Brütsch Mopetta, l’invenzione retrofuturista di un ovetto a motore

L’uomo ricco e di successo guardò fuori dalla sua finestra, osservando la strana carovana con l’accenno insopprimibile di un sorriso. Georg von Opel, nipote e figlio dei due imprenditori che avevano fondato, e poi venduto, l’omonima compagnia produttrice d’automobili, si fermò quindi per un attimo cercando di frenare l’ironia, mentre l’ospite da lui stesso invitato fermava la massiccia Mercedes W-120 col suo rimorchio monoasse contenente una minuscola convertibile facilmente riconoscibile come la Pfeil (Freccia) oltre a quelle che sembravano due cabine da sidecar sul tetto, seguìta da una 170 V, anch’essa oberata dallo stesso carico ed un motorino nel portabagagli. Egon Brütsch, in quel fatidico 1957, aveva esattamente 53 anni eppure non sembrava dimostrarne più di 30, mentre con la forza ricevuta in dono dall’entusiasmo scaricava, una dopo l’altra, le due minuscole vetture sul tetto della “nave madre”, per poi fare cenno alla seconda auto il luogo del parcheggio ideale. Vettura dalla quale scese la ragazza della pubblicità in persona, probabilmente facente anche funzioni di segretaria ed aiutante di quello che avrebbe potuto definirsi, per un transitorio momento, l’inventore più famoso di tutta la Germania Occidentale. I due, mentre Georg iniziava la lunga discesa della sua grande villa in Assia, finirono quindi di disporre il campionario nel suo giardino, aspettando con aria nervosa l’attimo e il momento della verità. Percependo l’attimo di svolta, ed il possibile inizio, di una rivoluzione motoristica che avrebbe potuto coinvolgere l’intera Europa. E fu allora che il portone della villa, con un movimento repentino, si spalancò ad offrire una speranza per il domani.
Non esistono registrazioni del primo, probabile incontro tra l’unico erede di una cifra pari a 20 milioni di lire alla metà del secolo, oltre che praticante della disciplina del canottaggio in cerca di validi progetti da finanziare ed il quasi coetaneo, ex pilota sportivo di motociclette e automobili preparate da lui stesso, figlio di un facoltoso capitalista produttore di calze da donna a Stoccarda, che aveva scelto d’impegnare l’eredita paterna per coltivare le sue due più grandi passioni, l’innovazione tecnologica e i motori. Attivo a partire da soli tre anni prima, con una serie di tre innovative micro-auto con il corpo in plastica e fibra di vetro, Egon aveva acquisito il culmine della sua fama durante la scorsa Fiera della Motocicletta di Francoforte (IFMA) al centro della quale aveva scelto di esporre, nel suo stand relativamente piccolo, un’espressione completamente nuova del concetto di automobile. Il “piccolo motoscafo”, come aveva scelto di ribattezzarlo la stampa causa l’improbabile promessa di farne un anfibio, con la sola posizione di guida, un’elegante forma bombata e il singolo faro anteriore, simile a un potente occhio di Polifemo. La seconda analogia più diffusa, inevitabilmente, fu quella con l’unico veicolo comparabile ad aver conseguito un successo internazionale venendo prodotta su licenza da BMW, la Iso Isetta di Bresso, in Lombardia. E fu così che l’emulo tedesco scelse di chiamare la sua vettura, seguendo una delle più proficue vie del marketing, Mopetta, collocata ad arte nel punto più alto dell’allestimento in fiera. Proprio perché risultava, allo stato attuale, ancora priva di meccanica interna, telaio, ruote e soprattutto, un motore. Entro pochi mesi tuttavia, cavalcando l’onda di un successo di pubblico e copertura mediatica da lui stesso insperati, l’intraprendente creativo aveva già trovato alcune soluzioni percorribili verso l’effettiva commercializzazione futura. Tutto quello che gli mancava, a quel punto, era un investitore…

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L’ingegnoso espediente del tronco giapponese a due piani

