L’insigne dinosauro che commemora la leggenda dei mega-bulldozer italiani

La natura, le antiche città storiche, la tradizione poetica e musicale. L’arte. Così direzionato è il sentimento patriottico dell’abitante della splendente penisola, che in molti spesso tendono a dimenticare quell’Italia tecnologica che ha fatto dell’ingegno il proprio emblema internazionale. La capacità d’individuare il corso pratico per la risoluzione di un problema, che possa essere allo stesso tempo completa ed interessante, persino magnifica per gli occhi di coloro che riescono a comprenderne le implicazioni profonde. Magari transitando a gran velocità sotto il cavalcavia della SS 14 Venezia Giulia, mentre si scorge a bordo strada la più poderosa, ingombrante, straordinaria macchina mai concepita entro i confini di Portogruaro, affascinante borgo definito in precedenza come “la Venezia dell’entroterra”. Per i suoi palazzi storici, le chiese, l’architettura medievale e l’alto numero di canali, che si diramano dal corso del fiume Lemene fino alle propaggini più esterne del centro abitato. Dove sorgeva, 40 anni a questa parte, una delle più rinomate industrie di produzione dei veicoli pesanti del Nord Italia. Tanto celebre, nello specifico, da rispondere a frequenti ed importante commesse internazionali. Compresa quella di un celebre, per quanto problematico capo di stato. È una vicenda per lo più aneddotica ma d’altra parte ragionevolmente probabile, secondo cui Gheddafi in persona avesse contattato l’imprenditore Umberto Acco, titolare dell’omonima compagnia locale, per comunicargli le misure del suo sogno spropositato. Il dittatore libico aveva infatti l’intenzione d’intraprendere un misterioso progetto di miglioramento delle proprie infrastrutture stradali, o secondo alcuni la posa di nuovi tubi della sua rilevante filiera di produzione del petrolio. E l’avrebbe fatto mediante l’utilizzo di alcuni dei più poderosi mezzi da cantiere che avessero mai calcato il suolo terrestre, incluso un bulldozer destinato a raggiungere il peso di 183 tonnellate. Un progetto il quale, all’inizio dell’embargo con le Nazioni Unite varato nel 1986 per l’accusa di assistenza offerta alle organizzazioni terroriste, sarebbe scemato nell’iperboreo di possibili ucronie alternative.
Ma c’è senz’altro della sincera passione e grande sicurezza produttiva, persino artigianale nelle probabili modalità impiegate, nell’ultimo residuo giallo paglierino di una tale mansione feconda, un tempo quasi demolito ma oggi custodito al sicuro entro i confini del vivaio e galleria d’arte con collezione di macchinari “Beijaflor”. Che dal 2012 ospita orgogliosamente, per volere del vecchio vicino ed amico di Umberto, Roberto Valerio il leggendario Super Bulldozer, capace di costituire l’invida su scala globale di un particolare gruppo di appassionati. Quelli capaci di comprendere l’importanza di qualcosa di unico, nonché detentore di una significativa quantità di record assoluti nella produzione di un dispositivo di siffatta entità. Rispetto a cui, sino alla data odierna, nessuno sembrerebbe provato l’esigenza di mettere alla prova i propri stabilimenti…

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Il Deus ex machina della riparazione dei tombini

