Costruire una casa ad emissioni ridotte, che si curi fino in fondo del benessere dell’ambiente nella zona di Upstate Newyork, è già un’attività sufficientemente piena d’incertezze. Che cosa fareste, voi, se la compagnia contattata per procurarvi la più importante delle risorse, vi segnalasse che sotto di voi si trovano delle “caverne”? Compagnia di trivellazione, tanto per essere chiari, contattata per scavare un’apertura verticale per la profondità sufficiente ad avere un buon flusso d’acqua. Salvo riportare, dopo la determinante giornata di lavoro, sul rapporto operativo la dicitura CAVES AT 110 FEET (esattamente 33 metri). Quando questo è successo Bethyalamode, titolare del blog The Methany Green House e canale YouTube annesso, la sua esitazione non è continuata per lungo tempo. Egli desiderava vedere coi propri occhi la verità e se possibile, riuscire a farlo nel minor tempo possibile. Fortuna che, visto il suo interesse per la divulgazione sul Web dell’intero progetto edilizio, si era recentemente dotato di una telecamerina portatile GoPro, del tipo fornito già di puntuale impermeabilizzazione fino alle medie profondità. Così col supporto dei suoi familiari e in modo particolare del padre, ha ben presto prodotto il sistema esplorativo da loro denominato “Baby Jessica”, costituito da una lunga e solida corda al cui termine si trovavano un peso per l’affondamento, una bottiglia di plastica per la stabilizzazione, due torce luminose ed un aggancio sicuro per lo strumento digitale in grado di testimoniare l’intera faccenda. Non è fantastica, l’epoca in cui viviamo? Un tempo, per poter scoprire ciò che si trova in fondo ad un pozzo di trivellazione, sarebbe stato necessario disporre di sistemi radiocomandati dal prezzo mostruosamente importante. Piuttosto che rischiare, al massimo, qualche centinaio di dollari se tutto fosse andato per il peggio. Ma udite, udite, così non fu. E guardate qui, se volete, l’affascinante risultato finale.
Un pozzo creato secondo l’approccio costruttivo più diffuso negli Stati Uniti per uso domestico prevede, generalmente, un’apertura verticale in corrispondenza della superficie non più larga di 10 pollici (25 cm) per la semplice interpretazione che vede una tale entità come nient’altro che un tubo, creato per prelevare l’acqua direttamente dalla falda acquifera sottostante. Nel momento in cui si rende necessario disporne, per la mancanza dell’acqua corrente nella zona in cui si sta creando casa, viene occasionalmente chiamato il rabdomante, un mistico cercatore che attraverso la predisposizione innata, e uno o più bastoncini a forma di lettera dell’alfabeto (“Y” ed “L” sono le più diffuse), si orienta verso il punto in cui si ritiene presente la maggior quantità del fondamentale fluido trasparente che crea la vita. Il che è indicativo di come, in effetti, una differenza di pochi metri nel punto di scavo possa cambiare completamente la velocità di ripristino, tramite la falda acquifera, di quanto verrà consumato lavandosi le mani o facendo la doccia. O perché no, bevendo dopo un filtraggio quel soave prodotto delle più profonde viscere della Terra. Passaggio fondamentale, quest’ultimo, come esemplificato dai primi secondi del video, in cui si vede Baby Jessica procedere oltre la parte incapsulata più prossima alla superficie, con involucro di plastica e strato esterno di bentonite (un tipo di cemento del Montana) fino alla più immediata superficie dell’acqua, visibilmente disseminata da una certa quantità di scorie marroni semi-galleggianti. Nient’altro che ossido di ferro, creato come effetto collaterale dall’esistenza di batteri come la siderocapsa e la gallionella. Qualcosa d’inaspettato nell’acqua ritenuta potabile, benché si tratti effettivamente di creature non nocive nell’organismo umano, benché una proliferazione eccessiva possa creare significativi problemi, come l’intasamento dei tubi e la compromissione del buon sapore dell’acqua. Ciò detto, le compagnie di trivellazione raramente si preoccupano di un problema che si presenterà soltanto ad anni di distanza, per lo più offrendo l’opportunità di effettuare un costoso intervento risolutivo (generalmente, tramite l’impiego di generose quantità di cloro.)
