Nella traduzione de Il Vecchio e il Mare di Hernest Hemingway persistono diversi riferimenti alle imprese del personaggio titolare, in cui egli tira a bordo nella propria imbarcazione il pregevole pescato di un “delfino”. Un inaspettato quanto insolito riferimento, alla ricerca di sostentamento da un mammifero marino che non solo viene raramente consumato nel contesto nordamericano, ma risulta oggettivamente troppo grosso e pesante per essere catturato in siffatta maniera. Ed in effetti tale termine, per quanto non costituisca formalmente in errore, è in grado di trarre in inganno la stragrande maggioranza dei lettori europei. Poiché quando il grande scrittore originario dell’Illinois, che trascorse buona parte della propria età adulta sulle isole Key West del sud della Florida, si riferisce testualmente ad un dolphin, egli utilizza l’effettiva terminologia del territorio d’adozione; che vede tale utilizzato per citare, in aggiunta alle suddette creature, una creatura marina che non è imparentata, non gli assomiglia ed invero possiede una vicenda biologica totalmente distinta. La Coryphaena hippurus, alias pesce capone, settembrino o lampuga, presenza cosmopolita dei mari tropicali e subtropicali, che vede il proprio areale estendersi dall’Atlantico al Pacifico, passando per l’Oceano Indiano e si, anche il Mediterraneo a largo delle coste italiane. Un’intera fetta del vasto mondo dunque, dove risulta in genere frainteso nonostante l’estetica geometricamente affascinante ed il colore di un verde lucido dai riflessi bluastri ed azzurri. Non c’è un singolo popolo, ad esempio, fatta eccezione per quello nativo delle isole Hawaii, che renda omaggio formalmente alla sua eccezionale riserva d’energia, da cui l’appellativo in lingua locale mahi-mahi che significa per l’appunto fortissimo. Né costui risulta incluso nelle molte liste disponibili su Internet dei pesci più veloci, nonostante un ritmo per il battito delle sue pinne che lo rende in grado di raggiungere agevolmente i 50 nodi, pari a 92 Km/h, sufficienti a catturare le sue vittime che includono maccarelli, seppie, granchi e addirittura il rapidissimo pesce volante (fam. Exocoetidae). Il che lo pone come potenzialità dinamiche al di sotto soltanto del marlin blu e del pesce spada, superando abbondantemente in graduatoria i soliti noti: squali mako, acantocibi (wahoo) e tonni. Una dimenticanza che deriva forse dalla presunzione del senso comune. Perché dopo tutto, guardatelo: con la sua fronte alta e piatta, il corpo tozzo e rastremato della lunghezza di circa un metro verso la coda biforcuta, la corifena non ha un aspetto agile né in alcun modo progettato per proiettarsi innanzi. Sebbene più di un pescatore sportivo abbia conosciuto il ritmo fulmineo con cui questa creatura si precipita verso la pastura ed altre esche per il traino, per non parlare della lunga lotta con la canna che generalmente segue da vicino il verificarsi di un così ambito evento. Sono pochi i pesci del vasto mare, d’altra parte, a vantare un sapore migliore. O almeno così si dice…
Il destino di questo notevole predatore carangide della zona epipelagica è per l’appunto, in modo controintuitivo, quello di finire esso stesso nello stomaco di un’ampia gamma di creature tra cui tonni, pesci vela, marlin e spada. Dimostrando come i 13-15 Kg che costituiscono la sua stazza non siano poi così tanti in senso generale, visto come negli oceani ci sia sempre “un pesce più grande” pronto a colpire per saziare la sua grande fame. Oltre, chiaramente, all’opera dell’uomo, che di fronte a specie come queste dalla biodiversità limitata (appena due varietà all’interno della famiglia Coryphaenidae) non si fa grandi scrupoli nel catturare e consumare sistematicamente gli esemplari che gli capitano sottomano. Il che risulta essere, per una volta, attività del tutto sostenibile, data la capacità di proliferazione ed il ritmo di crescita di questo pesce, che si accoppia entro l’età di 4-5 mesi per due o tre volte l’anno, consentendo ogni volta alla femmina di deporre una quantità variabile tra le 80.000 ed un milione di uova. Molte delle quali destinate a schiudersi soltanto per offrire le larve all’interno come fonte di cibo ai grandi filtratori degli oceani, benché ciò faccia parte di un piano ecologico ben preciso. Data la maniera in cui l’evoluzione lo ha dotato di un ritmo di crescita non meno fulminante delle sue capacità di movimento, tale da raggiungere la dimensione massima nel giro di appena 18 mesi, non potendo vivere in seguito molto più a lungo del secondo anno di età.
Dal punto di vista morfologico, come elemento primario per la forma corporea tanto distintiva che lo caratterizza, il mahi-mahi si distingue dunque per l’alta gobba carnosa sulla propria fronte, pianta e spigolosa nei maschi, più tondeggiante nelle femmine, dal ruolo e funzione non del tutto chiari alla scienza, ma che potrebbe servire come caratteristica di selezione riproduttiva. Altro aspetto degno di nota è la colorazione variopinta della sua livrea alquanto soggetta a variazioni individuali, essendo in effetti la diretta risultanza di una copertura di scaglie prismatiche coperte di cromatofori a controllo remoto, che gli permettono di cambiare colore nei momenti d’eccitazione. Ed in modo alquanto impressionante, portano il pesce a diventare di un blu spento nel momento esatto della morte, per poi tornare lentamente ad una tonalità verde acqua, ma meno brillante di quella posseduta in vita. Una storia che, narrata dai pescatori dell’era pre-moderna, fu forse spesso interpretata come il tipico racconto esagerato dai marinai.
Il che ci porta, nuovamente, al quesito implicito di apertura: perché esattamente la corifena viene definita, negli Stati Uniti e non solo, come un “delfino” o in tempi più recenti, dolphinfish? La questione etimologica permane sostanzialmente irrisolta, potendo fare più che altro affidamento su mere ipotesi relative alla maniera in cui nuota e l’inclinazione comune ai cetacei, frequentemente documentata, a seguire o anticipare il passaggio delle imbarcazioni umane. È anche possibile che pescatori ineducati, antecedenti all’epoca moderna, avessero scambiato questi pesci per lo stadio giovanile di un odontoceto.
Magnifico ed impressionante, il pesce fortissimo è catturato raramente nelle nostre acque, prevalentemente nel mese di settembre e presso il mare antistante l’isola di Sicilia. Dove tradizionalmente, secondo un antico aneddoto riportato da Wikipedia, i pescatori solevano creare una zattera con foglie di palma, lasciata a galleggiare a largo per dar luogo ad una zona d’ombra di superficie. Per poi procedere all’impiego di reti di circuizione, tutto attorno all’assembramento di corifene che veniva ben presto a crearsi. Un comportamento ben noto alla scienza di questa creatura è infatti l’attrazione che costituiscono per loro detriti o cumuli di oggetti galleggianti, benché non se ne comprenda ancora oggi la ragione precisa.
A differenza di un’assoluta certezza: chiunque avrebbe apprezzato il sapore inconfondibile delle sue carni, una volta preparate in una delle molte modalità previste dalla tradizione gastronomica dell’isola di Trinacria. Protagoniste di banchetti leggendari in qualche modo trasferiti nel mondo materiale, con tutta la precisione semi-mitologica di un romanzo. In quella che non per niente, allora come adesso, veniva definita a pieno titolo la magna Grecia.