Piattaforme in legno e fronde oltre la curvatura dell’orizzonte, fin dove l’occhio riesce a spingersi lungo l’irto declivio. Alberi sul lato della strada, sopra cui crescono ulteriori Alberi. Geneticamente uguali; ma esteriormente, diversi. Cos’ha creato il surreale paesaggio che caratterizza la regione giapponese dei villaggi di Takagamine, Takao, Kumogahata e Kitayama? Di certo, in una simile stranezza, dev’essere coinvolta la possente ed instancabile mano dell’uomo!
La moda è quell’influsso, simile a una carica elettrostatica, che ogni cosa percorre modificandone profondamente le caratteristiche fisiche immanenti; non sottovalutate mai, se potete, l’effetto che la moda può avere sull’aspetto dei luoghi e le persone, le preferenze operative di quest’ultime, la stessa forma e l’aspetto del paesaggio in cui abitiamo. Ci fu un tempo, nel Giappone dell’epoca pre-moderna, in cui colline intere attorno alla città di Kyoto vennero dedicate alla coltivazione di uno specifica tipologia di materiale. Ciò era legno e poco più di quello, ma anche molto un quantum straordinariamente significativo, oltre a quello. Era il tempo dei guerrieri in armatura, pronti a cavalcare dentro il turbine della battaglia. Che al ritorno dal caos e gli spargimenti di sangue del Sengoku Jidai (Paese in Guerra) pretendevano di riposarsi in uno spazio sereno e quasi mistico, la più perfetta applicazione della filosofia al concetto di spazio creato da, in base agli specifici bisogni e per l’uomo. Zen: se c’era stato qualcuno responsabile, in prima persona, di averlo trasformato in una linea guida dei processi architettonici vigenti, quel qualcuno fu senz’altro il monaco, filosofo e “maestro del tè” Sen no Rikyu (千利休, 1522 -1591) consigliere del signore della guerra Toyotomi Hideyoshi il quale, come molti altri nella sua non troppo comoda posizione, fu infine messo a morte per un disaccordo mai realmente chiarito dalla storia. Non prima di creare e regolamentare una specifica eredità culturale, tuttavia, che sarebbe diventata il fondamento stesso di un particolare approccio alla bevanda tanto utile per affrontare le vicissitudini e le ansie dell’esistenza. Chi creda che agitare il frustino di bambù nella preziosa ciotola, mentre ci si libera i pensieri prima di servire l’ospite d’onore, sia l’essenza e il fondamento ultimo di questa Cerimonia, sta rischiando di mancare essenzialmente il punto. Che consiste nel creare uno specifico momento, a cui si accompagna un contegno, una ragione, un sentimento. L’esperienza in cui lo stesso ambiente, la fondamentale Chashitsu (茶室 – Stanza del Tè) diviene un’interfaccia con il regno della mente sgombra da pensieri che riescano a offuscare la percezione del Tutto (禅 – Zen).
Con la pacificazione del paese, e l’istituzione della somma pax dei Tokugawa successivamente alla battaglia di Sekigahara (1600) l’approccio sobrio ed elegante alla concezione di simili ambienti venne quindi trasformato in un’intera corrente architettonica, dal nome specifico di sukiya-zukuri (数寄屋造り – Stile Raffinato) per distinguersi da quello pre-esistente di shoin-zukuri (書院造 – Stile della sala del tempio) in cui tutto era attentamente definito fino al benché minimo dettaglio, intrappolando la mente nelle regole del mondo terreno. Tale novità portava, tuttavia, anche un problema significativo e del tutto nuovo: poiché le più sontuose residenze realizzate dai signori di un simile società feudale, essendo assai più vaste ed imponenti di qualsiasi sala da tè, richiedevano una quantità proporzionale di pilastri, travi ed altri materiali simili. Che secondo la concezione nata sotto l’egida del mai abbastanza compianto Sen no Rikyu, dovevano essere naturalmente lisci, splendidi e perfetti tronchi, prelevati direttamente da una specifica tipologia di foresta collinare. Doveva necessariamente trattarsi nella maggior parte, in altri termini, del fusto centrale appartenente a un cedro rosso giapponese (Cryptomeria japonica) l’unico albero giudicato degno di costituire i pilastri della fondamentale nicchia del tokonoma (床の間) sancta-sanctorum dell’abitazione rispettabile, innanzi cui far sedere l’ospite, ovvero la tradizionale controparte nell’ormai diluita ed esteriorizzata cerimonia del tè. Il che richiese un’approccio funzionale alla foresteria che si sarebbe rivelato, nei secoli, davvero assai particolare…

