60 Km/h: la potenza elettrica del primo skate 4×4 al mondo

Quando si considera il concetto di un oggetto piatto che si sposta attraverso lo spazio, con sopra una persona che si tiene in equilibrio, è impossibile non richiamare alla mente un’ampio ventaglio di attività che rientrano tutte, in un modo o nell’altro, nell’ambito degli sport di azione. Surf, windsurf, kitesurf, wakeboarding, snowboard e ovviamente ciò che è la principale iterazione urbana di tutto questo, per lo meno nello schema che fa parte del senso comune: il piccolo asse da stiro con le quattro ruote, nato nella California degli anni ’50, per occupare le giornate in cui le onde non si presentavano all’accorato appello, condotto da coloro eternamente pronti a cavalcarle con trasporto. Ciò che d’altra parte è sempre stato inscindibile dall’utilizzo appropriato di un simile mezzo di trasporto, acrobazia e svago, è uno spazio sufficientemente piatto, ampio e privo di ostruzioni, dove poggiare a terra il proprio piede destro o sinistro in modo regolare per incrementare il numero di metri divorati dalla propria ombra esagitata. Laddove addirittura l’invenzione molto più recente del motore elettrico senza spazzole (terminologia inglese: brushless) abbastanza compatto ed efficiente da essere integrato in tale arnese, non poté cambiare in modo molto significativo questo limite, semplicemente perché a nessuno, ancora, era venuto in mente di provarci.
Disegnata la scenografia del nostro dramma, dunque, veniamo al primo attore motoristico di una potenziale nuova generazione del divertimento: ovverosia la Bajaboard, compagnia australiana con il nome che s’ispira, in modo più che mai diretto, all’eponima penisola che costituisce la coda meridionale del grande stato della California. A sua volta un sinonimo a tutti gli effetti di un particolare tipo di gara, nata e praticata annualmente in questa terra, su ogni tipo di terreno e con vari veicoli, tra cui moto, auto ed ATV, che noi europei tenderemmo ad associare, d’altra parte, al prototipo concettuale della Parigi-Dakar. Una terminologia ed un logo che potremmo considerare alquanto strani, per un produttore di skateboard elettrici, finché non prendiamo atto dell’aspetto del loro unico e recente prodotto, nato su Internet grazie a un finanziamento collettivo su Kickstarter e successivamente declinato in due versioni, a trazione anteriore e 4×4, attualmente in attesa di un terzo allestimento per così dire premium, ancor più performante di quelli attualmente configurabili ed in vendita sul loro sito web. Il veicolo in questione si presenta, in effetti, come un’incrocio estremamente caratteristico tra una dune buggy, una supercar stradale e il metodo di spostamento preferito di un super-eroe spaziale, il tutto nella forma relativamente compatta di un attrezzo dal peso di 20/25 Kg, facilmente trasportabile nel bagagliaio di un’automobile di classe media, fino al luogo in cui si abbia l’intenzione di mettersi, finalmente, alla prova. E sia chiaro dal momento stesso in cui si attiva il vero e proprio launch control di un simile, non immediatamente quantificabile razzo su ruote, che si tratta sopratutto di una prova di coraggio…

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L’inatteso ritorno dello spettro numerico nel tubo

