La statua di un pesce che protegge il tempio thailandese

La visione, soprattutto se ripresa dall’alto, è di quelle che difficilmente potrebbero passare inosservate: un ponte dai riflessi vagamente dorati attraversa quello che sembra essere a tutti gli effetti un bacino d’acqua artificiale. Per condurre eventuali visitatori fino a un’isola di forma circolare, sopra cui una serie d’alberelli ben tenuti vorrebbe forse alludere a una rigogliosa foresta. Al centro della quale sorge un edificio dall’aria serena e i molti tetti sovrapposti, simili ad altrettanti abbaini, le cui superfici laterali risultano tuttavia essere, insolitamente, del tutto aperte agli elementi. Ma ciò che colpisce ancor più lo sguardo, per ovvie ragioni, è la gigantesca CREATURA apparentemente intenta ad inseguire la sua stessa coda, le pinne ai lati di una testa finemente decorata, e la bocca aperta con due file di denti capaci di fagocitare facilmente due o tre persone allo stesso tempo. Prima di azzardare un qualche tipo di descrizione filologica, che vi anticipo essere tutt’altro che scontata, sarà opportuno definire il preciso contesto geografico e culturale di un tale luogo: siamo, per l’appunto, in Thailandia, o per essere precisi a circa 20-30 Km dal centro della capitale Bangkok, in prossimità della costa antistante che si affaccia verso il golfo del Siam. E questa è l’Antica Città, anche detta Mueang Boran, una sorta di attrazione o punto di riferimento per certi versi analogo al celebre parco giochi tedesco Minimundus, benché il sentimento di partenza ed alcuni dei metodi realizzativi risultino essere di un tipo del tutto diverso. Tanto che il suo creatore, il miliardario e rinomato studioso delle arti nato nel 1914 Lek Viriyaphan, era solito definirlo “il più grande museo all’aria aperta del mondo”. Una definizione che nei fatti, sopravvive anche a seguito della sua dipartita nel corso dell’anno 2000. Una ricostruzione in miniatura, dunque, dell’impero regno thailandese, con confini che riprendono la forma dell’odierna nazione e una lunghissima serie di monumenti (ben 116!) miranti a ricostruire, talvolta a dimensione naturale, in altri casi su scala ridotta, alcuni dei più famosi punti di riferimento storici, culturali e religiosi nell’esatta posizione corrispondente sulla mappa riprodotta entro i 320 ettari della notevole “città”.
Data la posizione dell’arcano edificio acquatico, dunque, possiamo identificare il tempio-pesce come la montagna di Sumeru (Meru, o Sumeruparvata) rilievo primordiale che segna il centro esatto del cosmo, nella regione mediana del continente Jambudvipa. Un luogo abitato da numerose creature tra cui naga (uomini serpente) garuda (uccelli giganti) orchi ed esseri umani che attraverso la pratica dello Yoga, sono giunti ad acquisire l’immortalità. Sopra cui sorge, qui rappresentata dal piccolo tempio decorativo, la città del Paradiso Tavatimsa dal nome di Trueng, con al centro il castello del dio Indra, signore della folgore, che nel giorno dell’inevitabile catastrofe finale discenderà per trarre in salvo tutti gli esseri degni di accedere alla vita successiva. La montagna, nel frattempo, è circondata dall’oceano Nathi Si Thandorn e la foresta Himavant, benché nelle fonti facilmente reperibili online, non si faccia alcuna menzione di pesci giganti ai margini dell’intera, complicata faccenda. Il che ci lascia, come unico punto di partenza per la nostra indagine, il cartello esposto nel parco stesso, a vantaggio dei turisti, pronto a definire tale mostro dei sette mari con il nome di Ananda, il pesce dell’Oceano Cosmico. Un nome ed un programma che dal nostro punto di vista occidentale, non spalancano esattamente le persiane poste a nascondere il nesso di un simile mistero…

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Gli anziani custodi di un bosco nel cuore del deserto