Oltre questo spazio per lo più nebuloso, in cui è impossibile scrutare con efficacia verso le oscure profondità, quindi, la telecamera procede nel suo viaggio all’interno di un mondo letteralmente sconosciuto.
tecnologia
Ciò che non vi hanno mai detto sul fucile M1 Garand
La leggendaria arma in grado di vincere la seconda guerra mondiale, che sta agli Stati Uniti d’America come Excalibur all’Inghilterra Medievale. Con una singola, insignificante differenza: di questi ne furono prodotti approssimativamente 5,4 milioni. Tutto merito della catena di montaggio, derivazione pratica delle moderne soluzioni industriali. Chi non conosce un simile arnese, alla fine? L’abbiamo visto più volte al cinema, e non soltanto nei film bellici che andavano di moda 30, 40 anni fa. Le nuove generazioni lo hanno sperimentato, in effetti, grazie alla pletora di videgiochi immessi sul mercato sull’onda del successo stratosferico del primo Medal of Honor, uscito esattamente un anno dopo il successo ai botteghini di Salvate il Soldato Ryan di Spielberg. Ed è difficile dimenticarla, anche soltanto in forza del suo funzionamento così evidentemente DIVERSO da tutto quello contro cui veniva utilizzata: ecco un fucile dal fuoco completamente semi-automatico, negli anni ’40 dello scorso secolo, perfettamente solida, affidabile, pur essendo antecedente al concetto di caricatore. Per usare la quale, ci si aspettava che il soldato inserisse direttamente la clip dei proiettili facendo arretrare l’otturatore nella parte superiore, ragione per cui, una volta inseriti gli 8 proiettili calibro .30, non ci si aspettava di aggiungerne degli altri fino al caratteristico suono “DING” emesso dal meccanismo a gas rotativo al termine della raffica, durante l’espulsione automatica della graffetta che teneva assieme le munizioni. Un suono tanto riconoscibile,p che si diceva costituisse un pericolo per i soldati, poiché informava il nemico che per i prossimi due o tre secondi non sarebbero stati in grado di rispondere al fuoco. Ma la realtà è che in guerra, raramente ci si trova a combattere uno contro uno. E i tedeschi o i giapponesi, durante i conflitti a fuoco, sapevano bene che il nemico aveva sempre almeno un compagno di squadra, il quale si era ben guardato da esaurire le sue risorse in contemporanea con chi gli avrebbe protetto a sua volta le spalle. E tutti e due, così facendo, avanzavano verso l’obiettivo. No, il problema dell’M1 Garand, definito dal generale Patton “Il più grande implemento bellico mai costruito” era semmai un altro. Di natura certamente più triviale, eppure così dannatamente, sgradevolmente doloroso…
Hickok45 è uno di quei produttori di contenuti su YouTube i quali, nonostante la delicatezza degli argomenti che tratta occasionalmente in nello scenario geopolitico vigente, non vedranno mai calare sulla loro opera il temuto martello della demonetizzazione. Semplicemente troppa fiducia ispira il suo pacato modo di fare, la voce tranquilla, i continui riferimenti al fatto che lui spara soltanto per “divertimento, sport e divulgazione storica”. Più volte criticato per la maniera irregolare in cui gestisce l’otturatore girevole-scorrevole di certi fucili della seconda guerra mondiale, ha ad esempio risposto: “Altrimenti diventa faticoso. Quando saprò che sto per andare in battaglia con uno di questi, mi preoccuperò di usarli nel modo che voi definite giusto.” Chi l’avrebbe mai detto? Creatività nell’uso delle armi da fuoco. E una naturale simpatia, che traspare da molti degli approcci esplicativi, come nel qui presente nuovo segmento creato attorno ad uno dei pezzi più amati della sua collezione, l’M1 Garand di ordinanza prodotto ad ottobre del 1943 (“Forse vi ricorderete…” minimizza da sotto il gran paio di baffi “…di un qualche piccolo conflitto in quegli anni.”) Video che si preoccupa di mostrarci, forse per la prima volta, un problema con cui dovevano avere a che fare quotidianamente tutti i membri della fanteria degli Stati Uniti d’America: il cosiddetto pollice Garand. È una questione che nasce, se vogliamo, dalla stessa poca fiducia che il progettista omonimo canadese, su precise istruzioni del comando centrale, aveva avuto nel soldato di linea medio, al quale era stato deciso di non assegnare un caricatore estraibile, che egli avrebbe potuto smarrire in battaglia. Così che ci si aspettava da lui, come già accennato, che inserisse i proiettili direttamente con le dita, facendo affidamento sul blocco automatico dell’otturatore. Peccato che, soprattutto dopo un lungo utilizzo, tale meccanismo finisse per avere un’affidabilità dubbia. Così che, una volta spinte a fondo le clips, capitava che a volte la molla lo spingesse improvvisamente in avanti. Con una forza sufficiente a spezzare nettamente in due una matita!
