Libellule da guerra: l’idea tedesca della doppia elica nel centro esatto della fusoliera

Nel considerare le multiple sfaccettature tattiche della tecnologia di metà secolo per il conflitto bellico iniziato un paio d’anni prima, la leggendaria Luftwaffe tedesca vide e sviluppò l’applicazione di numerose teorie sperimentali dalle implicazioni avveniristiche, destinate a sfociare in molti degli aspetti che oggi diamo scontati nel campo dell’aviazione. Quella stessa forma mentis d’altra parte, che avrebbe reso gli ingegneri di quell’epoca e contesto delle figure preziose, notoriamente destinate ad essere accolte negli Stati Uniti dopo il termine della guerra, giunse a generare come nella celebre acquaforte di Goya dei veri e propri Mostri intesi come deviazioni dal senso comune, mirati a stupire i superiori della gerarchia del Reich, ancor prima che gli eventuali avversari in un duello aereo. Fino all’eccesso degli ultimi mesi, quando l’ambiziosa ricerca di una wunderwaffe o cosiddetta “arma miracolosa” diventò il punto cardine di una strategia destinata, per diverse ragioni, a realizzarsi con grossolano ritardo sulla vittoria degli Alleati in ogni campo di battaglia rilevante. Non è d’altro canto questo il caso del cosiddetto Daimler Benz Jäger (nome non definitivo) progetto di un caccia pesante e intercettore di bombardieri teorizzato per la prima volta nel 1942, quando la potenza della macchina da guerra della Germania si trovava ancora all’apice e nessun praticante della complicata progettazione aeronautica, per quanto ci è dato desumere, si trovava ancora in situazione tale da dover giustificare l’esistenza della propria carica e dipartimento tecnologico lontano dal fronte di battaglia principale. Il che non si direbbe, a vederlo. Prendete dunque atto della forma relativamente convenzionale di questo velivolo, dotato di una fusoliera tubolare con cabina arretrata e coda ortodossa del tutto simile a quella dell’iconico Bf 109, ali perpendicolari e prive di alcun angolo di diedro, un vistoso benché tipico radiatore frontale ad anello nella parte frontale. Tutto normale quindi, almeno finche l’osservatore non avesse fatto mente locale per l’assenza di un’elica situata in corrispondenza di quest’ultimo elemento, lasciando sospettare in primissima battuta l’esistenza di un motore a reazione nascosto. Ben presto smentita. Essendo stato l’essenziale elemento di spinta dei motori a pistoni spostato e raddoppiato, in maniera totalmente priva di precedenti, giusto dietro la posizione del pilota, in posizione grosso modo centrale nell’asse longitudinale del misterioso aereo. Elaborata dunque l’idea piuttosto preoccupante di cosa sarebbe successo nell’eventualità non del tutto improbabile in cui il suddetto avesse dovuto lanciarsi col paracadute in condizioni d’emergenza, il primo interrogativo destinato a insorgere sarebbe di come, o perché, si fosse giunti nelle auree sale del Ministero della Difesa a dare il via libera a un tale inaudito e irragionevole grado d’eccesso…

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L’alta insegna di cemento che protegge l’astronave cattolica del Minnesota

