Sulla strada periferica di Ricciuti Drive, in quello che è ormai diventato un sobborgo meridionale della principale città del Massachusetts, un cartello ammonisce i visitatori: “Attenzione: il parco è chiuso dopo il tramonto. Zona di rimozione negli orari serali.” Ma non è chiaro cosa sia situato, esattamente, dietro quella copertura di alberi svettanti e fronzuti. Finché inoltrandosi dietro la svolta, non si scorgono gli alti macigni ricoperti di graffiti variopinti, con al centro una radura di terra erbosa e compatta. Esattamente là, dove in un tempo non così lontano, tendevano frequentemente ad annegare le persone.
Si tende oggi a guardare agli anni ’80 e ’90 come un’epoca dorata, in cui i giovani vivevano nel quotidiano senza la continua tentazione di rifugiarsi oltre la tenda del digitale. Serate fuori, socializzazione, divertimenti all’aria aperta. E soprattutto, nessun bisogno di apparire “migliori” sotto la lente implacabile dei social network e l’inquietante forma mentis che tende tanto spesso a derivarne. Osservare un periodo della storia recente con oggettività, tuttavia, dovrebbe voler dire apprenderne gli aspetti negativi assieme a quelli da commemorare sulle cartoline. Comprendere davvero la maniera in cui l’oscurità dell’anima delle persone ha sempre ricercato il modo di costruire gerarchie tra gli abitanti dei contesti condivisi. In maniera non meno terribile, quando il mondo materiale era il teatro di quel tipo di battaglia priva di una via d’uscita che potesse soddisfare le ambizioni di ognuno.
Così capitava tanto spesso, tra i liceali e gli universitari bostoniani, che qualcuno perpetrasse la necessità di sopravvivere ad un importante rito di passaggio: il salto nelle cupe acque della vecchia cava allagata di Quincy, da rocce sfaccettate che potevano raggiungere anche i 20 o 30 metri d’altezza. Al termine di una serata che iniziava tra la gioia e le risate; proseguiva al tavolo di alcolici o narcotici di varia natura; individuava il suo coronamento, tristemente inevitabile, in terribili tragedie familiari. Viene riportato a tal proposito che le vittime, principalmente i molti tuffatori che batterono la testa, scomparvero sotto la superficie, esalarono l’ultimo respiro tra le acque torbide dell’incidentale bacino, raggiunsero un gran totale di 51 tra il 1960 e il 1998 per una media di 1,3 l’anno. A un ritmo tale che in certi periodi la polizia e gli altri soccorsi, ogni qual volta accorrevano sulla scena successivamente all’ennesima sventura, finivano per ritrovare altri cadaveri, ancor prima di quello indicato dai compagni o colleghi dell’ultimo individuo transitato a miglior vita tra le scoscese pareti di pietra. Per una serie di malcapitate eppur dannatamente comprensibili ragioni. In primo luogo, la vicinanza al centro cittadino e la facilità con cui un simile tetro poteva essere raggiunto dalle persone. Seguìta dalla relativa segregazione, lontano dall’occhio scrutatore di qualsivoglia autorità o guardiano designato dalle autorità cittadine. E poi c’è il fascino tentatore, di un’attività che in linea di principio poteva sembrare così facile da portare a compimento: “Se l’hanno fatto gli altri, perché rifiutarsi? Che fai, non ti butti?” Quindi circa un ventennio prima degli anni 2000, la sempre nutrita fazione americana di coloro che volevano Cambiare le Cose in Meglio pensò bene di far collocare in queste acque vecchi pali telefonici e tronchi d’albero nel tentativo di scoraggiare i tuffatori. Ma nel giro di pochi mesi, appesantiti dall’umidità, gli oggetti ben visibili finirono per scomparire sotto la superficie. Così che le vittime, purtroppo, continuarono ad aumentare…
Massachusetts
Gee Bee Model R: la potenza di un barile volante
