Nel capitolo 89 del secondo libro della Naturalis Historia, Plinio il Vecchio scriveva testualmente: “Insula in mari repente exorta est, ex profundo mari, cum magna fragore et fumus et lapides iactarentur.” Era il primo secolo d.C. Visione onirica di un tempo irraggiungibile, realizzazione mistica del volere di divinità marine? Oppure un effettivo fenomeno da registrare negli annali, destinato a creare un lascito effettivo nella memoria storica del popolo siciliano? Trascorsero ben 10 secoli affinché di nuovo, tra gli scritti coévi, si potesse individuare una seconda traccia della misteriosa terra emersa priva di un nome. Quando il cronista itinerante di origini curde Ali Ibn al-Athir menzionò di nuovo l’Insula Ignis nel suo al-Kāmil fit-Tārīkh (“La Storia Completa”) come una landa emersa dalle fiamme, che prestò sparì di nuovo tra i flutti salmastri della superficie marina. Tralasciando ulteriori avvistamenti saltuari all’inizio dell’epoca moderna, da parte di marinai di passaggio nel canale della Sicilia che comunque non riportarono su alcun tipo di mappa dettagliata l’estensione del fenomeno, l’estemporanea evocazione da parte della geologia sommersa non si palesò di nuovo fino a quello che, ad oggi, rimane uno dei primi e più feroci conflitti tra uno stato della penisola italiana e le grandi potenze imperialiste europee. Episodio in grado di costituire, per il suo svolgimento singolare, una lampante metafora della futilità di perseguire nuovi territori ad ogni costo, anche in assenza di reali basi pratiche o necessità esistenziali.
Siamo verso la fine di giugno del 1831 allora quando, tra le coste agrigentine e gli scogli di Pantelleria si verificò un improvviso sommovimento tellurico, tutt’altro che raro in quel particolare territorio di riferimento. Di lì a poco i marinai e pescatori che si trovarono a gettare l’ancora lungo le coste dell’intera regione riportarono a terra l’impressione di aver visto, lontano all’orizzonte, altissime colonne di fumo e pietra pomice che galleggiava sulle acque, in quantità che ben pochi di loro avevano precedentemente sperimentato nel corso dei loro viaggi. Un intero tratto di mare, in base alle cronache del tempo, sembrava inoltre ribollire, quasi al prepararsi di una spietata vendetta da parte dell’antico dio Nettuno. La cui creazione pratica, configurata come un doppio promontorio con in mezzo una pianura rocciosa dall’estensione complessiva di 4 Km quadrati, sarebbe stata finalmente circumnavigata, il 7 luglio di quell’anno, e descritta nel diario di bordo della nave Gustavo guidata dal capitano Francesco Trifiletti, un vascello da guerra borbonico appartenente alla flotta del Regno delle Due Sicilie. Il cui sovrano illuminato Ferdinando II, ricevendo la notizia inaspettata, ordinò subito di effettuare studi scientifici sullo strano fenomeno ed includerlo in termini approfonditi nella cronistoria dedicata alla posterità del suo governo. Tra i primi personaggi del mondo accademico epoca coinvolti, il docente di geologia berlinese Friedrich Hoffman, che si trovava in quel momento in Sicilia, il professor Carlo Gemmellaro ed il fisico al servizio del governo, Domenico Scinà. Ciò che il sovrano non ebbe la presenza o possibilità di fare, tuttavia, fu presidiare il nuovo territorio con truppe militari o di marina in pianta stabile, almeno fino all’incombente, infinitesimale ma pur sempre significativo assestamento nella distribuzione dei territori sui confini europei. Giacché in base alla legge degli uomini fin dall’epoca degli Antichi Romani, una Insula in mari nata rappresentava una criticità in materia di competenze amministrative dall’elevato grado d’incertezza. Essendo fondamentalmente l’unico appannaggio di colui, o coloro, che avessero l’ardire di piantarvi sopra un presidio di natura pienamente identificabile e acclarata…
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Le ignote circostanze che plasmarono lo strano nido tra i recessi estremi della Siberia
