Manifestazione notturna di una delle paure ataviche dell’uomo, è l’incubo di chiunque abbia mai praticato anche soltanto una volta la nobile arte amatoriale della speleologia: trovarsi all’improvviso, senza una ragione registrata a chiare lettere nella memoria, all’interno di un pertugio obliquo da cui liberarsi manca di sembrare facile, o scontato. Apogeo della temuta circostanza, in cui non si può andare avanti e neanche indietro, con tutto il peso del massiccio che minaccia di schiacciare il nostro stesso senso della ragionevole coerenza situazionale. Prendete come termine di paragone, adesso, il caso molto più mondano di essere alla guida e non poter tornare facilmente nella vostra dimora. Bloccati nel traffico, oppure vittime di un sostanziale restringimento della viabilità, o ancora condotti fuori strada da un navigatore che ha dimenticato il volto stesso del suo creatore. Presso luoghi dove tendono a convergere, in maniera non del tutto prevedibile, i due punti estremi dello spettro fin qui delineato, frapponendo un tipo di esperienza notevole ma non del tutto raccomandabile per chi soffra di claustrofobia e/o crisi di panico alla guida. Circostanza videografica del tipo replicato molte volte online, con il tipico profilo di un contenuto virale per Facebook, Instagram, Tiktok e le molteplici alternative non altrettanto famose, osservate per comparazione la notevole sequenza in prima persona di questo singolare attraversamento. Dove l’apertura dall’aspetto totalmente naturale, nel fianco di un rilievo collinare ricoperto di vegetazione, lascia presto il passo ad una vera galleria del tutto percorribile senza lasciare la presa sul volante del proprio fidato mezzo di trasporto su ruote. Un tunnel stradale, da ogni punto di vista rilevante, ma di un tipo che potrebbe non avere termini di paragone nell’intera storia della viabilità antica e moderna. Giacché nulla è stato fatto, nella casistica di chiara pertinenza, per dare uniformità alle adiacenti pareti né coprire con il tipico soffitto ad arco la carreggiata. Il che restituisce l’esperienza incomparabile di stare percorrendo l’antico paesaggio di una caverna carsica, così come la natura stessa ne aveva lungamente scolpito l’estensiva cavità mediante gli acidi presenti nelle infiltrazioni idriche venute dalla superficie. Il che non sarebbe stato poi così lontano dalla verità almeno fino all’anno 2021, quando quasi l’intera collettività di 238 persone del villaggio rurale di Baigong, nella contea di Changshun, provincia di Guizhou ebbe la ragione e il chiaro intento d’imbarcarsi in un progetto collettivo: l’allargamento sistematico del varco in questione, storicamente “percorribile soltanto da cani e gatti” affinché fossero da quel saliente momento gli automezzi e motocicli, a poterlo iscrivere tra i distretti adibiti al transito della propria veicolare esistenza. Così da trasformare l’ora abbondante di tragitto lungo tortuose strade di montagna in appena 10 minuti per passare da un lato all’altro della massiccia barriera paesaggistica. Un significativo quanto apprezzabile margine di miglioramento…
paesaggio
Sotto il ghiaccio dell’Antartide, montagne più alte delle Alpi rinunciano a serbare i propri segreti
La neve candida che scende lievemente può attutire ed attenuare la percezione dei suoni. Trasferisci in proporzione questo effetto, ai ghiacci eterni che ricoprono le zone più remote della Terra, ed avrai l’effetto di un compatto meccanismo in grado di coprire valli, crepacci, scogliere. Persino le montagne. Così Dome A (la “cupola” Alfa) non troppo lontano dal Polo dell’Inaccessibilità, ovvero il punto più lontano dall’oceano di tutto il principale continente meridionale, si erge in qualità di luogo più elevato e al tempo stesso freddo del pianeta. Eppure i suoi 4.087 metri dal livello del mare non svettano in modo visibile, mancando di mostrare alcun tipo di evidente preminenza paesaggistica. Là dove ogni dislivello è graduale, favorendo la tradizionale