Più forti, maggiormente resistenti, migliori. Nelle infinite complessità che rappresentano lo schema generale della biologia, è possibile, persino facile riuscire a immaginare un tipo d’interazione tra organismi in cui un parassita risulti benefico per l’organismo ospitante, incrementando le sue possibilità di sopravvivere per il beneficio della cosa contenuta all’interno. Questa è la vita ed il sublime paradosso della natura, in cui resistere agli ostacoli situati sul percorso non vuole dire sempre, o necessariamente, fare onore alla propria specie. Il che risulta vero nel regno degli esseri dotati della mobile prerogativa e dell’eloquio più sofisticato, così come anche tra esistenze vegetali, siano queste piante, funghi o una combinazione di entrambi le cose. Insieme ivi risiede, guarda caso, l’inquietante vista del Mycosarcoma maydis, il cui stesso appellativo nella lingua dei latini tende a suscitare immagini di masse tumorali o addirittura cancerogene, all’origine dell’autodistruzione di qualsiasi creatura dotata di cellule unitarie vicendevolmente connesse. Così come risplende, sotto il sole nordamericano, il prodotto dell’agricoltura in grado di fornire pratico sostentamento alle popolazioni, quel mais che risultava sacro per gli antichi popoli e per il quale, ancora oggi, siamo inclini a ringraziare il supremo demiurgo che ce ne ha fatto dono. Almeno finché percorrendo con le mani e gli occhi l’ideale campo che permette la generazione reiterata di quest’ingrediente, non troviamo in mezzo a tali e tante foglie l’inquietante macchia nera e “maledetta” di quello che il contadino teme più di qualsiasi altra cosa: una tremenda malattia delle piante.
Corn smut (lo “sporco” del granoturco) per gli anglofoni ed huitlacoche (“escrescenza sopìta” o più semplicemente il “corvo”) nel vocabolario nahuatl degli antichi popoli mesoamericani, l’antiestetica presenza può essere altrettanto caratterizzata sulla base di uno schema di valori contrastanti. Laddove in un contesto ragionevolmente contemporaneo, ha per lungo tempo indotto i produttori gastronomici a gettare interi carichi di quel raccolto, oggettivamente e comprensibilmente giudicato impresentabile già solo nell’aspetto. Almeno finché la vigente società caucasica, come ha cominciato ad avvenire più frequentemente dall’introduzione dei media digitalizzati, non ha “scoperto” il modo in cui una simile mostruosità veniva mantenuta in alta considerazione entro i confini del Messico troppo frequentemente ridotto a meri stereotipi contraddittori. Essendo un ingrediente insostituibile, dal sapore altamente caratteristico all’interno di pregiate pietanze, ciascuna riconducibile a sublimi circostanze conviviali frutto di una consapevolezza ultima in merito ai piaceri “proibiti” della Terra…
gastronomia
La scienza della bolla e l’inflessibile lancetta che misura la forza della farina
È chiara conclusione inconfutabile a cui si giunge grazie al metodo scientifico, il fatto che all’assoluta perfezione dei metodi non corrisponda sempre o necessariamente lo stesso identico risultato. Il che complica notevolmente ogni processo della produzione seriale, qualsiasi sia il campo in cui si scelga d’investire il proprio tempo, risorse o reputazione. Così gli insigni forni artigianali, residenze dei più celebri e stimati panificatori, ebbero molti anni per riuscire a rassegnarsi che la fornitura di un grano piuttosto che un altro, potesse influire sulla qualità del prodotto finale. Il che oggigiorno, come molti altri comparabili fattori, offre un margine d’errore molto meno significativo. Questione inerente causa l’avvenuta trasformazione del “cliente” in “consumatore” che popola la sua dispensa tramite l’investimento nei confronti di particolari marchi di matrice prevalentemente industriale. Lo stesso concetto di marketing, in quanto tale, prevede l’ardua ripetibilità delle condizioni gastronomiche, poiché altrimenti come risulterebbe mai possibile comunicare le qualità di un prodotto, piuttosto che un altro?