Se ci venisse chiesto di nominare, tra tutte le innovazioni intercorse in campo tecnico fin dagli albori della società civile, quale sia quella che maggiormente ha influenzato il nostro stile di vita nel contesto urbano, non credo che avremmo particolari esitazioni nell’indicare con gesto sicuro la stanza del WC. Il tempio che ci consente, ogni qual volta se ne presenta la necessità, di elevarci al di sopra delle nostre necessità biologiche, occupando un ambiente completamente privo di contaminazioni di qualunque provenienza, più puro e immacolato di quanto sarebbe disposta ad offrirci la stessa natura. Ma come per la punta dell’iceberg proverbiale, l’oggetto di ceramica verso cui rivolgiamo la nostra ammirazione non è che una minima parte dell’intero sistema, il pistillo di un fiore che getta le sue radici giù, in profondità, oltre lo stesso asfalto che ricopre le strade della nostra quotidianità. In ciò che potrebbe costituire l’apparato circolatorio dello stesso contesto urbano, il corso del fiume sotterraneo e il sentiero di mattoni gialli che conduce fino al fino al mago di Oz. Si tratta certamente di un sistema che offre un certo grado di ridondanza, eppure inevitabilmente condizionato dagli stessi problemi di un vero e proprio essere vivente. Blocchi. Intasamenti. Sarebbe della pura e semplice ingenuità, a tal proposito, porre un limite al vasto ventaglio di guasti che può subire. E fu in corrispondenza di questa presa di coscienza, grosso modo, che i primi ingegneri civili compresero la necessità d’includere nei loro progetti la presenza del tombino. Una via d’accesso, verticale come si trattasse di un camino, verso le viscere sotterranee della questione. Imprescindibile miglioramento il quale, come spesso capita, portò con se ulteriori complicazioni. Chi si sposta in macchina, le conosce particolarmente bene: poiché non particolarmente facile, risulta essere l’inclusione di un coperchio di metallo che sia perfettamente in linea con il manto stradale, ed ancor più problematico diventa mantenere tale stato dopo che si è reso necessario il ripristino dello stesso, tramite l’aggiunta di ulteriori strati di catrame bituminoso. Più e più volte attraverso gli anni, finché il coperchio metallico, raggiunto il punto critico della questione, non finisca per diventare una sorta di tassello concavo, che mette a dura prova le sospensioni dei veicoli e qualche volta, purtroppo, fa cadere i più distratti tra gli utilizzatori delle due ruote. Come dirimere, una volta giunti a questa situazione estrema, una simile questione? C’è un modo soltanto: scavare tutto attorno al pozzo verticale, finché non torni ad affiorare in superficie la condotta, ed effettuare un’ulteriore colata di cemento e asfalto, in asse con la nuova superficie stradale. Operazione che richiede, nella migliore delle ipotesi, almeno un paio di giornate complete di lavoro. Nel corso delle quali è inevitabile che il traffico subisca delle deviazioni. O almeno, questa era la prassi fino all’altro ieri. Lasciate invece che vi presenti Mr. Manolo; pardon, volevo dire Manhole. (Parola inglese che indica, semplicemente, il “buco per le persone” attraverso cui le tartarughe ninja intervenivano sul teatro dell’ennesima malefatta concepita dal malefico clan del Piede)
Un attrezzo specializzato come sanno esserlo soltanto quelli provenienti dal contesto nordamericano, in quegli Stati Uniti in cui è frequente che intere aziende di successo sorgano attorno alla necessità di risolvere un singolo, importante problema. Realtà operative come l’ultima creazione di Michael Crites della Crites Excavating che dalla sua sede presso Lima, in Ohio, si è espanso fino alla vicina cittadina dal nome familiare di Delphos, per iniziare la produzione di un sistema che potremmo definire rivoluzionario, a dir poco. Immaginate: la ditta appaltatrice che arriva sulla scena del misfatto e in pochi minuti, con gesti nati dalla lunga pratica, toglie il coperchio e inizia a lavorare. Quindi la piccola ruspa sollevatrice che viene posta in posizione e in l’applicazione di un dispositivo dall’alto grado di specificità, taglia, solleva e sostituisce. Tempo necessario per portare a termine l’operazione? Poco meno al massimo, di un’ora. Sarebbe difficile non percepire, a questo punto, l’importanza di far conoscere un sistema simile anche ai nostri sindaci e assessori…

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Come forgiano le flange in Cina