percezione di un basamento roccioso del tutto simile, nelle profondità del sottosuolo, e per questo all’opposto del territorio comparativamente tormentato mostrato dalla stragrande maggioranza delle lande situate in relativa prossimità dell’equatore. Questo pensavano nel 1958 gli scienziati sovietici della Terza Spedizione Antartica, quando in 27 salirono sopra il treno-motoslitta fatto sbarcare direttamente sul permafrost e diretto verso la stazione di Sovetskaya, singola struttura più vicina allo scenario sopra menzionato, dove le temperature raggiungono in casi estremi i 90 gradi sotto lo zero. E saliti sopra quella rampa spropositata, iniziarono a sondare il suolo con i propri strumenti, rilevando forse la singola cosa più inaspettata possibile al mondo. “Come trovare un astronauta dentro un sarcofago in una tomba egizia” Avrebbero fatto notare in seguito i commentatori dell’impresa. Consistente nell’individuare, e mappare in modo assai preliminare, un’intera catena montuosa a 600 metri di profondità sotto i loro piedi, con un’estensione ed altitudine paragonabile ad alcuni dei più famosi agglomerati di rilievi al mondo. Caratterizzata da una disposizione lineare, proprio come le Alpi nel punto d’incontro tra l’Europa e la penisola italiana, queste montagne battezzate sul momento Gamburtsev dal nome di un sismologo e connazionale degli scopritori, sarebbero perciò state associate ad uno scontro pregresso tra due masse continentali, possibilmente corrispondente alla formazione della super-massa primordiale della Rodinia, risalente a circa 1 miliardo di anni a questa parte. Il che non bastava essenzialmente a far capire come una simile struttura potesse essere sopravvissuta integra alle forze d’erosione, prima che il ghiaccio potesse ricoprirla serbandone fino ai tempi odierni lo svettante aspetto indiviso. Questo, almeno, finché nell’Anno Polare 2008, un consorzio multinazionale di studiosi armati di radar, una rete di sismografi ed aeroplani di perlustrazione non scrissero il secondo capitolo di tale appassionante vicenda. Una storia rivelatasi capace di guadagnare ulteriori conferme e spunti di approfondimento grazie ad un recente studio, appena pubblicato sulla rivista Earth and Planetary Science Letters…
L’oblunga crepa che divide il territorio arido nel parco nazionale delle Canyonlands
Chiaramente nota tra i pochi cervi del distretto, in mezzo a lievi dislivelli e rocce che compongono un paesaggio brullo e caratterizzante, la linea divisoria ha molto lungamente costituito il “bordo della mappa” per innumerevoli abitanti, forme di vita, creature non fornite della pratica capacità di sollevarsi per andare oltre. Un luogo noto per il modo in cui la luce non riesce a penetrare, tanto da essere chiamato sulle guide o i materiali di supporto: the Black Crack, la Spaccatura Nera. Insolita persino nel territorio dall’orogenesi complessa di un luogo come il parco delle Canyonlands, nella parte meridionale dello Utah non troppo lontano da Moab. Lungo l’arduo tragitto stradale della White Rim Road, per cui si richiedono veicoli speciali ed ancor più rari permessi ottenuti dalla contea. Il che non sembrerebbe aver precluso, a generazioni successive d’escursionisti, l’opportunità di scorgere coi propri occhi l’incredibile caratteristica del paesaggio, diventata celebre negli ultimi tempi per il meme internettiano che tenta d’identificarla come niente meno che la faglia di Sant’Andrea. Accompagnata da didascalie evidentemente fasulle, che parlerebbero di 132 Km di lunghezza e 32 di profondità. Laddove l’effettiva crepa, benché significativa in termini universali, non supera in profondità i 20-30 metri ed ha un’estensione di circa un centinaio nonostante la larghezza sia talvolta inferiore al metro. In molti modi più che sufficiente a creare nell’escursionista tipico quel senso di surreale straniamento, per cui siamo ricorsivamente indotti a confrontarci con le anomalie dei luoghi più quotati o fraintesi al mondo.