“Quando andrò in pensione, potrò finalmente godere del meritato riposo.” Ecco qualcosa che l’abitante della Mongolia Interna ed ex-burocrate Toto Bartle, o sua moglie Taoshen, potrebbero aver detto in un momento lontano. Finendo poi per dimenticare un così estemporaneo proposito, dinnanzi al richiamo estremamente soggettivo della Necessità. Ovvero quell’idea estremamente chiara nei loro pensieri, fondata sull’immagine ormai quasi dimenticata, in cui una figura umana emerge dal mare vegetativo, sembrando fluttuare nell’aria per un qualche tipo di arcana stregoneria. Questo perché stretti tra le sue gambe, integralmente coperte dai tronchi, le fronde e le contorte diramazioni, si trovano i fianchi invisibili di un fidato cammello, grosso animale talvolta chiamato anche “la nave del deserto”. Ma un vascello non dovrà mai seguire un sentiero, per schivare l’ingombro alla navigazione di alberi o cespugli, elementi immoti ed inamovibili, durante il corso d’incalcolabili contingenze o generazioni. Tutto ciò, per lo meno, fino all’insorgere di un mutamento climatico di fondo, in grado di estrarre l’ultimo residuo contenuto d’umidità dall’atmosfera di questi luoghi, rendendoli inospitali persino per il leggendario albero del deserto, il saxaul. Haloxylon ammodendron, saksaul (саксау́л) o suo suo (梭梭) come viene tutt’ora chiamato nei più vasti paesi facenti parte del suo bioma d’appartenenza, benché nel corso degli ultimi anni abbia finito per costituire una vista ben più rara di quanto fosse mai stato in precedenza. Il che, in ultima analisi, costituisce un problema estremamente significativo, quando si considera il ruolo primario di questo albero nel bloccare l’avanzata delle dune di sabbia con il suo complesso e stratificato sistema di radici, agendo in conseguenza di questo come unico baluardo naturale contro il continuo espandersi dei deserti.
“Ovunque, ma non qui” sembra quasi, quindi, di sentir echeggiare nel grande vuoto del deserto di Badain Jaran, terzo più grande della Cina ma primo per l’altezza dei suoi dislivelli sabbiosi, ove i due succitati giardinieri, consorti amorevoli, hanno deciso di spendere fino all’ultimo quantum d’energia residua. Trascorrendo tra queste sabbie, da un periodo che ormai si estende per 15 anni, circa 300 giorni a ogni volgere del grande ciclo, indipendentemente da acciacchi, stanchezza e le veementi preghiere dei loro tre figli metropolitani, comprensibilmente incapaci di anteporre l’aleatorio concetto del “bene collettivo” ai loro beneamati genitori, che ormai riescono a vedere assai raramente. Contrariamente a quanto sarebbe possibile affermare per i loro più statici e vegetativi beniamini, i circa 60.000 arbusti piantati nel corso di una simile Odissea, tra le alterne fortune di una tanto ardua e ambiziosa missione. E quando dico ciò, intendo riferirmi a ostacoli davvero significativi…

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Ricostruita su Internet la misteriosa canoa dei guerrieri irochesi

