Mach 2,2: 2300 Km/h. Abbastanza per percorrere la distanza da New York a Londra nel giro di 3 ore e 15 minuti. Essenzialmente, attraversare l’Atlantico nel tempo di un (lungo) film. Diciamo Interstellar di Christopher Nolan, o The Hateful Eight di Q. Tarantino. Ovvero investire una porzione del proprio tempo che, molto spesso, è considerata giustificabile per portare a termine una storia di fantasia, ma che può permetterci di sperimentare a pieno gli effetti di un’inversione drastica del nostro effettivo fuso orario. Sperimentando in prima persona gli effetti di una vera e tangibile avventura. Che presto ripartirà da zero, proprio nell’hangar 14 del Centennial Airport, presso Denver nello stato del Colorado.
Cosa c’è alla base di un contratto da 10 milioni di dollari da parte dei giapponesi della JAL e altrettanto da Sir Richard Branson della Virgin Group, per l’investimento iniziale in un progetto che potrebbe anche riuscire a cambiare il mondo? Scotch, pannelli di compensato, polistirolo. Un team affiatato di giovani ingegneri, all’interno di un tunnel del vento, che testano le prestazioni del loro slanciato giocattolo aeronautico. È sorprendente notare come ai massimi vertici della sperimentazione, sussista un atteggiamento simile all’intrattenimento che ricorda molto da vicino quello di un club di acrobati del radiocomando. Il che dimostra l’importanza, fin dalla tenera età, di dedicare il proprio tempo allo svago. Come il cucciolo di tigre che lotta con suo fratello, per imparare a rincorrere l’antilope: costruire è un atteggiamento innato dell’essere umano. Dare forma alle proprie idee. Si tratta poi di un caso per lo più fortuito, eppure per nulla casuale, quando quei pensieri si rivelano talmente utili, in potenza, da trovare qualcuno che possa renderli una velocissima scheggia di realtà. Il punto particolare di questo aereo tutt’ora senza nome, ma che certamente includerà in qualche forma l’appellativo della sua compagnia produttrice, la Boom Technologies di Denver, è proprio questo suo provenire, per una volta, dal mondo più largamente onirico delle nuove generazioni. Piuttosto che da polverosi e prestigiosi dipartimenti di spropositate multinazionali, come le solite Boeing, Airbus o Lockheed. Tutto è iniziato, in effetti, verso del gennaio del 2016, quando le due figure chiave di Blake Scholl (CEO) e Joe Wilding (capo ingegnere) hanno presentato il loro velivolo al programma d’incubazione delle startup Y-Combinator, nel cuore della California tecnologica a Mountain View. Immaginatene quindi voi, l’effetto: in una sala conferenze dove erano passate fino a quel momento una manciata di App, qualche sito web, un telefonino o due, ovvero tutti gli stereotipi di questa seconda decade degli anni 2000, all’improvviso si è profilata la sagoma di qualcosa che potremmo definire, senza un minimo di esitazione, un sostanziale anacronismo. Qualcosa di molto futuribile oppure, vuole il caso, appartenente al mondo del secolo passato. Quando i genitori o nonni della presente generazione, piuttosto che occupare principalmente lo spazio digitale, usavano spostarsi attraverso lo strumento del viaggio fisico, un proposito portato a compimento grazie, il più delle volte, ad una coppia di motori lanciati lassù, nell’empireo delle circostanze terrestri. Ovviamente, di aerei per il trasporto passeggeri ne abbiamo molti, anche oggi, alti, oblunghi, piccoli e grandi. Ma che possano fare questo, nessuno più, ormai. Provate a chiedere, soltanto qualche anno fa, a un direttore di linea aerea che opinione avesse del volo supersonico: una follia, dai costi impressionanti per l’operatore ed i passeggeri, costretto a decollare il più delle volte con la metà dei sedili vuoti, semplicemente perché non si erano trovate abbastanza persone in grado di permettersi l’esperienza. 