La risposta a questa percepita esigenza tipica dei nostri giorni giunse dunque per la prima volta nel 1920, grazie agli esperimenti del consulente ingegneristico per i Grands Moulins de Paris-Bordeaux-Lille, Marcel Chopin. Creatore di sistemi rapidi per la cottura del pane prodotto su larga scala, ma anche e soprattutto di uno strumento matematicamente esatto noto in prima battuta come l’extensimètre, poiché basato sul concetto di sottoporre ad una prova di resistenza delle quantità esatte d’impasto lievitato, al fine di poterne misurare le caratteristiche di fondo. Mediante un approccio metodico particolarmente preciso, che avrebbe portato al successivo perfezionamento e conseguente commercializzazione della macchina destinata a diventare celebre col nome di alveografo di Chopin. Dal latino alveus, un “vuoto/cavità” ed il greco γράφος, suffisso che deriva dal verbo “scrittura”, proprio in riferimento alla bolla prodotta dal marchingegno all’apice del suo processo di misurazione. Che nei decenni successivi si sarebbe imposto come standard dell’industria al punto che oggi nella maggior parte dei paesi industrializzati è diventato assolutamente normale includere i valori risultanti da tale verifica sulla confezione delle farine presenti in commercio, se non addirittura in fogli informativi abbinati a pane, pizza pronta, dolci venduti al supermercato. Con conseguenze nel complesso positive per la consapevolezza della collettività ma anche qualche problematico e vigente fraintendimento. Che potrebbe aver condotto, in base all’opinione di alcuni, ad un appiattimento sostanziale delle proposte disponibili in commercio…
Nasce, nutre, vive ancora: l’eterna zuppa che occupa una pentola per più generazioni
Poco oltre le porte di Brest, città costiera nella Bretagna di Enrico IV re di Francia, un’accogliente istituzione era solita mostrare l’uscio spalancato fino a tarda sera sotto l’insegna di un pentolone. Nei pressi del tenue lucore, per chiunque fosse incline a prestare orecchio, i suoni conviviali di persone intente a raccontarsi le proprie giornate, il tintinnio dei boccali di birra adagiati con variabile attenzione sul bancone di frassino antico. E l’occasionale viaggiatore, proveniente dal porto o l’entroterra, stanco ed affamato ma egualmente certo di non essere lasciato a digiuno. Giacché La Marmite Perpétuelle, un nome di taverna non troppo raro in quel contesto culturale e cronologico, sapeva bene come fare onore al proprio appellativo, mantenendo un fuoco sempre acceso al pari del tempio delle vestali nell’Antica Roma. E sopra di esso, il piatto indiscutibilmente più utile ed amato per i membri delle classi meno abbienti fin dai tempi di Eridu: la versatile, sempre pronta zuppa costruita con ingredienti variabili, capaci di convergere nella creazione del sapore sublime. Allorché racconta una leggenda, con versioni alternative sia in Europa che l’Estremo Oriente, di come in certi luoghi l’acqua cotta e il proprio contenuto non venissero mai totalmente sostituiti. Salvo rari casi, e andando ad aggiungere giorno per giorno tutto quello che poteva capitare sotto mano al cuoco: verdura, pane, cereali, carne di ogni animale immaginabile e non sempre o necessariamente identificato… Per un tempo che poteva essere misurato in settimane o mesi, piuttosto che giorni e nei casi maggiormente significativi, semplicemente non giungeva ad un coronamento dell’ultima ora. Ma proseguiva oltre iterazioni successive del ciclo delle quattro stagioni, ancora e ancora. Venendo tramandato ai figli e figlie assieme all’atto di proprietà dell’edificio che soleva racchiuderlo tra le quattro calorose, profumate mura.
