La giovane donna soprannominata tra i compagni di giochi della tribù col termine numerico Hetasp seguì l’amico Cheoj, nipote del decano dalla lunga barba bianca, nell’incombenza assegnatogli da questi per risolvere un problema della loro piccola comunità pedemontana. “Una cura… Per il raffreddore” disse il ragazzo “Secondo le antiche tradizioni. Più che un rituale della festa: la pozione preparata con precisi gesti ed ingredienti, in base alle canzoni tramandate dalle 427 generazioni dei Tohono O’odham.” Coda di lucertola, occhio di corvo. E soprattutto una manciata di quei semi/frutti bianchi e ricoperti di una candida peluria, appartenenti ad una pianta che la gente del deserto di Sonora definiva “Piccolo fetore” e l’uomo bianco proveniente dalla Spagna hediondilla, “la puzzolente” o creosoto, per l’odore simile all’olio minerale creato dalla legna carbonizzata. Non che avessero buon gusto, visto il soprannome assegnato al loro popolo di Papago o “Uomini dei fagioli”. “A me neanche piacciono i fagioli” pensò lei. “…Ci siamo” disse allora. Avvicinandosi arricciando il naso al verde oggetto degli odierni desideri, i fiorellini gialli sopra i rami contorti non più alti di un paio di metri, la mano destra già protesa ad afferrare uno dei numerosi pom-pom bianchi abbarbicati ad essi, individualmente non dissimili dal dente di leone dei prati nostrani. Quando sollevando il sopracciglio, vide coi suoi occhi quello che chiunque sarebbe stato pronto a definire come niente meno che… Surreale: “Si è mosso! Si è spostato senza vento!” Esclamò, tentando con ostinazione di afferrare il pisacane che correva in direzione perpendicolare alle sue dita disposte ad abbrancare la sterpaglia, quando Cheoj, facendo un balzo agile in avanti, la gettò di lato mentre anteponeva l’avambraccio all’avanzata della strana piccola presenza semovente. E fu allora, con un’esclamazione soffocata, che Hetasp capì quello che stava per succedere. Perché il “seme” si era arrampicato sopra il braccio di lui. E sollevando la sua testa ornata da una paio di lunghe antenne nere, aveva spalancato un paio di mandibole crudeli, pronte a chiudersi causando il ferimento del suo coraggioso salvatore. Ma la cosa più preoccupante stava per succedere all’altro lato dell’insetto, da cui sporgeva, come il dardo di un’arciere, la più vistosa approssimazione acuminata di una lancia da guerra.
Temere… Una formica solitaria? Improbabile. Dopo tutto anche le più diffuse portatrici zampettanti del fuoco d’imenottero, le invasive Solenopsis, sono in grado di creare poco più che irritazioni pruriginose e addirittura la Hymenoptera Clavata, l’atroce formica proiettile della giungla sudamericana, dev’essere impiegata in quantità notevoli all’interno dei guanti punitivi usati come rito d’iniziazione dagli indigeni del popolo dei Mawè. Ed in effetti anche nei momenti in cui svariati esemplari della nostra odierna mutillide, anche detta “formica di velluto” per l’affascinante manto simile alla peluria di un orso polare (o lo scienziato pazzo di Ritorno al Futuro) sussistono amichevolmente sulla stessa pianta dal diffuso impiego medicinale, scientificamente chiamata Larrea tridentata, è raro che si mostrino cooperative l’una all’altra. Questo perché nonostante il nome e la chiara assenza d’ali, costoro non sono affatto delle formiche. Bensì creature parassite appartenenti alla superfamiglia Vespoidea. È abbastanza per riuscire a guadagnarsi una ragionevole distanza di sicurezza verso i margini del Chaparral?