Cos’è antico, cos’è moderno? Cosa è prezioso ed insostituibile, perché frutto dell’artigianato manuale di qualcuno? Cosa merita di essere per lungo tempo preservato? Vi sono oggetti dinnanzi ai quali assolutamente nessuno si sognerebbe di alimentare il benché minimo barlume del dubbio: gioielli ereditati, vasi della terza o quarta Dinastia, tele dipinte dalla mano di un celebre maestro. E orpelli di poco conto che derivano, piuttosto, dalla produzione in serie dell’industria, catene di montaggio prive di un cuore, sentimenti o soggettività, che nessuno penserebbe di salvare dalla cupa penombra di un robivecchi. A meno che risplendano di un tenue barlume arancione, configurato (casualmente?) Nella forma di una o più cifre dallo zero al nove. Che cambiano con alternanza che potremmo solamente definire, digitale… Nixie, Nixie tube o valvola termoionica fredda, un termine che potremmo definire l’ossimoro elettrico per eccellenza. Nella cultura germanica, il Nix o Näcken era uno spirito mutaforma, che emergeva dalle acque di un fiume assumendo una forma attraente per gli umani (molto spesso, si trattava di un cavallo) per trascinarli quindi in mezzo ai flutti fino al sopraggiungere dell’annegamento. Ma non c’era alcun intento subdolo, a parte di quello portare un qualche tipo di guadagno alla sua nuova azienda, nell’intento dell’ingegnere elettrico Saul Kuchinsky, che scelse un tale doppio senso per la contrazione commerciale del “Numerical Indicator Experiment No. 1” del 1955, creato con lo scopo di permettere alla Burroughs Corporation di imporsi come standard nel mercato dell’indicazione digitale. Per un fine che, soltanto dieci anni prima, nessuno avrebbe considerato in alcun modo necessario: offrire ai nuovi e più veloci calcolatori del mondo un modo per mostrare i dati all’utilizzatore, senza dover mettersi a stampare ogni volta un nastro, oppure far ricorso ai lenti, ed imprecisi indicatori analogici a lancette.
Come spesso avviene nei campi dell’ingegneria applicata, ad ogni modo, il più famoso Nixie non fu il primo, né l’unico dei metodi a disposizione della sua generazione tecnologica per perseguire lo scopo di partenza. Questa classe di meccanismi erano sostanzialmente un’evoluzione degli esperimenti del fisico tedesco Heinrich Geissler, compiuti nel XIX secolo con i tubi che portano il suo nome. Dei recipienti di gas le cui particelle costituenti vengono eccitate mediante la corrente elettrica, creando giochi di luce e inutili bagliori colorati. Successivamente fatti circolare, più che altro nelle aule di scuola, come curiosità scientifica o dimostrazione pratica del funzionamento dell’elettricità, almeno finché ad Hermann Pressler e Hans Richter non venne in mente, nel 1938, che il flusso ionizzante poteva essere fatto sfogare all’interno di un catodo (polo negativo del sistema) dalla forma intenzionalmente suggestiva, del messaggio al centro di un’insegna o qualche tipo di cartello luminoso. Per la prima volta, qualcuno osava sfidare il monopolio pubblicitario delle tradizionali insegne al neon…

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Dalla grande industria, un processo chimico per dissetare il mondo

Non capita molto spesso che a un qualsiasi utente di YouTube riesca l’impresa d’invitare per un suo video il fondatore di Microsoft in persona, l’uomo un tempo amato-odiato dalla cultura generalista che una volta allontanatosi dal trono del comando, e dal suo monopolio di un’intera industria, prese l’encomiabile decisione di reinvestire l’ingente capitale del suo conto in banca in un’ampia serie di attività filantropiche e di pubblica utilità. Come del resto, non sono molti in questo specifico campo mediatico a produrre un massimo di un video al mese, spesso senza nessun tipo di sponsorizzazione diretta e con il semplice obiettivo di divulgare un concetto scientifico interessante oppure, come in questo caso, dall’importanza significativa per il bene della popolazione globale. Così li ritroviamo entrambi, in questo nuovo segmento, Bill Gates e il giovane ex-ingegnere della NASA Mark Rober, mentre il secondo fa conoscere al primo un vero e proprio intruglio tecnologico, concepito ormai da (almeno) dieci anni eppure mai davvero discusso, dinnanzi al vasto pubblico, dai principali giornali e testate online. Si tratta del Proctor & Gamble Water Purifier, un imprevisto frutto del dipartimento di Ricerca e Sviluppo di una delle multinazionali operative nel campo dei beni di consumo più grandi al mondo, concepito quasi per caso dall’oggi direttore associato Dr. Phil Souter, scienziato assunto con l’obiettivo specifico di sviluppare un metodo per rendere nuovamente potabile l’acqua usata allo scopo di fare il bucato. Soltanto per approdare, al termine del suo complesso tragitto professionale, a un concentrato di princìpi attivi effettivamente capaci di fare questo e al tempo stesso, molto, molto di più.
Il funzionamento della la polvere in questione, oggi liberamente acquistabile online presso molti distributori ufficiali (su tutti, Amazon americana) è facilmente dimostrato nei primi secondi del video online. Ce lo mostra Mark Rober, ancor prima che giunga il suo celebre ospite di giornata, versando in due recipienti un’ingente quantità d’acqua contaminata, dal preoccupante color giallo paglierino. All’interno di uno dei quali aggiunge, quindi, il contenuto di una di queste bustine. Nel giro di quelli che nel time-lapse dimostrativo risultano essere soltanto pochi secondi, quindi, il recipiente trattato recupera rapidamente la sua trasparenza, mentre ogni impurità contenuta all’interno si deposita sul fondo, formando uno strato simile alla sabbia di un acquario. Alla ragionevole, nonché implicita domanda: “Voi la berreste questa roba?” Non si può quindi fare a meno di rispondere l’entusiasmo relativo di un “…Forse?” Finché non si considera l’alternativa per coloro a cui, effettivamente, è indirizzato un simile prodotto dall’effetto strabiliante: tutti quegli abitanti di paesi in via di sviluppo, per cui l’accesso all’acqua potabile risulta essere tutt’altro che una sicurezza, e bere dell’acqua non trattata corrisponde, molto spesso, a morte certa. Ecco dunque che nel punto cardine del video, i due protagonisti si ritrovano davanti a un paio di barattoli, ciascuno pieno del suo contenuto [non] bevibile dall’aria torbida e inquietante. Si aggiunge un pizzico di polvere e a quel punto, sembra quasi che il coraggioso Bill Gates si appresti a berlo…

