiva (DAPP). Dal che, l’idea: se le linee di approvvigionamento elettrico di un moderno centro urbano corrispondono al suo sistema di vene ad arterie, perché non immaginare per agevolarne il funzionamento una forma di approvvigionamento elettrico simile al muscolo più importante situato all’interno del torace umano? Un organo situato, con la consueta decentralizzazione dei moderni processi ingegneristici, non all’interno del corpo in questione bensì oltre il bordo della costa, là dove l’impeto selvaggio del pianeta è solito creare un ciclo ininterrotto di spostamenti. La massa ricorsiva del moto ondoso, che impatta ad ogni singolo minuto contro le sabbiose sponde. Ivi piazzare idealmente un qualche tipo di trasformatore, incaricato di ricevere ed incanalare il potenziale frutto di un potente movimento, sopra e sotto, sopra e sotto all’infinito. Di quel bulbo quasi vegetale, vagamente paraboloide, concepito per massimizzarne l’implacabile compimento di quel solerte gesto…

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