Fantastico, meraviglioso pezzo tondeggiante di un tubo, praticamente la parte migliore: perché ottimo è senz’altro… Far scivolare i fluidi, grazie alla pressione della fisica applicata, da un luogo basso ad uno alto, avanti e indietro, e viceversa all’incontrario. Ma tutto questo non sarebbe nulla, se non si potesse fare affidamento sulla possibilità di unirne assieme due. Già, ma come? Si prende una coppia di condotte, non importa quanto grandi ed ingombranti, e si dal’ordine all’istante, senza alcuna esitazione: “Tubi, diventate un solo tubo. Tu, tubo, tutto e possibile se ti unisci con il tuo fratello.” Secondo l’anima e le convenzioni della forgia, grazie al pezzo che si chiama flangia. Che sarebbe poi un anello, con la forma di un cilindro aperto sopra e sotto, fatto per essere saldato al termine dell’autostrada tubolare. Ed avvitato, quindi, a un suo gemello unito a quello svincolo che segue verso l’obiettivo… E così via, fin’oltre l’orizzonte delle cose.
Non possono esistere acquedotti senza flange. Né oleodotti. O impianti di riscaldamento. Aria condizionata. Tre Anelli ai Re degli Elfi sotto il cielo che risplende […] Uno per l’Oscuro Sire chiuso nella reggia tetra […] Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli. Forgiato nelle fiamme del Monte Fato! Come ormai sappiamo bene, grazie agli anche troppi film girati attorno a questa storia. Un vulcano molto attivo, che purtroppo, o meno male, non si trova in Cina. Come fabbricano i loro ninnoli dotati di un Potere Trascendente, quindi, gli abitanti di un simile paese? Ecco a voi una possibile soluzione: il Grande Martello (dei Nani?) Questo è un video che sta riscuotendo un grande successo online, soprattutto perché pochi fra il grande pubblico, fin’ora, avevano trovato il modo di apprezzare una simile particolare procedura. Il team dei fabbri locali, con l’assistenza di un gigantesco e torreggiante maglio, sono all’opera presso quella che sembra essere una comune strada di periferia (sai quanto saranno contenti i vicini!) Sotto cui manovrano l’enorme lingotto di materiale acciaioso, riscaldato al calor rosso, affinché questo assuma la specifica forma desiderata. Manovrano LETTERALMENTE, come giocolieri, perché in questa particolare deriva dell’industria metallurgica moderna non è previsto l’uso di uno stampo di alcun tipo, e tutto, tranne il battito, viene essenzialmente fatto ancora a mano. Con ciò intendo, usando le più lunghe tenaglie che abbiate mai visto, e girando il lingotto ogni qualvolta sia necessario grazie all’assistenza di un muletto. Del resto, siamo nella Terra di Mezzo (letteralmente 中国, Zhōngguó.) Dove l’abilità manuale, tanto spesso, supplisce all’assenza di mezzi o metodi procedurali in merito alle norme di sicurezza. Avete visto, per esempio, l’ombra di un respiratore? O qualche cuffia per la protezione auditiva? Appunto, ahimé.
Il che non significa che sia un nostro diritto assumerci l’impegno di fermarli. Perché persino oggi, con l’ampio catalogo di processi industriali più automatici come la fusione, la forgiatura di un componente offre notevoli vantaggi strutturali. Certo! C’è una grande differenza tra squagliare il metallo e farlo solidificare nella forma, oppure batterlo violentemente finché questi non l’assuma: perché nel primo caso, la struttura cristallina degli atomi che lo compongono tenderà a diffondersi in maniera stabile e uniforme. Mentre nel secondo, torturata e contorta dall’opera semi-distruttiva, andrà necessariamente a concentrarsi in un reticolo di punti forti, situati proprio nelle zone cardine di ciascun pezzo. Proprio per questo, l’apparentemente antiquata forgiatura è ancora un approccio importante alla creazione di quei pezzi che dovranno andare a sopportare il massimo della tensione strutturale, come parti di motori, serbatoi a pressione, chiuse per le dighe e beh…Devo dirlo? La creazione delle migliori flange. Ma ci sono molti metodi di perseguire lo stesso risultato…

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Quanti chiodi stanno nella bocca di un carpentiere giapponese?