10.000, 15.000 dollari per raggiungere un diverso continente. Roba da nulla se sei un sultano, un gerarca russo o il re di un vecchio potentato europeo. Ma persino un direttore d’azienda, nell’epoca del boom economico, si sarebbe trovato in difficoltà a giustificare una simile spesa. Figuratevi nel clima economico attuale. E proprio questo era, fondamentalmente, il problema del Concorde. Oltre alla sua, non del tutto ingiustificata, fama per un grado di sicurezza inferiore a quello di un comune aereo di linea. Ma questo fu anche una parte del suo fascino, per alcuni…
Il punto è che i tempi cambiano, e con essi lo fanno i presupposti. Quello che 48 anni fa costava 10, oggi si può realizzare con 5 appena, o persino 2. Poiché esistono strade alternative, capaci di ottenere lo stesso risultato in maniera molto più semplice e diretta. Cruciale nel piano di fattibilità della Boom è stato fin dal primo momento l’impiego di polimeri a base di carbonio per realizzare la carlinga, piuttosto che il tradizionale alluminio, attraverso un processo di lavorazione che risulta essere al tempo stesso molto meno costoso e più resistente agli stress prodotti dal volo a due volte al velocità del suono. Mentre i motori, piuttosto che degli enormi sistemi a jet dotati di afterbuner, saranno tre grandi turboventole del modello a geometria variabile General Electric J85-21, appositamente potenziate per arrivare a produrre la spinta necessaria. Con il risultato, assolutamente cruciale, di diminuire in modo significativo i consumi, permettendo potenzialmente di offrire un posto al cliente finale a un prezzo in linea con la business class degli aerei convenzionali. Andata e ritorno, qualche migliaio di euro. Adesso si, che s’inizia a ragionare…
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Nell’arida California, rosso è il colore che ti salva dal fuoco
Sedevo in veranda leggendo nervosamente un buon libro, mentre all’improvviso mi resi conto del problema: “Se il vento cambia, sarà la fine.” Non perché abito in una di quelle case fatte di carta, sulla strada lungo cui transita un uragano. Ma perché tutto quel verde che sorge oltre la siepe, a dire il vero, è un bosco del peggior tipo: un bosco californiano. Straordinariamente rigoglioso, per l’effetto di una stagione delle piogge ogni anno lunga e intensa, eppure eccezionalmente secco, proprio per la totale assenza di precipitazioni a partire dall’inizio del vero e proprio periodo invernale. Quest’anno, poi, la situazione è semplicemente la peggiore a memoria d’uomo. Ciò causa l’inversione dei venti, che normalmente soffiano da ovest, portando l’aria umida dell’Oceano Pacifico. Mentre oggi, causa il palesarsi di una perturbazione nota col nome seriamente programmatico di (El) Diablo, provengono dritti dal nord-ovest dell’arido Mojave, dove i coyotes inseguono il Geococcyx californianus, comunemente col nome di “uccello Beep Beep”. Descrizione conduttiva di un noto paesaggio, ed un particolare grado di umidità, che potremmo semplicemente descrivere come uno zero spaccato, per di più ricoperto di crepe. Venti come questo non spengono gli incendi sul nascere. Simili flussi d’aria, quando incontrano il fiore che tutto arde e consuma, lo sollevano in un caldo abbraccio, e lo portano innanzi per fargli conoscere il mondo intero. “Eh, si.” Sospiro. Per lo meno, c’è un lato positivo: rispetto al mare di lingue di fiamma che ricopre intere contee della dimensione di una piccola nazione europea, come l’incendio di Nuns, quello di Atlas e Partrick, la mia fortunata abitazione si trova sopravvento. Così che, l’intera località dei miei soggiorni non ha ancora ricevuto l’ordine di evacuare. È in quel momento che alzo lo sguardo, casualmente, verso il gallo