pericolo
La strada dove tutti frenano a Città del Messico ma l’incidente non può essere evitato
Ci sono luoghi, a questo mondo, in cui la prospettiva di una mera inquadratura con il cellulare può riuscire a trarre in inganno lo spettatore. Quando scorri i video di TikTok e vedi, tra le plurime proposte, la scena di una strada in cui ogni singola persona sembra camminare in modo bizzarro: stranamente rigidi ed eretti, le ginocchia che si piegano a malapena nonostante un visibile sforzo fisico e mentale. Le braccia tese lungo il corpo ed orientate in avanti, come se cercassero di mantenersi in equilibrio. Il ritorno da una festa particolarmente alcolica e animata? Oppure una giornata di vento forte che necessità di tecniche particolari, e tutta la loro attenzione, per non cadere rovinosamente all’indietro? Ma è soltanto quando nel riquadro del video compare un edificio, che le cose iniziano a diventare relativamente più chiare: le mura che si stagliano contro il chiarore di quel cielo, chiaramente inclinate ad un angolo di esattamente 45 gradi. Mentre la precisa ragione di tutto questo, a seguito di un breve intervallo di elucubrazione logica e analitica, potrà diventare maggiormente chiaro se soltanto s’inclina la testa da un lato. Per vedere il mondo non come è stato mostrato, ma nella maniera in cui effettivamente si presentava ai presenti, quando sottoposti alla cattura videografica dall’autore che abbiamo appena incontrato. Lo dice, questo è chiaro, anche un famoso proverbio internazionale: “Quando tutto il mondo sembra storto, è la strada sottostante divergere dalla linea di galleggiamento media degli oceani globali.” Essendo, in altri termini, visibilmente inclinata. Il che non toglie la maniera in cui l’avverbio “visibilmente” possa essere nient’altro che un eufemismo, dinnanzi all’esagerata pendenza di un tragitto come quello del Paso Florentino nel quartiere popolare intitolato al “sindaco Alvaro Obregon” possibilmente un omonimo, piuttosto che l’importante generale della Rivoluzione Messicana nel 1910, poi niente meno che il 46° presidente di quel paese. Dove non soltanto i pedoni, ma purtroppo anche le moto, automobili e furgoni tendono ad andare incontro ad un gramo destino. Quello di trovarsi impossibilitate a rallentare, mentre il mezzo di trasporto scivola direttamente o di lato verso il fondo della vallata o fino ad uno dei numerosi ostacoli a bordo strada, più comunemente definiti “case” o “edifici”. Quando non finiscono a ridosso o al di là del basso strapiombo, situato nel punto in cui è possibile cadere oltre i margini stradali dall’altezza di circa un metro e mezzo fin sull’impietoso asfalto della calle sottostante. Un’esperienza tanto comune e frequentemente ripetuta, anche più volte al giorno, da aver motivato l’installazione da parte degli abitanti locali di vistosi e resistenti dissuasori colonnari, più comunemente detti bollard, con la duplice finalità di proteggere le proprie mura e se stessi, ogni qual volta si compie l’avventuroso passo in avanti che porta a poggiare i propri piedi sulle scale ai margini stradali usate per far vece del marciapiede. Il che non permette ancora d’immaginare con piena efficienza, d’altra parte, quello che succede in questo luogo nel momento in cui, volendo il cielo, cominciasse a ricadere una pioggia insistente. Trasformando il paso nella fedele approssimazione di uno scivolo acquatico, in fondo al quale le lamiere contorte inizieranno prevedibilmente ad accumularsi…
Ciclista ci offre l’esperienza di sorpassare 300 rivali mentre scende giù dalla montagna nebbiosa
Dopo una serie di ardue battaglie lungo l’intera dorsale montagnosa del Perù culminanti con il doppio e inconclusivo assedio della capitale Cusco, il condottiero popolare passato alla storia con il nome di Manco Inca Yupanqui riuscì a ritirarsi nel 1536 presso la città roccaforte di Ollantaytambo non lontano dal complesso di Machu Picchu, che avrebbe dovuto costituire la base delle sue operazioni per il resto del conflitto contro i conquistatori europei. I suoi 30.000 uomini, dalla sommità dei propri bastioni, sorvegliavano la Valle Sacra, lungo cui l’armata degli spagnoli avrebbe dovuto passare ed inerpicarsi, sotto il tiro di archi, giavellotti e fionde. Ciò che egli non sapeva, purtroppo, era che il conquistador Francisco Pizzarro aveva nel frattempo preso contatto con i popoli nativi, soggiogati e tassati da generazioni dell’impietosa burocrazia dell’impero. Ed oltre ai fucili, cani e cavalli, la sua avanzata avrebbe potuto trarre giovamento di spropositate quantità di soldati pronti a morire, nella tenue speranza di riuscire un giorno a conoscere la più completa libertà. La battaglia che ne conseguì, a gennaio dell’anno successivo, fu assai probabilmente un massacro senza precedenti nella storia sudamericana, per lo meno nella misura in cui essa è stata tramandata fino ai nostri giorni. Sebbene il numero di vittime, per quanto ci è dato di sapere, resti essenzialmente un dato incerto della vicenda. Così come riesce arduo calcolare ogni anno quanti, tra i partecipanti della gara ciclistica che viene chiamata l’Inca Avalanche (Valanga degli Inca) riescano a tagliare il traguardo illesi al termine dei circa 25-30 minuti di selvaggia discesa attraverso il passo di Abra Málaga e lungo