Razzo nel cielo con incidente imprevisto a SoCal
“Caro, guarda la strada, guarda la strada. Guarda la stradaa ano ba ‘yan!” Era rimasta la sua abitudine, nei momenti più concitati, passare di nuovo al tagalog, la lingua dei loro genitori. Nonostante i lunghi anni trascorsi negli Stati Uniti, assieme al marito e i loro figli educati prevalentemente in inglese. Ma il senso latente di terrore, si sa, non conosce confini. “Sinabi mo! Este… La COSA si sta avvicinando…” La cosa, guarda caso, era una Toyota Corolla il cui autista tutto faceva, tranne prestare attenzione. E fu allora che avvenne il tamponamento. Che la dashcam, telecamera di bordo per automobili, fosse la fonte di 999 video dagli improbabili presupposti, oramai Internet ce l’aveva insegnato da tempo. Disastri mancati, ubriachi e folli al volante, carri armati che attraversano la carreggiata in Russia e chi più ne ha… Particolarmente da quelle parti, del paese più vasto del mondo, dove sono ormai anni che la frode assicurativa è talmente diffusa, da aver convinto il cittadino medio a registrare ogni singolo evento che gli si pari innanzi mentre percorre la striscia d’asfalto urbana. E così anche negli Stati Uniti, per ragioni diverse, particolarmente lungo la Costa Ovest, dove notoriamente “sorpassare a sinistra” è considerato un consiglio e tutto appare lecito, tranne mancare di rispetto ai limiti di velocità. Ma la legge dell’abitudine, si sa, appiattisce le aspettative. Così che non sembrava esserci più niente in grado di suscitare in noi un qualsivoglia grado palpabile di stupore, proprio quando, incredibilmente, siamo arrivati ad un nuovo livello. Avevate mai visto dal vero un UFO? Oggetto Volante non Identificato, concetto il quale, contrariamente all’opinione comune, non deve necessariamente indicare un alieno. Bensì anche un evento, dall’origine tutt’altro che incerta, che improvvisamente si palesa nel cielo, costringendo tutti i presenti a farsene testimoni, col mento orientato verso l’alto ad almeno 45°. Casi come quello verificatosi lo scorso 22 dicembre a partire dalle 17:27, tutto attorno alla base militare di Vanderbilt nella contea di Santa Barbara (California del Sud) quando decine di migliaia di persone hanno visto formarsi al di sopra delle loro teste una figura spettrale dalle dimensioni spropositate, simile nella forma a una medusa dei mari del Pacifico. Che ha assunto progressivamente una forma più allungata, mentre procedeva con moto obliquo rispetto alla linea dell’orizzonte, lasciandosi dietro una scia bianca di luminescente condensazione, che ad un tratto si è separata dal corpo centrale, trasformandosi in suggestiva spirale. Un fenomeno che, inevitabilmente, si è propagato sulle onde di Internet neanche si trattasse di un terremoto, mentre le ipotesi più assurde si susseguivano da un hub social all’altro: “Deve trattarsi di un disco volante… No, è certamente un missile lanciato contro la patria dell’apple pie. L’unica spiegazione, ascoltate a me: un vortice interdimensionale verso il pianeta Xen.” Finché per la fortuna di tutti, una volta che i fatti si erano già compiuti, a qualcuno non venne in mente di accendere la cara vecchia televisione, prendendo atto di cosa realmente si trattasse: il razzo Falcon 9 di SpaceX, lanciato su mandato dell’imprenditore di origini sudafricane del settore auto elettriche Elon Musk, allo scopo di portare in orbita l’ennesimo carico di satelliti per le telecomunicazioni, del progetto Iridium, pensati per offrire la banda larga ad ogni più remoto recesso del nostro pianeta, poli inclusi.
Era proprio in quel momento, per un puro caso del destino, che la famiglia filippina di Mark Sales si trovava casualmente su una delle molte strade che conducono alla città di Los Angeles, quando il dramma ha iniziato a dipanarsi al di sopra della troposfera. Uno spettacolo di luci assolutamente straordinario, definito in gergo l’effetto twilight (nessun collegamento alla saga dei vampiri innamorati) ovvero crepuscolo, poiché tende a verificarsi esclusivamente in quel momento della giornata, con cielo perfettamente limpido e privo di nubi. Proprio per questo, risulta essere piuttosto raro: consiste, essenzialmente, in un lancio del tutto riuscito che si ritrova ad attraversare gli strati superiori dell’atmosfera proprio quando il sole, recentemente tramontato, si trova in posizione tale da raggiungere coi suoi raggi la regione del lancio avvenuto solamente ad altissima quota. In modo che le molte particelle di carburante dei motori, prevalentemente d’acqua ed idrogeno, espulse ad alta quota ed immediatamente congelatasi alle bassissime temperature in quota, si ritrovino a rifletterne la luce, come in una versione indiretta dell’ampio catalogo di prodigi celesti, che includono arcobaleno, parelio, falsa alba e via così a seguire. Ma forse la spiegazione migliore ce l’ha data, con il suo solito stile, proprio il capitalista patròn di Tesla e di tutto questo, organzzatore dell’intero happening pre-natalizio, sul suo profilo Twitter: “Nuclear alien UFO from North Korea” È proprio vero che i miliardari hanno un fantastico senso dell’umorismo…