Esistono diversi tipi di grazia a questo mondo e non tutti corrispondono a una forma efficiente e aerodinamica, benché tali concetti, a seconda del contesto, possano trovarsi espressi in modo totalmente differente. Per quanto concerne a tal proposito il più veloce e performante aeroplano ad essersi staccato da una pista di decollo fino al 1932, appare evidente come il metodo progettuale dei suoi costruttori fosse stato finalizzato ad uno scopo in realtà molto specifico: mettere un (piccolo) paio d’ali ai lati di un motore Pratt & Whitney Wasp R-1340 da 1,344 di cilindrata, capace di erogare 800 cavalli grazie ai suoi 9 cilindri disposti a raggiera. Ora per quanto concerne i motori radiali, molto popolari nel mondo dell’aviazione in quegli anni, possiamo oggi riconoscere a pieno titolo i loro importanti vantaggi operativi: affidabilità notevole, semplicità di riparazione quando necessaria, costo inferiore a parità di caratteristiche e notevole versatilità. Di contro, tuttavia, essi avevano un’ulteriore caratteristica: il volume e il peso, molto spesso significativi per definizione. Ecco perché, nell’integrarli in un qualsiasi tipo di velivolo, quasi nessuno avrebbe mai pensato di tralasciare il rapporto proporzionale tra l’impianto in questione e il resto dell’aereo, pena l’ottenimento di quella che potremmo definire a pieno titolo “una bestia nera” del pilota intenzionato solamente a fare il suo lavoro.
Ma i cinque fratelli Granville di Springfield Massachusetts, guidati dal maggiore nonché meccanico dal nome inusuale Zantford, con il loro “Gee Bee” Model R dai notevoli 473.8 Km/h di velocità massima (dove “R” sta per racing, neanche a dirlo) non avevano condotto le comuni operazioni di un produttore aeronautico, in contesti ragionevoli o all’interno di un impianto totalmente funzionale. Fu anzi estremamente celebre, nell’America di allora, la storia di queste nuove leve nel settore delle corse aeronautiche che lavorando all’interno di una sala da ballo nella periferia della loro cittadina misero assieme pezzi di recupero e forniture tecnologiche di pregio, nella costruzione di quello che avrebbe rappresentato in seguito uno dei più iconici, e pericolosi aerei monoposto in questa classe ingegneristica di creazioni. Il che non era, almeno in origine, lo scopo prefissato: all’origine dell’eponima compagnia Gee Bee (nient’altro che una traslitterazione delle iniziali di Granville Brothers) c’era infatti un obiettivo di tutt’altro tipo, ovvero la creazione di una nuova linea di aeroplani ad uso personale, in un passaggio della storia in cui sembrava che pressoché chiunque, tra le classi sociali maggiormente benestanti, si sarebbe dotato di un simile apparecchio per le proprie escursioni in cielo. L’operosa ditta produsse dunque tra il 1929 e il ’30 una lunga serie di prototipi, identificati con le lettere dell’alfabeto e tutti facenti capo alla serie definita come Sportster, con un buon riscontro da parte della stampa e un apparente successo tra il pubblico, specie dopo il secondo posto ottenuto dal Modello X con il pilota Lowell Bayles nella corsa volante tra Detroit e San Francisco organizzata dalla Cirrus Engine Company nel 1930. Un’impresa che sarebbe valsa ai produttori ben 7.000 dollari, immediatamente reinvestiti nella ricerca e sviluppo di nuove soluzioni tecniche verso la creazione di un aereo da produrre in serie. I fratelli non avevano tuttavia ancora fatto i conti con l’enorme ostacolo che stava per piombare sui loro progetti: quello sconvolgimento economico, finanziario e sociale destinato a passare alla storia come Grande Depressione, il cui spettro avrebbe lasciato un marchio indelebile sulle alterne fortune dell’universo economico del Novecento.