Nell’alberata vastità dell’oblast di Irkutsk, situato a nord-ovest del bacino idrico del lago Baikal, molte sono le notevoli località capaci di passare inosservate. Persino una caratteristica del paesaggio, caratterizzata come un’asperità o ellissoidale preminenza dal diametro di circa 160 metri ed un colmo sporgente in posizione lievemente decentrata, posto a 40 metri sopra il territorio pianeggiante che lo circonda. Un… Cratere, come l’avrebbe definito lo scopritore Vadim Kolpakov nel 1949, sebbene tale termine parrebbe sottintendere una sicurezza in merito al suo iniziale palesarsi, che in effetti non figura in alcun modo nelle spiegazioni a corredo dell’incerto evento. Tale da causare l’accumulo o l’affioramento di una complessiva quantità di pietra frantumata, principalmente di origine calcarea ma composta anche di arenarie e scisti, quasi come se qualcosa, o qualcuno, avessero svelato un varco verso lo strato geologico sottostante. Giungendo a scambiare, senza soluzione di continuità, il contenuto sotterraneo con quello che si trovava all’esterno. Subito inserita, una volta fatto ritorno alla capitale regionale Bodaibo, nel rapporto del giovane ricercatore impegnato nei rilevamenti di stato, l’anomalia del cratere nella zona del fiume Patom (Patomskiy) non avrebbe dunque tardato nel suscitare l’attenzione delle autorità militari come possibile prova di un test di bombe o altri implementi bellici da parte di un’ignota entità straniera. Ipotesi ben presto corroborata dal rilevamento da parte dei corpi di spedizione di una certa quantità di radiazioni residue. Non abbastanza da costituire un rischio per la salute di un individuo adulto, ma comunque insolite per il tipo di eventualità rappresentata. Ben presto, dunque, le alternative contrapposte iniziarono a sovrapporsi, con l’idea preliminare che il sito potesse costituire il segno dell’impatto di un meteorite, oppure l’esito evidente di un vulcano freddo, affiancate dall’idea che fosse stato l’uomo a generarlo, piuttosto che un qualche tipo di visitatore proveniente da un diverso piano dell’esistenza. Un alieno, se vogliamo. Interpretazione ulteriormente corroborata, a suo modo, dal tentativo di raccogliere informazioni tra i popoli indigeni di etnia Evenki, che si riferivano abitualmente a questo luogo come “Nido (Ghente) dell’Aquila di Fuoco”; un diretto riferimento, senza ombra di dubbio, all’aspetto gibboso capace di ricordare un uovo d’uccello del picco al centro del cratere, una caratteristica frequentemente visibile nelle comparabili casistiche lunari. Ma anche all’ipotetico, non del tutto impossibile evento pregresso nella loro storia per lo più orale, corrispondente all’avvistamento di un oggetto intento a disegnare un arco fiammeggiante sulla tela dell’azzurro cielo. Poco prima d’impattare, con un suono roboante, tra le valli verdeggianti della regione…
I giganti di Manpupuner, frammenti di un sogno geologico che la Terra ha dimenticato di cancellare
Sette soli guerrieri possono costituire per un popolo rischio esistenziale, soprattutto quando provengono dalle remote regioni della Siberia, dove il bisogno di sopravvivere, contro un clima e la natura ostile, ha da tempo lasciato i deboli nelle trascorse peripezie generazionali umane. Fino all’imporsi di stirpi genetiche descritte nelle loro Storie, senza evocare la scusa d’intercessioni divine o le gesta d’epici eroi, capaci d’inseguire un caribù al galoppo, o abbattere un orso a mani nude. Veri e propri giganti e non soltanto in senso metaforico, se soltanto volessimo interpretare un senso letterale quanto si narra da un tempo immemore nella regione di Troitsko-Pechorsky all’interno della Repubblica di Komi, nella zona nord-orientale della Russia europea. Vicende fuori dal tempo perché tramandate, nello specifico, in forma orale come parte del corpus tradizionale dei Mansi, i quali più volte entrarono in conflitto coi Nenci o Samoiedi che avevano l’abitudine di varcare in armi gli alti passi dei monti Urali. Tra cui spicca, per la propria stretta interconnessione con un sito specifico fisicamente visitabile sul territorio, la leggenda di Manpupuner ovvero la Piccola Montagna degli Idoli, connessa ad una battaglia magica che sarebbe stata vinta soltanto grazie al potere della stregoneria. Quando un potente sciamano della tribù, scorgendo i titanici razziatori all’orizzonte, si frappose coraggiosamente sul loro cammino armato soltanto del tamburo che usava durante i rituali per chiedere consiglio agli antenati. Il quale aspettando l’ultimo momento, lasciò cadere strategicamente sul terreno pietroso concedendosi una breve preghiera alle forze primordiali del cosmo. Che convergendo in quel punto fatale, intercedettero trasformando gli assalitori in pietra.