Trattasi dunque dell’equivalenza in termini di proporzioni, come ben pochi sono attenti a far notare, del crepaccio glaciale di una zona soggetta a strati di permafrost, il che può risulta senza dubbio rilevante alla questione, considerate le origini sostanzialmente non troppo lontane dovute ad escursioni termiche potenti e reiterate. Sebbene in questo caso, verificatosi lungo l’arco di possibili migliaia di anni sul terreno duro d’arenaria, tanto caratteristico delle regioni del parco. E coadiuvate da forze d’erosione come l’infiltrazione idrica ed il soffio instancabile del vento. Egualmente responsabili, di loro conto, per sculture svettanti come l’iconica Isola del Cielo, il Labirinto e gli Aghi. Benché sia difficile negare il fascino di un tale buco, tanto umile nelle caratteristiche quanto funzionale a generare un ricco repertorio di fantasie. Sulla falsariga di: quanti cadaveri si troveranno là sotto? Quanta spazzatura? Quali creature striscianti ed infinitesimali, come bachi fatti prosperare sui confini di uno squarcio sanguinante, intenti a rimuovere i batteri dalla ferita della Terra stessa…
Il ponte super-solido situato sopra il balzo fragoroso del grande fiume Iguazu
Chiunque abbia frequentato per un tempo sufficientemente lungo certi distretti di Internet avrà familiarità intrinseca con la coscienza videografica, pulsione collettiva che allontana l’istintiva percezione del pericolo ogni qual volta si stringe saldamente in mano il cellulare, puntando l’obiettivo della videocamera verso qualcosa di unico, meraviglioso e dunque memorabile per chiunque potrà osservarlo in differita, sui social o altrove. È il segreto pretesto dietro al tipico comportamento di coloro che scavalcano i parapetti del Grand Canyon, o si sdraiano agli estremi margini della Trolltunga, pietra norvegese in bilico sopra l’ondoso abisso del fiordo antistante. Eppure esistono dei luoghi, presso alcuni dei siti turistici potenzialmente più pericolosi al mondo, dove simili comportamenti vengono sapientemente veicolati. Tramite l’installazione d’infrastrutture che paiono soltanto all’ultimo stadio di precarietà evidente; ma costituiscono, in ogni loro singola parte, l’espressione di uno studio ingegneristico davvero approfondito. Offrendo il massimo della sicurezza possibile, considerato un contesto come il colossale ferro di cavallo scrosciante di Iguazu, al confine esatto tra Brasile e Argentina. Per coloro che, atterrati al vicino aeroporto eponimo e saliti sopra il treno dei visitatori che accompagna le persone all’ottava cascata del mondo per flusso idrico complessivo (e certamente una delle più spettacolari, assieme a Niagara e Victoria) ogni predisposizione all’effettivo sdegno del pericolo parrebbe allora realizzarsi, nel momento in cui mettono il primo piede sul cosiddetto Circuito Superiore, una rete d’interconnesse passerelle, costruite primariamente sul lato di Buenos Aires, capaci di condurli a pochissima distanza da un balzo di 40 metri giù nel colossale inferno bianco di schizzi e gorghi fluviali. E fin qui nulla di strano, finché non si guarda verso il basso per prendere atto del flusso medio di 1746 metri cubi al secondo, che in determinati momenti parrebbe concentrato concentrato in buona parte contro quei piloni ben piantati nel suolo basaltico sottostante. Soprattutto quando nel periodo della stagione delle piogge, il livello delle acque s’innalza ulteriormente, evocando l’immagine esecrabile degli abitanti di un centro abitato, che si affollano per raggiungere attraverso un battistrada instabile l’altro lato di un precario attraversamento prossimo alla chiusura. Nulla di più diverso potrebbe d’altronde costituire la realtà, vista la lunga storia ed i trascorsi di acclarata sicurezza degli stretti corridoi, esistenti ormai in diverse iterazioni da un periodo di quasi cent’anni a questa parte…