L’appiccicosa ondata che devastò la città di Boston
Nient’altro che un ulteriore sacrificio, di spontaneità e senso di ragionevolezza, verso una ricerca spregiudicata dell’opulenza totalmente fine a se stessa: ciò persegue la scurissima formica, all’occhio e nella mente del Rynchota cicadidae, cantatore alato delle notti di prive di preoccupazioni in merito al futuro. Chi ha mai detto che gli insetti siano poi così diversi da noi? Come nel proverbio e nelle fiabe, nell’infinita varietà di attitudini previste dalla mente umana, esistono i due distinti approcci alle necessità del sopravvivere: accumulare, consumare. Ovvero, essenzialmente, il gesto di coloro che si preoccupano e quello degli altri, invece, che non pensano al domani. Ma in tutto ciò permane una saggezza innata nel regno della Natura, che soltanto a coloro dotati della prima inclinazione, offre la possibilità di costruire un qualcosa di grande e persistente, come la rete sotterranea di un profondo e fresco formicaio. Mentre le frequenti e malcapitate volte in cui le cicale UMANE si mettono ad accumulare…Le conseguenze…Sono…
Arthur Gell è il nome del personaggio responsabile introdotto dal video d’apertura di The Folklorist, citato anche da Wikipedia come principale imputato al processo che venne portato a termine successivamente alla data dell’orribile disastro; un individuo con tuba e piglio dickensiano, per lo meno nella fantasia della succitata ricostruzione dalle forti influenze teatrali, che commise in modo pienamente verificabile, nel corso della sua vita, almeno un grave e deleterio errore: dimenticare la sicurezza, in un contesto in cui l’assenza di quest’ultima avrebbe potuto mettere in modo i presupposti di una grave strage. Cosa che puntualmente e per voler del Fato, di lì a poco capitò. Chi l’avrebbe mai detto! Suo era il mestiere di contabile, per il conto della Purity Distilling Company che l’aveva fatto tesoriere, negli anni immediatamente successivi alla liquidazione dell’azienda ed al suo acquisto da parte della United States Industrial Alcohol Company di Boston, detta generalmente in breve USIA Co. Un passo effettuato, secondo teorie create a posteriori, in previsione dell’imminente entrata in vigore del proibizionismo, un passo legale che ormai in molti si attendevano da parte del Congresso degli Stati Uniti, chiesto a gran voce da intere comunità ecclesiastiche e corposi comitati. Era il 1917, e la prima grande guerra entrava nella sua fase critica, mentre anche i soldati d’America s’imbarcavano infine per i distanti territori degli Imperi Centrali. Ciò, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è molto rilevante al nostro racconto. Perché la principale attività curata dalla Purity, in aggiunta alla distillazione dell’etanolo, era l’importazione di grandi quantità di una particolare sostanza dalle distanti terre d’India, il derivato secondario della lavorazione della canna da zucchero: la melassa. Un liquido marrone, appiccicoso e denso, che trovava collocazione non soltanto nei dolci, nel tè e nel caffè, come ingrediente più salutare e lievemente amarognolo della nostra tipica polverina bianca, o nella bevanda alcolica più rappresentativa dell’intero New England, il caro vecchio Rum, ma anche e soprattutto in qualità d’ingrediente per il munizionamento militare di fanteria, aviazione e marina. Ebbene si: con lo sciroppo estratto dai vegetali oggetto di lavorazione all’interno degli zuccherifici, tramite bollitura e successiva cristallizzazione, può essere utilizzato per creare degli esplosivi. Come avrebbe scoperto suo malgrado la gente di Boston, esattamente due anni dopo la gioiosa acquisizione della Purity da parte della USIA Co.
