Le ignote circostanze che plasmarono lo strano nido tra i recessi estremi della Siberia

Nell’alberata vastità dell’oblast di Irkutsk, situato a nord-ovest del bacino idrico del lago Baikal, molte sono le notevoli località capaci di passare inosservate. Persino una caratteristica del paesaggio, caratterizzata come un’asperità o ellissoidale preminenza dal diametro di circa 160 metri ed un colmo sporgente in posizione lievemente decentrata, posto a 40 metri sopra il territorio pianeggiante che lo circonda. Un… Cratere, come l’avrebbe definito lo scopritore Vadim Kolpakov nel 1949, sebbene tale termine parrebbe sottintendere una sicurezza in merito al suo iniziale palesarsi, che in effetti non figura in alcun modo nelle spiegazioni a corredo dell’incerto evento. Tale da causare l’accumulo o l’affioramento di una complessiva quantità di pietra frantumata, principalmente di origine calcarea ma composta anche di arenarie e scisti, quasi come se qualcosa, o qualcuno, avessero svelato un varco verso lo strato geologico sottostante. Giungendo a scambiare, senza soluzione di continuità, il contenuto sotterraneo con quello che si trovava all’esterno. Subito inserita, una volta fatto ritorno alla capitale regionale Bodaibo, nel rapporto del giovane ricercatore impegnato nei rilevamenti di stato, l’anomalia del cratere nella zona del fiume Patom (Patomskiy) non avrebbe dunque tardato nel suscitare l’attenzione delle autorità militari come possibile prova di un test di bombe o altri implementi bellici da parte di un’ignota entità straniera. Ipotesi ben presto corroborata dal rilevamento da parte dei corpi di spedizione di una certa quantità di radiazioni residue. Non abbastanza da costituire un rischio per la salute di un individuo adulto, ma comunque insolite per il tipo di eventualità rappresentata. Ben presto, dunque, le alternative contrapposte iniziarono a sovrapporsi, con l’idea preliminare che il sito potesse costituire il segno dell’impatto di un meteorite, oppure l’esito evidente di un vulcano freddo, affiancate dall’idea che fosse stato l’uomo a generarlo, piuttosto che un qualche tipo di visitatore proveniente da un diverso piano dell’esistenza. Un alieno, se vogliamo. Interpretazione ulteriormente corroborata, a suo modo, dal tentativo di raccogliere informazioni tra i popoli indigeni di etnia Evenki, che si riferivano abitualmente a questo luogo come “Nido (Ghente) dell’Aquila di Fuoco”; un diretto riferimento, senza ombra di dubbio, all’aspetto gibboso capace di ricordare un uovo d’uccello del picco al centro del cratere, una caratteristica frequentemente visibile nelle comparabili casistiche lunari. Ma anche all’ipotetico, non del tutto impossibile evento pregresso nella loro storia per lo più orale, corrispondente all’avvistamento di un oggetto intento a disegnare un arco fiammeggiante sulla tela dell’azzurro cielo. Poco prima d’impattare, con un suono roboante, tra le valli verdeggianti della regione…