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Gee Bee Model R: la potenza di un barile volante

Esistono diversi tipi di grazia a questo mondo e non tutti corrispondono a una forma efficiente e aerodinamica, benché tali concetti, a seconda del contesto, possano trovarsi espressi in modo totalmente differente. Per quanto concerne a tal proposito il più veloce e performante aeroplano ad essersi staccato da una pista di decollo fino al 1932, appare evidente come il metodo progettuale dei suoi costruttori fosse stato finalizzato ad uno scopo in realtà molto specifico: mettere un (piccolo) paio d’ali ai lati di un motore Pratt & Whitney Wasp R-1340 da 1,344 di cilindrata, capace di erogare 800 cavalli grazie ai suoi 9 cilindri disposti a raggiera. Ora per quanto concerne i motori radiali, molto popolari nel mondo dell’aviazione in quegli anni, possiamo oggi riconoscere a pieno titolo i loro importanti vantaggi operativi: affidabilità notevole, semplicità di riparazione quando necessaria, costo inferiore a parità di caratteristiche e notevole versatilità. Di contro, tuttavia, essi avevano un’ulteriore caratteristica: il volume e il peso, molto spesso significativi per definizione. Ecco perché, nell’integrarli in un qualsiasi tipo di velivolo, quasi nessuno avrebbe mai pensato di tralasciare il rapporto proporzionale tra l’impianto in questione e il resto dell’aereo, pena l’ottenimento di quella che potremmo definire a pieno titolo “una bestia nera” del pilota intenzionato solamente a fare il suo lavoro.
Ma i cinque fratelli Granville di Springfield Massachusetts, guidati dal maggiore nonché meccanico dal nome inusuale Zantford, con il loro “Gee Bee” Model R dai notevoli 473.8 Km/h di velocità massima (dove “R” sta per racing, neanche a dirlo) non avevano condotto le comuni operazioni di un produttore aeronautico, in contesti ragionevoli o all’interno di un impianto totalmente funzionale. Fu anzi estremamente celebre, nell’America di allora, la storia di queste nuove leve nel settore delle corse aeronautiche che lavorando all’interno di una sala da ballo nella periferia della loro cittadina misero assieme pezzi di recupero e forniture tecnologiche di pregio, nella costruzione di quello che avrebbe rappresentato in seguito uno dei più iconici, e pericolosi aerei monoposto in questa classe ingegneristica di creazioni. Il che non era, almeno in origine, lo scopo prefissato: all’origine dell’eponima compagnia Gee Bee (nient’altro che una traslitterazione delle iniziali di Granville Brothers) c’era infatti un obiettivo di tutt’altro tipo, ovvero la creazione di una nuova linea di aeroplani ad uso personale, in un passaggio della storia in cui sembrava che pressoché chiunque, tra le classi sociali maggiormente benestanti, si sarebbe dotato di un simile apparecchio per le proprie escursioni in cielo. L’operosa ditta produsse dunque tra il 1929 e il ’30 una lunga serie di prototipi, identificati con le lettere dell’alfabeto e tutti facenti capo alla serie definita come Sportster, con un buon riscontro da parte della stampa e un apparente successo tra il pubblico, specie dopo il secondo posto ottenuto dal Modello X con il pilota Lowell Bayles nella corsa volante tra Detroit e San Francisco organizzata dalla Cirrus Engine Company nel 1930. Un’impresa che sarebbe valsa ai produttori ben 7.000 dollari, immediatamente reinvestiti nella ricerca e sviluppo di nuove soluzioni tecniche verso la creazione di un aereo da produrre in serie. I fratelli non avevano tuttavia ancora fatto i conti con l’enorme ostacolo che stava per piombare sui loro progetti: quello sconvolgimento economico, finanziario e sociale destinato a passare alla storia come Grande Depressione, il cui spettro avrebbe lasciato un marchio indelebile sulle alterne fortune dell’universo economico del Novecento.

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