Forti mura grigie costruite sulla base del criterio di resistenza. Dove domina la forma di montanti parabolici ed interconnessi, traforati per permettere alla luce di passare attraverso. Questo è il “bunker” con la forma di possente parallelepipedo, la cui facciata principale orientata a nord avrebbe ricevuto poca luce negli orari più prossimi all’alba e al tramonto. Se non fosse stato grazie all’edificazione della propria controparte, un insolito edificio piatto e largo la cui costruzione si avvicina largamente a quella di un pannello che voleva accogliere messaggi pubblicitari o slogan politici di qualche tipo. Se non fosse per la sua natura totalmente scarna concepito per riflettere i raggi solari all’interno, dominata unicamente dalla sagoma di quattro campane. Ed al di sopra di queste, una croce tridimensionale che passa attraverso.
Siamo largamente abituati allo stereotipo statunitense, che individua cattedrali nel deserto nella guisa d’imponenti meraviglie, costruite per ragioni differenti lungo il ciglio delle lunghe arterie cementizie, strade interstatali che conducono attraverso il vasto nulla. Per essere il singolo paese maggiormente popoloso d’Occidente, in effetti questa confederazione che occupa in larghezza buona parte di un’intero continente ha larghi spazi dove la natura riesce a farla da padrona ed altre zone intermedie, per lo più rurali eppure oggetto di maestosi ed imponenti progetti edilizi. Fabbriche, centrali elettriche, centri commerciali, opere d’arte. Oppure luoghi dal significato spirituale eminente, come punti di convergenza d’intere comunità religiose destinate a crescere nel tempo. Una di questi fu senz’altro, già pochi anni dopo la sua nascita, il convento benedettino di San Giovanni, fondato a sud di St. Cloud con l’arrivo di cinque rappresentanti della congregazione americana-cassinese dalla Pennsylvania, nella cosiddetta Beautiful Valley, durante l’anno del Signore 1856. Il che avrebbe portato nel giro di un paio di decadi, mediante l’investimento di facoltosi devoti, alla costruzione del cosiddetto quadrangolo, dominato da una svettante chiesa con due campanili gemelli. In un luogo destinato a ricevere nel tempo l’appellativo di Collegeville, per la prestigiosa università cattolica che avrebbe aggiunto nel 1883 i propri edifici al decentrato complesso sul ciglio dell’Interstatale 94. Il che avrebbe visto aumentare drasticamente verso l’inizio del secolo il numero dei membri della congregazione presenti in un dato momento, motivando il progressivo acquisto di ulteriori terreni e l’edificazione di strutture architettoniche addizionali. Verso una direzione destinata a raggiungere il punto di ebollizione all’inizio degli anni ’50 del Novecento, nel momento in cui diventò letteralmente impossibile pronunciare una messa a cui fossero presenti tutte le letterali centinaia di membri attivi dell’istituto allo stesso tempo. Allorché l’intraprendente abate Baldwin Dworschak, dovendo scegliere una strada per arginare il problema, decise di percorrere una strada che praticamente nessun altro avrebbe scelto al suo posto: indire un concorso, chiamando a parteciparvi architetti di larga fama internazionale, affinché una commissione dei suoi confratelli potesse trovarsi a valutare le diverse opzioni a disposizione. Il risultato sarebbe stato qualcosa che nessuna istituzione religiosa di tale entità, fino a quel momento, aveva potuto desiderare di possedere prima di quel particolare momento…

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Il mobile da ufficio creato sul finire della guerra per sbloccare il vasto potenziale della mente umana

Fu così che il paradigmatico ricercatore, una generazione dopo l’altra, poteva aggiungere Qualcosa ogni volta. E quel Qualcosa diventava, mediante l’espansione del corpus concettuale di riferimento, il fluido stesso che forniva l’energia e la direzione al Progresso, di ogni campo tecnologico o in diverso modo rilevante per l’accrescimento della società umana. Per questo si è soliti riassumere l’allegoria nella metafora: “Nani sulle spalle dei giganti”, in riferimento al margine oltre cui tendiamo a espanderci, lasciando incrementare le aspettative in merito ai minuti che siamo predestinati a trascorrere nell’orizzonte materiale degli eventi. Ma è duplice il significato della scelta di una tale direzione, verso l’alto e in contrapposizione con la forza gravitazionale, quasi ad alludere all’incrementale grado di difficoltà che non può fare a meno di presentarsi, una volta dopo l’altra, eternamente rinnovato per riuscire a oltrepassare tale vetta precedentemente acclarata. Ciò a causa della cosiddetta somma collettiva della conoscenza, l’idea non certo effimera secondo cui per produrre qualcosa di nuovo, occorre avere ben presente tutto ciò di pertinente che abbiamo visto fino al presente momento. E non basterebbe una vita, per leggere tutti quei libri… Così come non sarebbe bastata già dalla metà del secolo scorso.
Sulla base di questa preoccupazione il rinomato ingegnere nonché amministratore dell’OSRD (Ufficio della Ricerca e Sviluppo Scientifico) degli Stati Uniti, Vannevar Bush, dedicò parte dell’estate del 1945 alla preparazione di un saggio in larga parte speculativo, che i commentatori privi di fantasia e visione non avrebbero probabilmente esitato a definire come pura fantascienza. Il titolo, As We May Think (Come Potremmo Pensare) non lasciava d’altra parte trasparire il piece de résistance fondamentale, un meccanismo delineato in modo assai specifico, che in breve tempo a suo avviso avrebbe potuto scrivere il primo capitolo di un nuovo e maggiormente democratico sistema dell’Accademia. Il suo nome: Memex e l’aspetto, grossomodo riconducibile a quello di una grossa scrivania da ufficio. All’interno della quale egli immaginava, sostanzialmente, l’intero contenuto della biblioteca d’Alessandria e molto più di questo, grazie all’applicazione della tecnica innovativa per l’epoca della miniaturizzazione fotografica, o microfilm. Il dispositivo in questione, sostanzialmente un tipo di calcolatore elettromeccanico, avrebbe dunque permesso all’utilizzatore non soltanto di consultare in modo rapido l’intero contenuto e proiettarlo sui due “schermi” dal piano inclinato, ma anche inserire le proprie note e soprattutto creare una serie di collegamenti alfanumerici, al fine di collegare determinate pagine o volumi sulla base del proprio pensiero o del proprio settore di studio. Bush aveva descritto a parole, in altri termini, il primo esempio noto di un ipertesto e al tempo stesso un’enciclopedia che poteva essere creata o modificata sul momento grazie all’intervento del suo stesso possessore. Molto più di Internet e al tempo stesso, molto meno…