Il passo successivo, nell’obbligato tentativo di dare un senso all’esistenza dell’insolita struttura, fu quello di metterla in diretta relazione al cosiddetto evento esplosivo di Tunguska, la deflagrazione nei cieli chiaramente databile al 30 giugno del 1908, possibilmente connessa all’ingresso di un corpo celeste nell’atmosfera il cui punto d’impatto non sarebbe mai stato individuato. Con un epicentro oggettivamente collocato a circa 700 Km di distanza, in una posizione raggiungibile durante il verificarsi dell’episodio, visto un tempo necessario di soli 25 secondi per l’ipotetico meteorite a coprire tale significativa distanza. Visione d’altro canto dalle basi non particolarmente solide, quando si considera la conoscenza della voragine tramandata con successo attraverso almeno tre o quattro generazioni degli abitanti indigeni fin dall’epoca pre-moderna. E destinata ad essere definitivamente smentita verso l’inizio degli anni 2000, mediante il rilevamento dendrocronologico dei segni presenti all’interno degli anelli di crescita dei larici e betulle antistanti che furono capaci di retrodatare l’occorrenza paesaggistica ad un minimo di 300 anni a questa parte. Altrettanto problematica si sarebbe dimostrata, nel frattempo, la spiegazione di un’origine vulcanica o esplosione di gas sotterraneo, vista l’assenza in zone limitrofe delle rocce ignee comunemente associate a tale tipo di occorrenze. Laddove l’impiego di strumentazione contemporanea come radar e lidar aviotrasportati avrebbe permesso d’individuare, almeno in base alle limitate informazioni reperibili online, un corpo ignoto di natura metallica e forma cilindrica sotto l’accumulo di pietre smosse. Rianimando l’interesse pressoché immediato degli ufologi preventivamente scoraggiati fortemente dall’elaborare con il solito elevato grado di approssimazione. Ma anche l’allaccio, questa volta territorialmente non limitrofo, con una leggenda popolare della Yakutia siberiana, incentrata sul caso inspiegabile dei rinomati calderoni di palude. Oggetti metallici varie volte incontrati sul cammino dagli escursionisti o esploratori, semisepolti nel terreno, dall’origine o funzione largamente ignota. Ma che in base ai resoconti potevano scomparire alla vista per lunghi periodi, il che avrebbe spiegato in linea di principio la scoperta tanto tardiva dell’oggetto nella piana alluvionale di Patom. Associazione non del tutto calzante soprattutto nella misura in cui questi ultimi, volendosi basare sulla sapienza popolare, potevano possedere degli effetti benefici capaci di tenere lontani ulteriori impatti meteorici o i terremoti. Laddove il Nido dell’Aquila, in base alle numerose testimonianze raccolte fin dall’epoca di Kolpakov, fu sempre visto dagli Evenki come un luogo tabù e maligno, capace d’infliggere condizioni di salute spiacevoli come nausea o mal di testa ai suoi sfortunati ed al tempo stesso incauti visitatori.

Con una difficoltà intrinseca nel raggiungimento del remoto luogo geografico, unita alla tradizionale resistenza delle autorità russe nel fornire un visto agli studiosi internazionali, i molti misteri del cratere Patomskiy avrebbero per questo continuato a sussistere fino alla data odierna, con ben poche risorse disponibili al fine d’intavolare un percorso di studio o eventuali rilevamenti capaci (letteralmente) di raggiungere il nucleo sotterraneo dell’intera faccenda. Soltanto una conferenza del 2010 dell’Istituto Minerario di San Pietroburgo avrebbe fornito un tentativo ufficiale di fare chiarezza, producendo documentazione in cui l’ipotesi meteoritica veniva scartata ma anche quella vulcanica, per dichiarare conseguentemente il cratere come sito geologico di secondaria importanza, rilevante soltanto dal punto di vista storico e dell’attribuzione culturale. Il che, naturalmente, non spiegava nulla e faceva ben poco per arginare l’incessante turbinio d’idee capaci di convergere sul delicato argomento.
Aggiungete a tutto questo il tipico caos della fin troppo fertile distesa di Internet, per comprendere lo stato di sospensione in cui tutt’ora si trova il latente desiderio, all’interno di ambienti specifici, di spiegare finalmente l’esistenza del gigantesco OOC (Oggetto Fuori dal Contesto) del fiume Patom. Il lascito di un’aquila di fuoco le cui proporzioni totalmente fuori misura parrebbero tutt’ora gettare un’ombra, capace di estendersi attraverso i secoli dei nostri trascorsi. Che senza l’uso di fotografia satellitare o GPS, difficilmente avrebbero potuto immaginare l’originalità del punto d’atterraggio di un mitologico uccello. Il cui grido ininterrotto continua a riecheggiare senza soluzione di continuità, come nota a margine del grande libro parzialmente inconoscibile della nostra lunga Storia.

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