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Quando splendenti galeoni meccanici percorrevano le tavole degli elettori di Sassonia

“Per l’Augusto padrone di tutti e sette i Lunghi Mari!” Esclamò con voce roboante il capitano, rivolgendosi al cocchiere sulla tolda della Ludwigslust, osservando nello stesso tempo l’orologio di bordo e l’ingombro passaggio da percorrere verso l’obiettivo finale di quel viaggio avventuroso: “Si preannuncia una difficile giornata”. Rivolgendosi al nostromo fece quindi il cenno, chiaramente noto a tutto l’equipaggio, di dare inizio allo spettacolo: “Quest’oggi riusciremo, finalmente, nell’impresa!” Esclamò tra se e se, gettando per un attimo uno sguardo verso il suo più prezioso passeggero, l’Imperatore Carlo V in persona, assiso sotto l’albero maestro sul suo trono dorato. Con un lieve sobbalzo in avanti, il vascello iniziò quindi a muoversi in mezzo alle torreggianti rocce trasparenti dello stretto mare, ciascuna ricolma di un liquido dalla colorazione differente, mentre un suono tintinnante risuonava oltre le murate scintillanti del galeone: “Non si preoccupi signore” fece l’uomo che stringeva con espressione concentrata il timone: “Abbiamo soltanto urtato un pesce cucchiaio. O forse si trattava di uno squalo coltello?” Dopo qualche ora di navigazione, tuttavia, la loro situazione iniziò a farsi chiara. Figure dai biondi capelli si stagliavano distanti tra la nebbia, come i titani dell’antica mitologia. Alcuni, i meno alti, gridavano con entusiasmo nella loro lingua incomprensibile, scuotendo i marinai nella coffa. I fuochi di candela, alti come vulcani, tremolavano nell’aria lieve della sera. “Avanti con l’orchestra, facciamoci sentire!” Gridò allora il capitano, mentre l’equipaggio, come un sol uomo, tirò fuori i suoi strumenti musicali. Trombe sul ponte, tamburi sopra gli alberi. Qualcuno, nelle viscere della stiva, sembrò aver messo in moto un potente motore spieldose, o come lo chiamavano i francesi, carillon. Era il segnale, naturalmente. In quel preciso istante, la porta della cabina principale si spalancò, mentre un insigne processione iniziò a rendere i suoi omaggi all’immobile, assorta figura di Carlo V. Per primo, chiaramente, l’arcivescovo di Magonza. A cui fece sèguito il duca di Sassonia. Quindi giunse il margravio di Brandeburgo, e dietro di lui, il conte palatino del Reno. Nostromo e timoniere volsero lo sguardo brevemente a un tale insigne convegno, mentre i loro petti si gonfiavano d’orgoglio, per un rito tanto spesso ripetuto nella storia operativa del galeone. Ma non c’era di sicuro il tempo di distrarsi, quando il capitano gridò con enfasi: “Obiettivo in vista, armare il cannone principale!” Come un solo uomo, gli addetti all’arma si affollarono attorno alla grande bocca di drago di prua, l’arma principale della Ludwigslust. Che si trovava, in quel momento, puntata verso un’alta e indistinguibile figura. “È lui, è lui, il falso Dio-Imperatore!” Gridò qualcuno, e poi: “Per Augusto, che il nostro colpo possa trafiggere il suo cuore…” Aggiunse l’artigliere, che ad un semplice quanto drammatico gesto del suo ufficiale al comando, tirò la corda utilizzata per fare fuoco. Un suono roboante scosse il vascello dal profondo, con un rinculo possente in grado di farlo arretrare per almeno un quinto della sua lunghezza. E mentre la nebbia e il fumo iniziavano, finalmente, a diradarsi, la scena si fece più chiara. Innanzi alla prua c’era lui, l’odiato Rodolfo II d’Asburgo. Alto come dieci torri dell’orologio a Norimberga, con un’espressione stranamente deliziata e compunta. Quindi, almeno in apparenza completamente illeso, il nemico invincibile iniziò lentamente a battere le mani. Ben presto gli altri giganti, che ormai circondavano la nave, iniziarono a fare lo stesso, ridendo ed emettendo orribili schiamazzi. E fu giusto allora, che l’equipaggio della nave d’oro ricordò la natura ciclica del suo destino…