segnavento sul tetto del mio salotto. E noto, con momentaneo orrore, che si è voltato di lato. Chissà da quanto! Eppure prima che io possa prendere atto di cosa significhi tutto questo, odo un rombo possente nell’aria: “Possibile che…Che…” Ehi, aspetta un attimo. Il fuoco non fa rumore. Voglio dire, non produce rombi paragonabili a quelli di un bimotore da trasporto che vola a bassa quota, con apertura completa della manetta per far fronte al peso del carico che si trova, ancora per poco, a bordo. Poiché nessun californiano tarderebbe nel riconoscere la caratteristica livrea rossa e bianca, né la forma stilizzata del logo a banana sul lato della carlinga sospesa in aria: Cal-Fire. Cal Fire. Calfire: la California tracciata in maniera sommaria. Che brucia. Di nuovo…. Con occhi spalancati per lo stupore, guardo la forma straordinariamente aerodinamica del DC-10 ancora per un secondo, giusto il tempo necessario a scorgere l’emersione della polvere che fa seguito, immancabilmente, alle sue sortite. L’ombrello che emerge dal retro si allarga come la corona di un fiore. Quindi inizia a discendere verso di… Me! Chiudo il libro, balzo dalla sedia, corro verso la porta che da sulla veranda. Ho esattamente 10 secondi, al calcolo intuitivo, prima di essere trasformato nell’equivalente di un demone insanguinato sulla scena cardine di un film dell’orrore.
Narrazioni in prima persona a parte, sarà chiaro di cosa stiamo parlando, ormai. Il video mostrato qui sopra è in realtà l’ultima pubblicazione della YouTuber Jenny Crane, registrata mentre si trovava presso la casa del padre nella contea di Murrieta, non troppo distante dal confine messicano. La quale ha avuto, lo scorso 8 dicembre, la fortuna (?) di trovarsi al di sotto del passaggio di uno di questi aeromobili, deputati dal servizio antincendio dello stato ad assistere le forze di terra durante lo strenuo sforzo per contenere l’annuale, inevitabile disastro dello stato che brucia ogni anno, in maniera che tende costantemente a peggiorare. Dispositivi questi, talvolta a noleggio, ma nella maggior parte dei casi acquistati ed in uso ormai da decadi intere grazie al programma denominato CDF Aviation Management, che invece che colpire direttamente le fiamme con un rilascio diretto mirato a spegnerle, utile soltanto nei casi meno avanzati, gettano qualcosa di totalmente diverso sulle possibili strade della sua diffusione. E il nome commerciale di questo prodotto, venduto in polvere ma poi mescolato ad acqua e pigmenti colorati, è Phos Chek. Nient’altro che una miscela di sali di diammonio, monoammonio, nitrogeno e fosforo con gomma degli alberi di Attapulgo e di Guar. Questo affinché, una volta rilasciata sulla foresta o le abitazioni, non scivoli immediatamente a terra, ma aderisca saldamente a ogni tipo di superficie. Ed operi, efficacemente, la sua magia…
L’arte fluttuante di un foglio di Excel
Una visione estatica, nient’altro che un sogno frutto del pensiero libero, disconnesso dai limiti della coscienza. La cascata di Kegon del parco naturale Nikko, coi suoi magnifici colori autunnali, che fluttua su un fondo bianco ricoperto da una griglia numerata. In alto stanno iniziando a materializzarsi dozzine di foglie, lungo un asse che viene definito A e B. Mentre lungo il corso dei numeri 24 e 25, dinnanzi allo sguardo, si dipana la forma prismatica e scrosciante dell’acqua. Ma è in D-48, inevitabilmente, che la vista tende a focalizzarsi: la dove una foglia d’acero giapponese, situata in senso longitudinale, appare trasportata dal vento. D’un tratto l’oggetto si blocca in posizione: come attratto da una forza magnetica misteriosa, qualcosa vola via dalla sua superficie. Ad uno sguardo più da vicino, si riesce a comprendere di cosa si stratti. È soltanto il cursore del mouse.