Nel 1603, con la decisione dei coloni francesi di non vendere armi alla potente Lega delle Cinque Nazioni del Nuovo Mondo, creata grazie alle scelte politiche e la grande abilità diplomatica del capo irochese Hiawatha assieme al profeta degli Huron Deganawida, la diffidenza di una simile potenza nei confronti degli europei giunse al limite estremo. Fu quello il momento dunque, più o meno definito, in cui le tribù belligeranti decisero di allearsi con gli inglesi della Costa Est, dietro l’accordo implicito, mai davvero messo per iscritto, che questi ultimi gli avrebbero permesso di mantenere il controllo esclusivo sui propri territori. Trascorso un breve periodo di calma apparente, quindi, un nutrito contingente di guerrieri iniziò a costeggiare il fiume di St. Lawrence verso meridione, nella regione dei Grandi Laghi dove si trovavano i clan allineati con la Francia degli Algonchini, i Susquehannock, gli Erie e gli Abenaki. Ma prima di raggiungere i loro villaggi, dall’altro lato dell’impetuoso corso d’acqua scorsero pattugliatori a cavallo con l’uniforme imperiale, armati degli ultimi moschetti prodotti dall’altro lato del grande Mare. Nascondendosi a quel punto tra gli alberi della foresta, gli irochesi lasciarono alle truppe nemiche tutto il tempo di prepararsi, mentre nel profondo della foresta, misero in atto il loro piano. Una notte e una mattina dopo, la piccola armata organizzata del re di Francia era pronta ad impedire il guado e conseguente assalto, nell’unico punto in cui fosse possibile effettuarlo nel raggio di molte centinaia di miglia. Essi sapevano bene, grazie al resoconto degli esploratori, che il loro nemico “primitivo” era del tutto privo d’imbarcazioni o altri metodi capaci d’invertire i presupposti. Giusto mentre i comandanti continuavano a ripetersi questo, scrutando pensierosi la direzione da cui sarebbe stato costretto a provenire il nemico, si udì un grido di battaglia provenire da molto, troppo vicino. Gli indiani avevano attraversato in un altro punto, ed ora stavano attaccando da dietro! “Uomini, preparatevi a respingere la carica!” Difficilmente, tuttavia, la battaglia avrebbe potuto iniziare con presupposti peggiori…
Il sapere dei popoli nativi americani era vasto e talvolta vario, come il grande azzurro dei cieli. Essi possedevano, per quanto era dato sapere all’uomo cosiddetto bianco, essenzialmente due mezzi di trasporto nautici, concepiti per i labirinti fluviali e lacustri di questo vasto ed ancora largamente inesplorato continente: una era la canoa ricavata da un singolo, enorme tronco esattamente come un totem, estremamente pesante ed associata principalmente ai popoli della regione corrispondente all’attuale stato di New York fin su a settentrione, nella parte canadese del continente. L’altra era quella in corteccia di betulla, molto più leggera, maneggevole e soprattutto trasportabile, considerata l’ideale per spostarsi attraverso i corsi d’acqua e le asperità montuose di questi luoghi. Entrambe, tuttavia, in grado di richiedere svariati giorni per essere costruite, e comunque troppo ingombranti perché un’armata di guerriglieri in marcia potesse trascinarsele dietro per migliaia di chilometri, prima di montare l’assalto contro un contingente nemico. Come potevano aver attraversato, dunque, il fiume di St. Lawrence, gli inferociti guerrieri delle Cinque Nazioni?
La risposta, oggi facilmente disponibile a un qualsiasi esperto di quell’epoca e le relative tradizioni, viene resa per noi esplicita dall’archeologo sperimentale e divulgatore di YouTube Jas Townsends, dal riconoscibile cappello e giacca coloniale, perennemente impegnato nella ricostruzione dello stile di vita nordamericano nel XVII e XVIII secolo. Che in occasione dei suoi ultimi due episodi, collaborando con l’esperto nautico Erik Vosteen, ha scelto di approfondire la costruzione di un qualcosa che in molto pochi, oggi, hanno avuto modo di vedere coi propri occhi: la perfetta ricostruzione, fedele per metodi e tecnologie, di una canoa in corteccia d’olmo, particolarmente rara persino all’epoca citata, benché venisse occasionalmente utilizzata da tutti quei popoli che si trovavano al di sotto della latitudine a cui potevano crescere con successo le betulle. Verso l’approntamento di uno scafo pesante, compatto, difficile da rifinire e generalmente condannato a disgregarsi nel giro di una, due settimane al massimo. Benché avesse una qualità, sopra ogni altra: la capacità di essere pronto nel giro di appena 12 ore. Soltanto mezza giornata affinché un intero contingente potesse, con estrema facilità e nessun tipo di rischio, varcare il corso infuriato di un vasto fiume!