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Immersione nella storia del primo sommergibile dotato di un motore

Molti sono gli ostacoli sulla strada di un onesto cittadino che, per una ragione o per l’altra, abbia scelto come scopo nella vita di riuscire un giorno a salvare il mondo. Nessuno, tuttavia, più grande e profondo di questo: l’Oceano stesso, inteso come massa d’acqua che costruisce invalicabili confini, mettendo a rischio la sopravvivenza di persone appartenenti a classi giudicate “inferiori”. Questa l’impressione che ebbe assai probabilmente il patriota, ideologo e si, anche inventore Narcís Monturiol di Figueras (Catalogna) durante un viaggio educativo a Cap de Creus, sito costiero nella parte nordorientale del suo paese. Quando a poco meno di 4 decadi dalla sua nascita dovette assistere coi propri occhi all’accidentale annegamento di un ragazzo con la metà dei suoi anni, la cui mansione quotidiana era tuffarsi per raggiungere una delle rare e preziose barriere coralline del Mediterraneo. Allorché lui, dinnanzi alla dolorosa presa di cognizione della ricorrente occorrenza, giurò a se stesso che avrebbe creato un veicolo capace di ridurre il rischio di una tale professione. Un battello pienamente funzionale, capace d’immergersi al di sotto del livello delle acque e restarvi per il tempo necessario a prelevare i tesori degli abissi, mediante l’utilizzo di braccia snodate e reti incorporate. Il risultato fu la prima iterazione dell’Ictíneo, che prendeva il nome da una composizione tra le parole spagnole per “pesce” e “nave”, varato due anni dopo attraverso la laboriosa opera della sua compagnia fondata nel 1857 presso la città ed il porto di Barcellona. Costruito con uno scafo ellittico che ricordava vagamente la forma di un pesce, possibilmente ispirato all’opera del padre di Monturiol che faceva il bottaio, sotto quella scorza esterna in assi di rovere e di pino l’imbarcazione nascondeva un secondo scafo concentrico, potendo incorporare nell’intercapedine l’acqua di zavorra e funzionali quantità di ossigeno per l’equipaggio di quattro persone all’interno. Lungo appena 7 metri e con 7 metri di cubi di capienza, esso era dotato ancora in tale fase di un sistema di propulsione già diffuso all’epoca, consistente essenzialmente in manovelle da girare unicamente grazie all’energia della propria forza muscolare. Il tempo d’immersione, limitato primariamente dalla quantità di aria, era di 2 ore e 20 minuti più volte dimostrate durante le 69 immersioni a fino 20 metri di profondità registrate ufficialmente nel porto della città, che colpirono immediatamente la fantasia della popolazione ma non necessariamente quella degli ispettori cittadini. La situazione in essere, d’altronde, andò incontro ad un brusca battuta d’arresto quando nel 1862, un cargo di passaggio urtò l’Ictineo mentre si trovava attraccato alla banchina, causando danni irreparabili e ponendo, almeno in linea di principio, la parola fine all’ambizione dell’inventore etico catalano. Se non che costui, sognatore di professione con il proprio nome collegato tra le altre cose all’utopia socialista della repubblica di Icaria da fondare nel Texas statunitense, piuttosto che perdersi d’animo decise a questo punto di costruire nuovamente il sommergibile. Più grande, potente e maggiormente funzionale di prima…

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