Per tutto il tempo della sua carriera tecnica all’interno del settore dell’industria manifatturiera, Tatsuo Horiuchi si era impegnato per mettere tutto se stesso in quello faceva. In una visione del mondo coerente con l’ideale nipponico dell’etica lavorativa, non importa quanto secondaria fosse la sua mansione di giornata, egli vi aveva infuso tutta la sua sapienza frutto dell’esperienza acquisita. C’era sempre stato un settore, tuttavia, che l’aveva eluso: quello dell’informatica applicata. Già perché da queste parti, vige una regola strana: cellulari, tablet, distributori e sportelli automatici, console per videogiochi, saranno anche pressoché onnipresenti, ma il semplice gesto di mettersi di fronte a una tastiera, elaborando i dati attraverso un monitor e un processore, viene considerato un mondo ancora per lo più facoltativo. Come fino a poco tempo fa in Italia, i PC sono letteralmente sconosciuti alla scuola pubblica e il tempo trascorso su Internet viene concettualmente subordinato a quello dedicato ai libri cartacei ed altri metodi tradizionali d’apprendimento. Figuratevi, dunque, la situazione di un impiegato veterano. Il quale, dopo i lunghi anni dedicati all’azienda, ha acquisito un prestigio che prescinde il suo grado operativo, rendendolo impervio alla necessità di frequentare un qualsivoglia corso di apprendimento. Ma caso vuole che un conto sia la convenzione, ed un altro il senso del dovere individuale. Così lui, fino all’ultimo giorno di lavoro prima del pensionamento (obbligatorio, s’intende) aveva sempre scrutato con interesse i colleghi all’opera, ed in particolare la maniera in cui realizzavano dei colorati grafici all’interno dei fogli di calcolo in Excel. “Questo tipo di mansione, potrei svolgerla anch’io” si ripeteva pensierosamente ogni sera, prima di andare a dormire, con una punta di rimorso per non aver mai approfondito un qualcosa che, purtroppo, non faceva parte del bagaglio innato della sua generazione d’appartenenza. Finché giunto al giorno fatidico del ritiro, non agì come se gli fosse venuta in mente un aforisma sulla falsariga di quello generalmente attribuito all’incisore Hokusai: “Dopo un’intera vita trascorsa nel fare ciò che amo, ho soltanto un rimorso. Se avessi un altro giorno per praticarlo, sono certo che raggiungerei la perfezione!”
Dura la vita, dopo i 77 anni. Tempo libero, preziose ore. Giorni, settimane, mesi. Periodi trascorsi a leggere il giornale, guardare la televisione, visitare mostre d’arte nella vasta città di Tokyo. Finché non si giunge a porsi il quesito: possibile che non ci sia qualcosa di più in questo lungo periodo della terza età? Ed allora, il Sig. Horiuchi fece l’impensabile: varcata la soglia di un negozio d’elettronica, acquistò un PC. Lo portò a casa, e con un metodo frutto dei molti anni trascorsi a disegnare ed elaborare progetti, gradualmente iniziò a svelarne i segreti. Così facendo, da autodidatta, gli venne un idea. “Avevo sempre desiderato fare il pittore…” Racconta nelle interviste concesse a diverse testate internazionali: “Ma il problema era il costo della tempera, dei pennelli e le tele. Sono parsimonioso. Per questo l’arte digitale mi ha subito convinto, con la sua praticità e convenienza.” Sapete cos’altro richiede, tuttavia, un budget decisamente significativo? I programmi di grafica digitale. Lui subito decise, quindi, di fare quello che (forse) avremmo fatto tutti al suo posto: iniziò a disegnare utilizzando Microsoft Excel.