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Un colossale uccello per salvare Atlantide sulle coste di Giava

“Se davvero l’atmosfera della Terra si sta riscaldando…” Dice l’uomo a Washington, sulla comoda poltrona che controlla il mondo, “Allora perché gli ultimi inverni sono stati tra i più freddi e lunghi della storia?” Oltre i picchi delle montagne costiere, al di là di un mare profondo e sulle coste di una landa remota, il suo stesso tono querulo viene impiegato da gente con tutt’altro tipo di problemi. “Se questa città veramente sta per scomparire, sommersa nelle acque del sottosuolo, allora perché i miei rubinetti restano ancora del tutto a secco?” Uomo di Jakarta, ottimista per definizione e (indubbia) sfortuna situazionale. Una delle città più tentacolari e sovraffollate del pianeta, con i suoi 10 milioni di abitanti metropolitani, oltre a ulteriori 20 nell’area immediatamente circostante della più importante isola d’Indonesia, tutti protesi a fare ciò che fa normalmente, l’uomo: consumare. Una risorsa sopra tutte le altre e quella risorsa, come apparirà evidente a questo punto della narrazione, è il fluido essenziale che ci da la vita, nella fattispecie quello estratto e portato entro le mura domestiche tramite metodologie per lo più private. Già perché in questi luoghi, vige una regola tipica di certi paesi in rapidissima via di sviluppo: lo vedi, ti serve, lo prendi. Esattamente come a Città del Messico, luogo affetto da una situazione simile benché a uno stadio molto meno avanzato, per cui le diverse comunità locali, in assenza di un allaccio affidabile alla rete urbana gestita dal governo, trivellano autonomamente in profondità, trovando una risposta artesiana (o almeno, così si spera) alla costante ricerca di fonti d’idratazione necessarie per continuare a condurre un’esistenza priva di stenti. Il che ha portato alla nascita di una sorta di graduatoria degli status sociali, secondo cui più è profondo e produttivo il tuo pozzo, maggiormente risulti degno di essere iscritto nell’albo dei “benestanti” o “facoltosi” abitanti della collettività. Ma come tutti noi sappiamo fin troppo bene, un palloncino sgonfiato alla fine inevitabilmente si affloscia soprattutto se sostiene un peso, e ciò risulta altrettanto vero quando si sta parlando di un gavettone non-più-ricolmo, sia che abbia il diametro di qualche decina di centimetri, che i circa 600 Km quadrati coperti dalle fondamenta di alcuni dei più svettanti (e ponderosi) grattacieli dell’intera area asiatica meridionale. Ecco, dunque, l’orribile verità: Jakarta sta affondando, ormai almeno da un paio di decadi, all’allarmante velocità di 7,5-14 centimetri l’anno, tanto che alcuni luoghi si trovano oggi circa 4 metri più in basso di com’erano al principio degli anni ’70. Il che non è propriamente o niente affatto l’ideale, quando si considera la vicinanza dell’Oceano, in costante crescita per il progressivo sciogliersi delle calotte artiche, nonché le frequenti e rovinose alluvioni che tendono a colpire a queste latitudini. Ed avrebbe molto probabilmente già segnato la fine di una tale metropoli, con conseguente spostamento della capitale altrove, come già teorizzato a più riprese sin dall’istituzione del governo democratico nazionale nel 1945, se non fosse per i pesanti interessi economici ed i copiosi investimenti compiuti per salvarla. Tra cui il più ingente, nonché significativo, resta ad oggi lo stanziamento di fondi per il progetto a lungo termine dello NCICD (National Capital Integrated Coastal Development) anche detto Tanggul Laut Raksasa Jakarta o “Muro gigante di Jakarta”. Le cui ali composte da isole artificiali, un po’ come le strabilianti ed inutili isole-palma di Dubai, dovranno innalzarsi a proteggere l’entroterra dalla ferocia ondeggiante del vasto oceano. Se soltanto le società appaltatrici, nonché i politici committenti, riusciranno finalmente a trovarsi d’accordo sui metodi e i tecnicismi collaterali…

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