Il visionario dell’oceano che si pulisce da solo
C’è una naturale progressione che emerge, osservando in ordine alcune delle numerose conferenze tenute a partire dal 2012 da Boyan Slat di The Ocean Cleanup, il giovane imprenditore olandese che è riuscito a far concentrare sul suo progetto fondi per oltre 30 milioni di dollari, con la finalità ultima di ripulire il Grande Vortice di spazzatura nel Pacifico, assieme agli altri quattro che minacciano la vita marina di questo pianeta. È la testimonianza del percorso di un ragazzo appena diciottenne, quando salì per la prima volta sul palco dell’organizzazione TED, per annunciare al mondo la portata fenomenale della sua idea, visibilmente nervoso nonostante il valore del suo messaggio al servizio di un’idea. Poi gradualmente più sicuro di se e della difficile dizione in lingua inglese, per ciascuna apparizione pubblica, fino all’ultima del maggio scorso ad Utrecht, in cui domina il palco ed il pubblico come un capo d’azienda ormai consumato. In un’occasione, non perfettamente connotata da una didascalia esplicativa (cos’era questo? Un evento per la stampa? Una pubblicità divulgativa?) in cui fa di tutto: cammina tra la gente mentre espone dalla passerella, attorno ad un monitor orizzontale con la forma tondeggiante della Terra che pare uscito da un film di James Bond. Estrae da un contenitore alcuni esempi di quella stessa plastica che costantemente minaccia, a causa del fenomeno della fotodegradazione in mare, di sminuzzarsi in particelle sempre più piccole e impossibili da recuperare, finendo all’interno della catena alimentare con tutto il suo contenuto di sostanze tossiche in grado di uccidere gli animali. E per loro tramite, prima o poi, fare lo stesso a noi. Quindi al momento cardine dell’intera faccenda, portato in scena dal pubblico una sorta di acquario, descrive puntualmente il modellino contenuto al suo interno. Un sistema, proposto come assolutamente rivoluzionario, che potrebbe permetterci di portare a compimento una delle imprese più importanti mai tentate nel campo dell’ecologia. Visto così in piccolo, ridotto alla dimensione di una trentina di centimetri, non fa una grandissima impressione: si tratta di una diga galleggiante a forma di parabola, con un’ancora da trascinamento disposta all’interno di una corrente artificiale, generata da un’elica al di sotto dell’inquadratura. Le implicazioni, tuttavia, diventano chiare nel momento in cui Slat getta nell’acqua alcuni frammenti di polistirolo: poiché mentre lo stesso flusso, in maniera progressivamente più enfatica, li spinge innanzi, non può riuscire a farlo a un comparabile ritmo con il congegno galleggiante. Che quindi nel giro di pochi secondi, li blocca all’interno del suo semicerchio, conducendoli, per effetto unicamente dell’inerzia, alla posizione culmine dell’intera faccenda. Dove un’imbarcazione apposita potrà, nel caso del congegno realizzato su scala reale, raccoglierli nel giro di pochi minuti o ore. Comprendente il significato di tutto questo? Perché mai impiegare il sostegno di un costoso ed inquinante motore, quando ci si trova già all’interno della più grande lavatrice della Terra? Tutto ciò di cui sarà necessario preoccuparsi, sarà far muovere la propria barriera più lentamente di quello che si ha intenzione di raccogliere dal mare. Inoltre, poiché quest’ultima non è una rete, bensì un qualcosa di solido, non c’è niente in cui i pesci possano restare impigliati, permettendogli facilmente di evitarla nuotando al di sotto del suo lento passaggio.
Ritornando quindi con l’occhio della memoria a quella prima conferenza di cinque anni fa, possiamo vedere l’idea originaria di cosa, effettivamente, dovesse costituire in origine la letterale chiave di volta di questo arco disegnato sulla superficie marina: una piattaforma fissata sul fondale, con la forma idrodinamica di una manta ray, dotata di un aspiratore in grado di rimuovere dal flusso marina quanto precedentemente radunato. Di questo particolare aspetto del concept non si parla più in tempi recenti, probabilmente perché ritenuto economicamente non praticabile o inutilmente complicato. Ma per il resto, il progetto è andato avanti ad un ritmo decisamente sostenuto. Nel 2014, prima ancora che la dialettica del suo ideatore riuscisse a guadagnarsi il supporto di facoltosi filantropi come Marc Benioff della Salesforce e Peter Thiel della Royal DSM, The Ocean Cleanup poté avvalersi dei circa 2 milioni di dollari raccolti online, grazie all’ormai immancabile campagna di crowd-funding costruita per chiedere al pubblico un piccolo, eppur significativo contributo.