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La soluzione urbanistica della città intangibile per l’acqua piovana

Una missione a tutti gli effetti difficoltosa, dal punto di vista ingegneristico. Ma non impossibile: sto parlando di quando di rendere virtualmente non permeabile una “scatola” di cemento, laterizi o altri materiali abitabili, senza comprometterne la durabilità nel tempo. E cosa dire, d’altronde, del processo diametralmente inverso? Quando l’acqua precipita dall’alto in quantità talmente significative che fermarla non è più auspicabile. A meno di voler creare, nei nostri parcheggi, viali e vicoli, la versione improvvisata e spesso indesiderabile di un lago endoreico dall’origine del tutto artificiale. Già, ecco un problema che non riguarda più l’individuo bensì una città intera; il paesaggio urbano che prende un’ambiente naturale e proprio per questo permeabile, rendendolo attraverso gli anni del tutto impervio a qualsiasi compenetrazione da parte della natura. Il che è senz’altro un bene quando si parla di piante, rampicanti, radici, scoiattoli, serpenti, salmoni. Ma costituisce potenzialmente un ostacolo a un sereno prosieguo collettivo non appena una pioggia sufficientemente intensa, oppure continuativa nel tempo, sovraccarica i convenzionali sistemi di scarico che iniziano con tombini o caditoie di tipo assolutamente convenzionale. Oh, infelicità. Ah, sfortuna! Poiché a questo punto, tutto ciò che resta da fare è salutare ogni prezioso oggetto collocato al piano terra mentre il livello dell’acqua sale, e sale ancora. A meno di poter contare su sistemi alternativi, non propriamente convenzionali eppure altamente funzionali allo scopo.
Il concetto del fondo stradale permeabile viene generalmente fatto risalire fino all’Europa del XIX secolo, benché una sua adozione su larga scala abbia probabilmente origine dopo la seconda guerra mondiale, data la difficoltà nel reperire grandi quantità di malta, ghiaietto e ghiaia. Permettendo agli appaltatori delle opere pubbliche di scoprire come, in fin dei conti, utilizzare soltanto la grana più grossa delle materie prime da costruzione non implicasse, necessariamente, un’eccessiva mancanza di resistenza al passaggio degli autoveicoli e il calpestio dei giorni. Compromettendo, piuttosto, fattori come la compattezza e l’impermeabilità, che in determinate circostanze, poteva persino essere visto come un vantaggio!
Al giorno d’oggi sono quindi molte le aziende, in tutti e sei i continenti tranne per ovvie ragioni l’Antartide, che operano mediante un adattamento moderno di tale concetto, dimostrandone l’intrigante funzionalità attraverso una serie di video particolarmente affascinanti. Basta infatti scaricare una copiosa quantità d’acqua ad esempio da una betoniera, come fatto nella famosa dimostrazione del prodotto statunitense Topmix Permeable, per apprezzare la maniera in cui il dolce fluido trasparente scompare, quasi istantaneamente, attraverso la barriera in apparenza invalicabile del parcheggio di un centro commerciale. Il che apre la via d’accesso alla domanda assolutamente legittima di dove, per la precisione, sia destinato a finire tale sostanza visto il proverbio universalmente noto e innegabilmente corretto secondo cui “l’acqua corrode i ponti” e con essi “le rocce”, “le montagne” e persino “gli atolli nel Pacifico meridionale”. Una questione degna, senz’altro, di qualche ulteriore paragrafo di approfondimento….

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