Oggi svariati secoli, o magari persino millenni da tale miracoloso episodio molti si recano ad ammirarne la remota risultanza, concretizzata nell’ombra svettante di sette rocce verticali, con un’altezza variabile tra i 30 e 42 metri, le cui forme tortuose ed imprevedibili sembrerebbero congelate nell’attimo d’ira ed agonia fatale. Particolarmente per quanto concerne la maggiore, posta ad una certa distanza nella composizione prospettica, il cui profilo ricorderebbe per l’appunto una figura umana con le braccia alzate, intenta a sollevare da terra un pericoloso tamburo sciamanico intento a rilasciare la sua magia. Benché alcuni affermino, in modo assai più prosaico, che parrebbe piuttosto trattarsi di una bottiglia in posizione rovesciata…
Sopito nella pietra, il grande Re dei crotali e l’Atlantide thailandese
L’acqua della palude ribolliva come fosse riscaldata da una fonte sotterranea, poco prima d’illuminarsi a giorno per l’effetto di molte magiche lanterne che fluttuavano nell’aria, poco prima dell’alba mattutina. Ed allora i pescatori che si erano recati a riva al fiume per salpare con le loro barche seppero che il loro tempo era prossimo a concludersi, poiché la profezia lungamente paventata stava per compiersi: “Quando il Nagaraja (Re dei Naga) famoso con il nome di Nonno U-Lu sorgerà e volgerà il suo sguardo verso oriente, nulla potrà più placare la sua ira. L’intera città di Rattaphana verrà completamente distrutta, fatta eccezione per tre templi dedicati ad insegnare il verbo di Buddha.” Una forma sinuosa e gigantesca, in quel momento, s’innalzò dai flutti, stagliandosi contro la Luna. E contorcendo la sua bocca dai lineamenti quasi umani, si rivolse direttamente al suo equivalente umano, il sovrano Phra U-Lue-Racha che aveva bandito la giovane principessa dei Naga, incapace di mantenere la forma umana: “Restituisci le insegne sacre, rendi adesso gli ancestrali simboli del mio popolo.” Ma nessuna risposta venne dall’orgoglio ed alto palazzo dei dinasti umani, poiché gli oggetti in questione erano stati trasformati, oppure venduti. Ed allora migliaia di uomini-serpenti sollevarono le proprie armi, mentre avanzavano coi propri piedi sulla riva scoscesa. L’epoca della diplomazia, ormai, dimenticata.
La leggenda del nonno U-Lu racconta dell’ira funesta di un essere dai poteri e la longevità sovrumana, in seguito all’amore non corrisposto di sua figlia Nākrinthranī, che aveva rinunciato all’immortalità dopo essersi innamorata del principe umano Fahrung, l’erede splendido di quel regno ancestrale. E del modo in cui la giovane consorte, dimostratasi incapace di mettere al mondo figli, venne smascherata e bandita nuovamente nella palude. Suscitando l’immediata furia di quel semidio, e la conseguente demolizione della più popolosa città dei tempi antichi, fatta sprofondare con un mero pretesto sotto le acque del bacino idrico che sarebbe in seguito diventato il lago “a forma di corno di mucca” di Bueng Long Khong, mentre Fahrung riusciva a salvarsi scappando via lontano. Perciò una volta compiuta la devastazione predestinata, il Nonno decise di non uccidere semplicemente il sovrano, Phra U-Lue-Racha. Bensì trasformarlo in un membro sovradimensionato del suo popolo, con il compito futuro di proteggere in eterno il lago e le sue coste. Una mansione a cui non avrebbe mai più potuto sottrarsi, essendo stato in modo molto pratico trasformato in solida pietra.
L’idea che la colossale statua di un serpente potesse trovarsi nascosta, da qualche parte, entro i confini dell’odierna provincia di Bueng Kan sembrò dunque per lungo tempo una mera leggenda. Questo finché un gruppo di escursionisti nel recente 2020, avendo imboccato per puro caso un sentiero tra i meno battuti, si trovarono improvvisamente a fare il proprio ingresso in una caverna. Ed osservandone con occhi spalancati le mura scoscese, non incominciarono a scorgere l’ombra di un preciso pattern ripetuto. Quello di una serie di scaglie, come il fianco di un pitone attorcigliato nel paesaggio e sotto ad esso. Nell’attesa, sempiterna, di venire un giorno risvegliato. Non ci volle dunque molto, per decidere di battezzare il luogo come caverna (Tham) dei Naga (o Nakha). Trasformandolo in un’attrazione turistica di primissimo piano…