È questo il tema della zuppa perpetua e tutto ciò che ne deriva, un sistema di cucina iterativo in cui la consumazione di un pasto non corrispondeva più ad uno specifico momento o ora del giorno. Ma soleva prolungarsi in modo esponenziale, con un manierismo non dissimile da chi lavora con il lievito madre, i batteri dell’aceto o altre colonie di microrganismi incaricate di dar seguito al magico processo di fermentazione. Capovolgendo essenzialmente l’obiettivo finale, visto come scientificamente parlando, al di sopra dei 55 gradi nessun abitatore del mondo microscopico possa riuscire a sopravvivere, prevenendo in questo modo alterazioni più o meno pericolose dei singoli componenti della gestalt gastronomica suprema. E quel sapore…
Aragoste arcobaleno, l’irresistibile segreto che deambula nel profondo dei mari
Nell’ideale gerarchia cromatica degli oblunghi crostacei, che vede l’aragosta azzurra come “un caso su 10.000”, quella gialla dieci volte più rara e l’assolutamente eccezionale evento della cosiddetta tonalità di Halloween, in cui l’animale è suddiviso trasversalmente in una metà nera, l’altra arancione, potrebbe sembrar sussistere il letterale coronamento di un simile repertorio, consistente in esemplari dalla variopinta livrea puntinata, le zampe striate, sfumature che vanno dal viola al rosa, all’azzurro, al bianco e nero. Creature fantastiche che quando compaiono sulle affollate spiagge digitali di Internet, raccolgono frequentemente accuse di manomissione fotografica o nei tempi futuribili che corrono, lo zampino dell’intelligenza artificiale. Il che è vero almeno in parte (la prima delle due casistiche) vista la maniera facilmente dimostrabile in cui almeno il 95% delle foto disponibili di simili creature è stata sottoposto ad un processo di iper-saturazione, così da massimizzare i riflessi arlecchineschi di questo ineccepibile dimostratore dell’estro artistico dell’evoluzione. Che contrariamente a quanto si potrebbe pensare, in funzione della progressione sovra-esposta, non è raro né una mutazione di specie comuni, bensì un membro tra i moltissimi di quella che costituisce una popolazione cosmopolita nei mari del settentrione australiano, l’Indopacifico, il Sudafrica, le Fiji ed il Giappone, a una profondità che raramente supera il 50 metri dal livello del mare. Panulirus ornatus della famiglia dei Palinuridi, in quello che sembra quasi un gioco di parole tra i latinismi, derivando d’altra parte dalla chiara classificazione delle grandi quantità di esemplari tra i 3 ed i 5 Kg che percorrevano, fin da tempo immemore, lo stretto di Torres per andare a riprodursi nel golfo di Papua. Finendo intrappolati, in modo accidentale ma tutt’altro che sgradito, nelle reti dei pescatori discendenti dagli antichi polinesiani. Il che avrebbe portato in parallelo ad imporsi, sulla scena internazionale, la denominazione di aragoste ornate delle rocce, data la loro preferenza per i fondali ingombri di anfratti e nascondigli, dove ritirarsi tra una battuta e l’altra delle loro prede elettive. Principalmente molluschi bivalvi, gasteropodi e piccoli crostacei, il che li avrebbe forniti attraverso lo strumento della selezione naturale di una particolare sensibilità nei chemiorecettori delle proprie antenne al processo di rinnovamento del proprio stesso esoscheletro, così da poter riconoscere i piccoli parenti e prevenire sconvenienti episodi di cannibalismo. Un meccanismo che non salva d’altra parte gli esemplari sub-adulti che hanno recentemente superato lo stato larvale, detti pueruli, dalla sistematica cattura ad opera della moderna industria dell’allevamento in cattività. Che preferisce, soprattutto nelle Filippine e buona parte del Sud-Est asiatico, affidarsi al rimpiazzo sistematico degli esemplari piuttosto che percorrere la strada della riproduzione assistita, all’interno di vasche che comunque non possiedono le condizioni o lo spazio necessari a riuscire nella difficoltosa impresa. Scelta logistica non propriamente sostenibile, come frequentemente avviene nel settore dello sfruttamento dei mari…