le pendici del Nevado Verónica, montagna nota anche come Urubamba o Padre Eterno per i suoi notevoli 5.893 metri d’altezza. Di cui circa la metà diventano parte di quel tragitto, lungo 22,88 Km, dai margini di un elevato ghiacciaio fino alle propaggini dell’ultima città capace di resistere alle sanguinarie ambizioni coloniali degli Europei. Una folle corsa che sarebbe impressionante anche senza l’impiego dello stesso formato reso celebre dalla Mega Avalanche dell’Alpe d’Huez, che dal 1995 vede fino a 400 riders partire tutti assieme dalla vetta per una cavalcata lungo alcuni dei percorsi sciistici più memorabili dell’Isère. Laddove tale ispirazione appare di suo conto non del tutto priva di un certo livello di prudenza, con svolte elaborate al fine dichiarato di limitare la velocità massima dei partecipanti, e una ragionevole assenza di pericolosi ostacoli come rocce, tronchi d’albero e altri indesiderabili ornamenti del paesaggio, nessun pensiero di tale entità sembrerebbe essersi trovato al centro delle preoccupazioni degli organizzatori locali, come possiamo desumere dagli eccezionali reportage in prima persona offerti da qualche anno dal partecipante ricorrente, e spesso anche primo classificato della gara, il catalano Kilian Bron del Principato di Andorra. Che s’imbarca nella sua ultima impresa in un approccio certamente spettacolare, al tempo stesso non particolarmente raccomandabile, al suo notevole exploit di quest’anno: partire nella seconda e ultima discesa prevista dal calendario della corsa dall’ultima posizione, per poi arrivare primo come capita generalmente soltanto nei videogames. Mera irrealizzabile ambizione o l’obiettivo razionale di chi ben conosce le proprie straordinarie potenzialità? Vi sarà bastato leggere l’intestazione, per capirlo…
Obelischi di basalto nell’oceano e l’impervio sentiero per il faro più remoto d’Islanda
Secondo le leggende ripetute tra la gente di queste parti, la formazione di una colonna basaltica in mare aperto è una faccenda piuttosto semplice: essa trae la propria origine dal fato sfortunato di un troll, intenzionato a rendere la vita impossibile o trarre qualche possibile vantaggio dall’assalto di una nave in campo aperto. Poco prima di rendersi conto di aver calcolato male i tempi, venendo perciò sorpreso dalla luce dell’alba e andando incontro all’irrisolvibile trasformazione in parte del paesaggio marino. Testa, braccia e gambe erose dall’insistenza implacabile degli elementi, la statua vagamente umanoide si trasforma quindi dopo qualche secolo in uno scoglio simile a molti altri, la cui unica caratteristica particolare è la collocazione in posizione totalmente solitaria o per lo più, accompagnato da qualcuno dei suoi simili e altrettanto malcapitati. Di sicuro l’intero approccio scientifico alla faccenda, che prevede l’affioramento di materia lavica durante un’antica eruzione, poi corroso e ridotto fino al nucleo solido che originariamente conteneva al suo interno, non semplifica in maniera molto significativa le conseguenze. Per coloro che nei mari dell’Islanda meridionale, hanno la necessità di muoversi frequentemente, alla ricerca delle foche, balene ed altre fonti di cibo marino che da sempre costituiscono un’importante parte delle risorse alimentari di quel paese. Finché una serie ripetuta di naufragi a ridosso della roccia totalmente priva di approdi circa 7,2 Km a sud di Búðarhólshverfi, costati ogni volta una quantità variabile di vite umane, non portarono all’elaborazione nel periodo tra le due guerre di un nuovo ed ingegnoso piano. Perché non sfruttare gli avanzamenti tecnologici dell’ultimo secolo, per installare una luce di riferimento sulla cima di quella pietrosa struttura? Quella che storicamente viene definita torre del faro, benché nel caso specifico gli stessi 34 metri di elevazione della roccia avrebbero potuto svolgere la mansione di elevate fondamenta strutturali. A patto di trovare un modo, un qualche tipo d’ingegnosa maniera, per raggiungere coi materiali al seguito la remota posizione futura dell’edificio. Presso tale sito definito geograficamente Tridrangar (Þrídrangar – le Tre Dita) nonostante le rocce siano quattro, venne perciò inviato il direttore del progetto Svavar Tórarinsson Sudurgardi, con al seguito una squadra di esperti alpinisti: Torsteinn Sigurdsson, Melstad Vestm, Hjálmar Jónsson Dälum. I quattro, avendo raggiunto il sito in barca nel 1937 e dopo aver preso atto della situazione, decisero quindi di costruire una via ferrata fino alla sommità di Stóridrangur, la più ampia e in apparenza accessibile delle piramidi basaltiche emergenti dalle onde dell’oceano agitato. Dovete considerare, a tal proposito, come l’invenzione dell’elicottero si sarebbe materializzata solamente l’anno successivo, e d’altra parte sarebbero occorse decadi prima che un simile apparecchio potesse essere giudicato abbastanza sicuro da essere utilizzato in mare aperto. Ecco perché l’unico approccio possibile e per questo “scelto” dalla squadra prevedeva l’utilizzo di una completa attrezzatura da scalata, tra cui chiodi, corde ed ogni tipo di piccozza utile in quel tipo di difficili circostanze. Se non che, verso la sommità della cima, la ruvida pelle del troll avrebbe avuto modo di dimostrarsi ancor più coriacea e impenetrabile del previsto…