hiwadabuki

Con l’obiettivo chiaro nella mente di un perfetto tetto costruito alla vecchia maniera, ovvero spiovente e ricoperto da tegole utili a far scivolare via pioggia e neve, il capocantiere medio cerca tutto, tranne la velocità. Poiché “presto e bene” è la rappresentazione utopica di un’unione di fattori, che molto spesso appaiono configurarsi, piuttosto, come un duplice binario. Da una parte realizzazione rapida di quanto commissionato, dall’altro un ottimo lavoro. È dunque inevitabile che l’aforisma, fin troppo spesso sussurrato da colui che non si occupa di queste cose, venga sostituito con un’altro, grossomodo corrispondente a “non è una gara”. Tranne nei casi in cui, si! È una gara. O non può fare a meno…Di sembrarlo. Pur non mettendo in competizione diretta due semplici persone, bensì l’estetica di un metodo trascorso, con la rapida efficienza del fantasma di una sparachiodi. Che nei fatti, qui non c’è neppure. Guarda, investigatore della scena, e stupisci. Due addetti alle costruzioni giapponesi, la cui nazionalità appare chiara dal torii (arco sacro) rappresentato sui caschi, compaiono nel video mentre sono intenti in un’attività istantaneamente riconoscibile, benché molto diversa dalla nostra tipica interpretazione: essi stanno ricoprendo un tetto. E le loro tegole, chi le ha mai viste? Sono nei fatti letterali pezzi di corteccia, grezzi e al naturale, strappati via dall’albero di hinoki (Chamaecyparis obtusa, un cipresso) e poi tagliati a strisce di 50 cm di lunghezza, 10 di larghezza, singolarmente messi in posizione e poi inchiodati, l’uno dopo l’altro, su almeno tre strati sovrapposti. Il che, sostanzialmente, implica per un tetto di medie dimensioni…Qualcosa come svariate migliaia di chiodi, usati per tenere in posizione un qualcosa di endemicamente molto più leggero, e quindi meno stabile, dei nostri coppi di ceramica o le altre soluzioni più moderne. Ora il costruttore occidentale, al prefigurarsi di una tale mole di lavoro, assai probabilmente metterebbe il risultato al primo posto, e impiegherebbe senza esitazioni ogni tipologia di meccanismo disponibile, per assicurare il più semplice conseguimento dell’effetto finale. Ma come sa bene chi conosce la cultura del Giappone, non c’è niente, da queste parti, di più importante delle tradizioni. E anche se il committente non dovesse esser lì presente ad osservare il compito in fase di svolgimento, egli ci terrebbe senza dubbio a sapere che tutto è stato fatto con un metodo e criterio decoroso. Che poi significa, del tutto a mano.
Hiwadabuki: si tratta di una procedura tanto strana dal risultare quasi inquietante. Anzi, diciamolo, del tutto preoccupante (per l’esofago di coloro che la rendono possibile). I due operai maglietta-bianca e nera, come primo gesto, afferrano con la mano destra una generosa manciata di chiodi, che per gli stessi motivi di cui sopra non erano stati realizzati in ferro, nossignore, ma sottili schegge di bambù. A tal punto risulta sottile, e quindi facile da perforare, il particolare materiale fatto oggetto della loro attenzione. Quindi avvicinano il pugno alla bocca, lo aprono e ne inglobano gioiosamente il contenuto. Senza deglutire e questo è un bene. Altrimenti, non avrebbero avuto neanche il tempo d’impiegare un metal detector prima di correre presso l’ospedale più vicino. E poi, trattandosi di legno, a che sarebbe mai servito? Completata la prima delicata fase, fido martello saldamente in mano, hanno avviato il vortice dei gesti ripetuti: la mano verso il volto, labbra in fuori, piccolo chiodino che raggiunge la sua posizione, pam-pam-pam; mano verso il volto, etc. etc. Procedendo con metodo ed astuta precisione, dal basso verso l’alto (ciascuna fila dovrà coprire metà di quella sottostante) in breve tempo la piena estensione dell’opera è conclusa. Tempo, quindi, di ricominciare più in alto: sembra di assistere all’opera di una stampante a getto d’inchiostro. Anzi, perché no, ad aghi…

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