Ultime da Boston: cane robotico che lava i piatti
Il nuovo robot della Boston Dynamics è veramente qualche cosa di speciale. Silenzioso, zampe di gallina, piccoli piedi gommati e un collo d’anatra, con all’estremità una bocca degna di un piccolo dinosauro. Eppure si chiama Spot(Mini) perché molto giustamente, è fatto per vivere in casa, è vivace, scattante, agile ed aiuta l’uomo, insomma è quasi l’approssimazione senza peli di un gradevolissimo pastore tedesco. In una versione che non mangia e non deve essere fatta uscire, ma soprattutto non PUÒ fisicamente sporcare in giro, ed è per questo stato predisposto ed equipaggiato al fine di…Fare l’esatto opposto. Cioè, pulire. Siamo dunque forse all’epoca, da lungo tempo teorizzata, in cui maggiordomi e cameriere non saranno più nostri consimili trovati sul mercato di un lavoro umile ed antico, ma macchine create da altre macchine, teste di bulloni, letterali ammassi d’ingranaggi assorbi-elettricità. Che sia questo, dopo tutto, il futuro? L’oggetto in questione (se davvero non vogliamo definirlo una “creatura”) è in effetti la risultanza di un lungo processo di progressivo perfezionamento portato avanti in questi ultimi anni dall’azienda Boston Dynamics, sorta nel 1992 dalla costola di un gruppo di ricerca del MIT – Massachusetts Institute of Technology, su progetto e per volere di Marc Raibert, l’ingegnere che aveva un sogno dichiarato: portare i robot bipedi e quadrupedi ad uno stadio di funzionamento che possa a tutti gli effetti definirsi “sovrannaturale”. Il che costituiva, assai probabilmente, un riferimento indiretto alla famosa citazione dello scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke, autore di Odissea nello Spazio: “Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. Una dichiarazione d’intenti che in effetti potrebbe trarre vagamente in inganno, visto come le ultime creazioni di questa notevole realtà imprenditoriale del nord-est degli Stati Uniti abbiano sempre teso, evidentemente, verso un aspetto facilmente riconducibile alla natura. E non è un caso se i principali esseri artificiali qui creati, a giudicare dal nome, potrebbero entrare a far parte di un mini-zoo: Grande Cane, Piccolo Cane, Ghepardo, Pulce d’acqua, RHex (!) e soprattutto Atlante (!!) l’unico vero e proprio omuncolo della congrega, nel senso effettivo di due braccia, due gambe ed una testa, e che potrebbe essere tranquillamente definito il Guardiano di questo curioso ed assortito branco di castigamatti. O in alternativa, la più perfetta realizzazione materiale del concetto favolistico del Golem; eccolo dunque, il ricercato appiglio con il regno della fantasia.
Ma il nuovo SpotMini è invece molto reale, e perciò rispondente alle regole di un mondo ben preciso: quello in cui un cellulare, fin troppo spesso, finisce per scaricarsi verso sera. Ed in cui la stessa soluzione locomotoria scelta per il funzionamento dell’animale, in questione, molto probabilmente, deve aver contribuito alla scelta di uno scenario domestico per la dimostrazione. Stiamo in effetti parlando di un dispositivo completamente elettrico e con circa 90 minuti di carica, variabili sulla base di quanto siano faticosi i compiti per cui viene impiegato. Non sarebbe tuttavia un problema, almeno teoricamente, fornire il cane-anatra di una programmazione in grado di riconoscere il momento migliore per dirigersi alla sua stazione di carica, onde essere sempre pronto a fare ordine tra il prossimo carico di piatti da mettere in lavastoviglie. Sarebbe! Ovvero, il condizionale è d’obbligo. Visto come, lo pensano più o meno tutti quanti, nel tipico video per il grande pubblico realizzato dai bostoniani a margine della loro ultima meravigliosa diavolerìa, ci sia sempre un uomo fuori dall’inquadratura, telecomando alla mano, che dirige sapientemente ogni singolo gesto dell’inconsapevole protagonista. Occorre in effetti uscire da quella concezione tipica del romanzo gotico, ma presente in una qualche misura anche nelle storie del ben più moderno Philip K. Dick, secondo cui la ri-creazione esteticamente indistinguibile di un qualcosa possa valergli l’automatica infusione del sovrano soffio della vita, OLTRE all’identità acquisita. Perché costruire un Androide di Abraham Lincoln, come avveniva nell’omonimo romanzo da lui scritto nel 1962, non significa che questo debba necessariamente muoversi, parlare e pensare come il 16° presidente degli Stati Uniti. Ce lo insegna, dopo tutto, anche l’esperienza dei videogiochi: è molto facile, con la tecnologia di oggi, costruire un cast di personaggi pienamente credibili ed estremamente dettagliati. Ma farli interagire in maniera rispondente alla logica con l’unica parte imprevedibile del loro mondo, ovvero il giocatore umano? Ciò costituisce tutta un’altra storia, veramente tutta un’altra storia….