Il Deus ex machina della riparazione dei tombini
Se ci venisse chiesto di nominare, tra tutte le innovazioni intercorse in campo tecnico fin dagli albori della società civile, quale sia quella che maggiormente ha influenzato il nostro stile di vita nel contesto urbano, non credo che avremmo particolari esitazioni nell’indicare con gesto sicuro la stanza del WC. Il tempio che ci consente, ogni qual volta se ne presenta la necessità, di elevarci al di sopra delle nostre necessità biologiche, occupando un ambiente completamente privo di contaminazioni di qualunque provenienza, più puro e immacolato di quanto sarebbe disposta ad offrirci la stessa natura. Ma come per la punta dell’iceberg proverbiale, l’oggetto di ceramica verso cui rivolgiamo la nostra ammirazione non è che una minima parte dell’intero sistema, il pistillo di un fiore che getta le sue radici giù, in profondità, oltre lo stesso asfalto che ricopre le strade della nostra quotidianità. In ciò che potrebbe costituire l’apparato circolatorio dello stesso contesto urbano, il corso del fiume sotterraneo e il sentiero di mattoni gialli che conduce fino al fino al mago di Oz. Si tratta certamente di un sistema che offre un certo grado di ridondanza, eppure inevitabilmente condizionato dagli stessi problemi di un vero e proprio essere vivente. Blocchi. Intasamenti. Sarebbe della pura e semplice ingenuità, a tal proposito, porre un limite al vasto ventaglio di guasti che può subire. E fu in corrispondenza di questa presa di coscienza, grosso modo, che i primi ingegneri civili compresero la necessità d’includere nei loro progetti la presenza del tombino. Una via d’accesso, verticale come si trattasse di un camino, verso le viscere sotterranee della questione. Imprescindibile miglioramento il quale, come spesso capita, portò con se ulteriori complicazioni. Chi si sposta in macchina, le conosce particolarmente bene: poiché non particolarmente facile, risulta essere l’inclusione di un coperchio di metallo che sia perfettamente in linea con il manto stradale, ed ancor più problematico diventa mantenere tale stato dopo che si è reso necessario il ripristino dello stesso, tramite l’aggiunta di ulteriori strati di catrame bituminoso. Più e più volte attraverso gli anni, finché il coperchio metallico, raggiunto il punto critico della questione, non finisca per diventare una sorta di tassello concavo, che mette a dura prova le sospensioni dei veicoli e qualche volta, purtroppo, fa cadere i più distratti tra gli utilizzatori delle due ruote. Come dirimere, una volta giunti a questa situazione estrema, una simile questione? C’è un modo soltanto: scavare tutto attorno al pozzo verticale, finché non torni ad affiorare in superficie la condotta, ed effettuare un’ulteriore colata di cemento e asfalto, in asse con la nuova superficie stradale. Operazione che richiede, nella migliore delle ipotesi, almeno un paio di giornate complete di lavoro. Nel corso delle quali è inevitabile che il traffico subisca delle deviazioni. O almeno, questa era la prassi fino all’altro ieri. Lasciate invece che vi presenti Mr. Manolo; pardon, volevo dire Manhole. (Parola inglese che indica, semplicemente, il “buco per le persone” attraverso cui le tartarughe ninja intervenivano sul teatro dell’ennesima malefatta concepita dal malefico clan del Piede)
Un attrezzo specializzato come sanno esserlo soltanto quelli provenienti dal contesto nordamericano, in quegli Stati Uniti in cui è frequente che intere aziende di successo sorgano attorno alla necessità di risolvere un singolo, importante problema. Realtà operative come l’ultima creazione di Michael Crites della Crites Excavating che dalla sua sede presso Lima, in Ohio, si è espanso fino alla vicina cittadina dal nome familiare di Delphos, per iniziare la produzione di un sistema che potremmo definire rivoluzionario, a dir poco. Immaginate: la ditta appaltatrice che arriva sulla scena del misfatto e in pochi minuti, con gesti nati dalla lunga pratica, toglie il coperchio e inizia a lavorare. Quindi la piccola ruspa sollevatrice che viene posta in posizione e in l’applicazione di un dispositivo dall’alto grado di specificità, taglia, solleva e sostituisce. Tempo necessario per portare a termine l’operazione? Poco meno al massimo, di un’ora. Sarebbe difficile non percepire, a questo punto, l’importanza di far conoscere un sistema simile anche ai nostri sindaci e assessori…